Corte di Cassazione

Suprema Corte di Cassazione
sezioni unite
sentenza 2 luglio 2015, n. 13568

Ritenuto in fatto

1. – G.T. ha convenuto in giudizio dinanzi al Giudice di pace di Udine il Comune di Udine, chiedendone la condanna al risarcimento dei danno esistenziale, quantificato in via equitativa in euro 2.500, che ha assunto di aver patito quale “cittadino automobilista circolante e fruitore delle strade pubbliche”, per il disagio e l’ansia che gli sarebbero derivati dalla “pratica di pedoni ben vestiti e ben pasciuti, anche deam­bulanti con stampella/e, muniti di cartello, marsupio e berretto” che, all’altezza dell’impianto semaforico esistente all’incrocio tra viale Cado­re e viale Leonardo da Vinci, da oltre un anno erano soliti chiedere de­naro agli automobilisti. A tal fine, l’attore ha addebitato al convenuto, quale ente proprietario della strada, di non avere adottato, ai sensi dell’art. 14 del codice della strada (Poteri e compiti degli enti proprietari delle strade), misure idonee ad impedire o far cessare questi compor­tamenti “molesti”, oltre che “pericolosi per la circolazione”.
Il Comune si è costituito, eccependo il difetto di giurisdizione del giudi­ce ordinario.
2. – Il Giudice di pace, con sentenza in data 22 agosto 2012, ha decli­nato la giurisdizione in favore dei giudice amministrativo.
3. – Con sentenza resa pubblica mediante deposito in cancelleria il 12 settembre 2013, il Tribunale di Udine ha rigettato l’appello dei T..
3.1. – Il Tribunale ha giudicato non pertinente, al fine di radicare la giu­risdizione del giudice ordinario, il richiamo dell’appellante all’art. 2051 cod. civ.
Ha osservato al riguardo il Tribunale che il Comune, quale proprietario o custode delle strade aperte al pubblico transito, è obbligato a curarne la manutenzione, la gestione, la pulizia e l’efficienza con la dovuta dili­genza ed in modo tale da impedire che da esse possa derivare un dan­no alle cose od all’incolumità delle persone.
Ma nel caso concreto – ha proseguito il giudice del gravame – l’appellante non lamenta un danno che gli sia derivato direttamente dalla cosa in custodia (ossia da beni demaniali o facenti parte del pa­trimonio indisponibile della P.A.) per effetto di un’omessa attività mate­riale del Comune e rispetto alla quale l’utente della strada vanterebbe una posizione di diritto soggettivo tutelabile davanti all’autorità giudi­ziaria ordinaria.
Ciò di cui si duole, invece, è – ha proseguito il Tribunale – la mancata adozione, da parte del Comune, di misure atte ad interrompere la pra­tica dell’accattonaggio all’incrocio dove l’attore si trova abitualmente a transitare. Il danno esistenziale lamentato, lungi dal derivare diretta­mente dalla cosa, dipenderebbe dal mancato esercizio da parte del Co­mune di poteri autoritativi volti a porre fine al lamentato fenomeno at­traverso lo sgombero dalla pubblica via dei questuanti che vi indugiano.
Ad avviso dei Tribunale, l’omesso esercizio di tali poteri non può essere considerato un mero comportamento materiale.
La giurisdizione del giudice amministrativo si fonda dunque sull’art. 7 del codice dei processo amministrativo: ove si sia in presenza dell’esercizio o, come nella specie, del mancato esercizio, di potestà pubblicistiche, la giurisdizione del giudice amministrativo si estende an­che alle connesse domande risarcitorie, eventualmente proposte in via autonoma, pur se con esse si invochi la tutela di diritti fondamentali, come quello alla salute.
4. – Per la cassazione della sentenza dei Tribunale il T. ha proposto ricorso, con atto notificato il 1° ottobre 2013, sulla base di quattro mo­tivi.
Il Comune di Udine vi ha resistito con controricorso.

Considerato in diritto

1. – Con il primo motivo si lamenta violazione e falsa applicazione del combinato disposto degli artt. 2051 cod. civ. e 14 del codice della stra­da. Ad avviso dei ricorrente, “l’errore della sentenza impugnata consi­ste nel non voler concettualmente ed oggettivamente equiparare il pe­done fuori posto al tronco caduto sull’asfalto e perciò anch’esso fuori posto rispetto al diritto di circolare dell’automobilista ricorrente”. “I pe­doni che domandano soldi nella carreggiata destinata alla circolazione delle automobili […] non possono rientrare nell’ipotesi del caso fortuito e/o forza maggiore. L’ente proprietario-custode della strada deve elimi­nare materialmente, senza soluzione di continuità, tutte le insidie ed i pericoli che minacciano le garanzie di sicurezza e di fluidità della circo­lazione veicolare, diversamente si rende inadempiente nei confronti dell’avente diritto automobilista ricorrente”.
Il secondo mezzo censura violazione di legge per manifesta illogicità della motivazione. Il ricorrente si sarebbe doluto, sin dall’atto introdut­tivo, “del mancato intervento materiale di rimozione dalla strada comu­nale dell’impedimento di cui a pedoni ben vestiti e ben pasciuti”.
Il terzo motivo, rubricato “violazione di legge per mancanza e contrad­dittorietà della motivazione”, è formulato sul rilievo che il ricorrente a­vrebbe contestato al Comune di non applicare le norme di azione (in base al combinato disposto degli artt. 2051 cod. civ. e 14 del codice della strada) in punto di “fisico ingombro della carreggiata del pedone”.
Con il quarto motivo (violazione di legge per palese contraddittorietà della motivazione) si fa presente che il ricorrente non ha mai accennato alla “mancata emissione di un provvedimento amministrativo”; si de­nuncia pertanto che il Tribunale avrebbe travisato il contenuto delle conclusioni e dell’attività processuale dell’appellante, che ha domandato in realtà la condanna al risarcimento del danno per violazione di un proprio diritto soggettivo.
2. – I motivi – da esaminare congiuntamente, stante la stretta connes­sione – sono infondati.
2.1. – Le censure articolate muovono dalla premessa che i “pedoni che domandano (con insistenza) soldi sulla strada comunale” siano equipa­rabli “al tronco caduto sull’asfalto e perciò […] fuori posto rispetto al di­ritto di circolare dell’automobilista ricorrente”, di talche il Comune sa­rebbe “tenuto alla materiale attività di sgombero della carreggiata da tali pericoli/insidie per garantire la sicurezza e la fluidità del traffico”.
Si tratta di una premessa erronea, essendo del tutto priva di fonda­mento l’equiparazione, tra cose ingombranti e lavavetri all’incrocio o al semaforo, che il ricorrente prospetta rivendicando il diritto all’ordine nelle strade in nome di uno spazio di viabilità asettico.
Quando, infatti, viene in rilievo un’attività umana espressione di una forma di mendicità e di una “semplice richiesta di aiuto” (Corte cost., sentenza n. 519 del 1995) proveniente da chi si trova in condizioni di povertà, non è pertinente il richiamo al dovere dell’ente proprietario della strada di porre in essere una attività materiale, un mero compor­tamento di “pulizia delle strade”, come recita l’art. 14 del codice della strada.
E’ infatti in gioco un ambito in cui l’azione amministrativa, pur indirizza­ta alla tutela di beni pubblici importanti (l’incolumità pubblica e la sicu­rezza urbana), deve muoversi nel necessario rispetto della dignità della persona umana e dei diritti degli “ultimi”, essendo destinata a risolversi in prescrizioni di comportamento, divieti, obblighi di fare e di non fare, che impongono comunque, in maggiore o minore misura, restrizioni a coloro che ne sono destinatari.
Se ne trae conferma dalla sentenza della Corte costituzionale n. 115 dei 2011: la quale – nel dichiarare l’illegittimità costituzionale dell’art. 54, comma 4, del d.lgs. 18 agosto 2000, n. 267, come sostituito dall’art. 6 del decreto-legge 23 maggio 2008, n. 92, convertito, con modifcazio­ne, dall’art. 1, comma 1, della legge 24 luglio 2008, n. 125, nella parte in cui comprende la locuzione «, anche» prima delle parole «contingibili ed urgenti» – ha ritenuto che la previsione di un potere di ordinanza dei sindaci, quali ufficiali del Governo, non limitato ai casi contingibili ed urgenti viola la riserva di legge relativa, di cui all’art. 23 Cost., in quan­to non prevede una qualunque delimitazione della discrezionalità am­ministrativa in un settore, quello della imposizioni di comportamenti, che rientra nella generale sfera di libertà dei consociati, i quali sono te­nuti, secondo un principio supremo dello Stato di diritto, a sottostare soltanto agli obblighi di fare, di non fare o di dare previsti in via gene­rale dalla legge.
2.2. – Tanto premesso, ai fini dei riparto di giurisdizione è decisivo rile­vare come la pretesa azionata con [a domanda abbia ad oggetto un’attività dell’amministrazione convenuta destinata necessariamente ad estrinsecarsi in provvedimenti secondo legge, e quindi non certo ri­ducibile alla sua semplice materialità.
Come hanno ricordato di recente queste Sezioni Unite (ordinanza 18 maggio 2015, n. 10095), “la pretesa a che un’autorità amministrativa eserciti i poteri che la legge le assegna per la tutela di un interesse pubblico non può sicuramente essere configurata come un diritto sog­gettivo di colui il quale quella pretesa voglia far valere in giudizio, né quando essa investa la scelta dell’amministrazione se esercitare o meno quel potere, in una situazione data, né quando sia volta a sindacare i tempi ed i modi in cui lo si è esercitato”.
Non varrebbe a dimostrare il contrario – hanno chiarito le Sezioni Unite con la citata ordinanza – “la circostanza che il cattivo o mancato eserci­zio doveroso de[ potere, qualora ne sia derivato un dato a terzi, legitti­ma costui a pretendere il risarcimento a norma dell’art. 2043 cod. civ., essendo ormai pacifico [ …] che la tutela aquiliana è invocabile per la [e­sione non soltanto di diritti soggettivi, ma anche di interessi legittimi, o più in generale di interessi ad un bene della vita che risultino comunque meritevoli di protezione alla luce dell’ordinamento positivo”. Può dun­que “solo eventualmente qualificarsi come interesse legittimo quello del privato ad ottenere o a conservare un bene della vita quando esso vie­ne a confronto con un potere attribuito dalla legge all’amministrazione non per la soddisfazione proprio di quell’interesse individuale, bensì di un interesse pubblico che lo ricomprende, per la realizzazione dei quale l’amministrazione è dotata di discrezionalità nell’uso dei mezzi a sua di­sposizione”.
Né appare possibile, ai fini che qui rilevano, distinguere tra la situazio­ne in cui si contesti al Comune di avere male esercitato i propri poteri e quella in cui si lamenti la totale omissione dell’esercizio di tali poteri: non solo perché anche in quest’ultimo caso appare difficile negare un ambito di discrezionalità dell’autorità nel valutare la sussistenza dei presupposti che giustificano il suo intervento, ma anche in quanto non si saprebbe neppure come individuare un siffatto ipotetico intervento senza al tempo stesso definirne i tempi ed i modi di attuazione.
Tale è la situazione che si delinea con riguardo ai poteri contingibili ed urgenti che la legge affida al sindaco nelle funzioni di competenza sta­tale al fine di prevenire e di eliminare gravi pericoli che minacciano l’incolumità pubblica e la sicurezza urbana: poteri riguardo al cui eser­cizio (o mancato esercizio) non è dunque configurabile una posizione di diritto soggettivo in capo all’automobilista che percorre la strada comu­nale.
La posizione soggettiva di cui l’attore pretende la tutela non è, nemme­no in astratto, qualificabile in termini di diritto soggettivo, ma, semmai, di interesse legittimo, con conseguente giurisdizione del giudice ammi­nistrativo, giacché, ai sensi dell’art. 7, comma 4, cod. proc. amm., sono attribuite alla giurisdizione generale di legittimità di questo giudice le controversie relative ad atti, provvedimenti o omissioni delle pubbliche amministrazioni, comprese quelle relative al risarcimento del danno per lesione di interessi legittimi e agli altri diritti patrimoniali consequenzia­li, pure se introdotte in via autonoma.
Alla cognizione del giudice amministrativo – giudice del legittimo eser­cizio della funzione amministrativa – sono attribuite le domande di ri­sarcimento del danno che si ponga in rapporto di causalità diretta con l’illegittimo esercizio del potere pubblico, mentre resta riservato al giu­dice ordinario soltanto il risarcimento dei danno provocato da “compor­tamenti” della p.a. che non trovano rispondenza nel precedente eserci­zio di quel potere (Sez. Un., 1° giugno 2015, n. 11292).
In ogni caso, anche se si volesse ipotizzare l’esistenza di una situazione di diritto soggettivo facente capo all’attore, la questione ricadrebbe nell’ipotesi di giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, quale prevista dall’art. 133, comma 1, lettera q), cod. proc. amm., trattando­si di controversia relativa alla mancata adozione di provvedimenti con­tingibili ed urgenti in materia di sicurezza urbana.
2.3. – Va infine rilevato che la dichiarazione della giurisdizione del giu­dice amministrativo non comporta anche una valutazione di sussistenza nell’ordinamento di una norma astratta idonea al riconoscimento e alla tutelabilità della posizione giuridica fatta valere nella specie dal “citta­dino automobilista circolante e fruitore delle strade pubbliche”.
Poiché, infatti, la giustiziabiiità della pretesa dinanzi agli organi della giurisdizione statale costituisce una questione di merito e non di giuri­sdizione (Sez. Un., 16 gennaio 2015, n. 647), spetta al giudice ammini­strativo stabilire se, in concreto, tale interesse legittimo risulti davvero configurabile, e quindi meritevole di tutela, o se invece si tratti di inte­resse indifferenziato di mero fatto che non consente l’accoglimento del­la domanda.
3. – Il ricorso è rigettato.
Va dichiarata la giurisdizione del giudice amministrativo.
Le spese del giudizio di cassazione, liquidate come da dispositivo, se­guono la soccombenza.
4. – Poiché il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 ed è respinto, sussistono le condizioni per dare atto — ai sensi dell’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228 (Disposi­zioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato –
Legge di stabilità 2013), che ha aggiunto il comma 1-quater all’art. 13
dei testo unico di cui ai d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 – della sussi­stenza dell’obbligo di versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione integralmente rigettata.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e dichiara la giurisdizione del giudice ammini­strativo. Condanna il ricorrente al rimborso delle spese processuali sostenute dal Comune controricorrente, che liquida in complessivi euro 2.200, di cui euro 2.000 per compensi, oltre a spese generali e ad ac­cessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, inse­rito dall’art. 1, comma 17, della legge n. 228 del 2012, dichiara la sus­sistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13.

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