Corte di Cassazione

Suprema Corte di Cassazione

sezioni unite

sentenza  16 gennaio 2015, n. 640

Svolgimento del processo

P.A. impugnò davanti alla Commissione tributaria di primo grado di Trento una cartella esattoriale emessa dal concessionario per la riscossione per conto dell’Agenzia delle dogane per il recupero della sauna – definita nella stessa cartella “Dogane, IVA relativa alle importazioni” -, oggetto di una condanna provvisionale pronunciata dal giudice penale con sentenza definitiva, in favore del Ministero delle finanze costituitosi parte civile, all’esito del processo per frode fiscale consistita nell’importazione di mercé con presentazione alla Dogana di dichiarazioni d’intento false, riferibili a società che non potevano fruire del beneficio della importazione senza il pagamento dell’IVA, e nell’aver emesso ed utilizzato, al fine di evadere l’imposta, fatture per operazioni inesistenti.
Nei confronti dei responsabili del reato era stata infatti pronunciata, oltre che la condanna generica al risarcimento dei 7 danni patrimoniali e non patrimoniali, nonché alle restituzioni, la condanna al pagamento di provvisionali immediatamente esecutive.
Tanto la Commissione di primo grado che quella di secondo grado, adita in appello dal P. , dichiaravano il difetto di giurisdizione del giudice tributario.
Nei confronti della decisione P.A. propone ricorso per cassazione affidato a cinque motivi, tre dei quali attinenti alla giurisdizione.
L’Agenzia delle Dogane resiste con controricorso; la spa Equitalia Gerit non ha svolto attività nella presente sede.
La sezione tributaria della Corte ha trasmesso gli atti al Primo Presidente per la rimessione alle sezioni unite sul rilievo che queste non si sono pronunciate sulla questione di giurisdizione in ordine alla controversia instaurata per effetto dell’impugnazione di una cartella esattoriale conseguente all’iscrizione a ruolo di una somma oggetto di condanna provvisionale emessa dal giudice penale concernente “IVA all’importazione evasa”.

Motivi della decisione

Con il primo motivo, proposto ai sensi dell’art. 360, n. 1, cod. proc. civ., denunciando la violazione dell’art. 19, comma 1, lettera d), del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, il ricorrente censura come erronee le decisioni di merito secondo cui non valeva a radicare la giurisdizione delle commissioni tributarie l’essere compresa la cartella di pagamento nell’elenco degli atti impugnabili – “il ruolo e la cartella di pagamento” -, essendo gli atti appartenenti a tale categoria “impugnabili davanti al giudice tributario solo se ed in quanto finalizzati alla riscossione coattiva di un tributo o sanzione amministrativa irrogata da un ufficio finanziario”. Ed assume che, al contrario, “l’importo iscritto a ruolo e richiesto con la cartella impugnata si riferisce proprio ad un tributo, l’iva relativa ad importazioni”, in quanto “la provvisionale immediatamente esecutiva non è altro, cerne prevede il codice di procedura penale, (che) un’anticipazione, in favore della parte civile, che il giudice penale concede, se ve ne sono i presupposti”.
Con il quarto motivo il ricorrente denuncia “violazione dell’art. 360, n. 4, c.p.c. in relazione all’art. 112 c.p.c. per omessa pronuncia su motivi di gravame posti a fondamento dell’impugnazione della sentenza di primo grado”, e segnatamente di quello “relativo alla erronea dichiarazione di difetto di giurisdizione”.
Con il secondo motivo denuncia “violazione di norme processuali con riferimento agli artt. 360, n. 4, 475 e 479 c.p.c.”, dolendosi che la notificazione della cartella esattoriale non sia stata preceduta da quella della sentenza del giudice penale; con il terzo motivo denuncia la “violazione di norme processuali attinenti alla legittimazione passiva ad causarti con riferimento al d.lgs. n. 412/91, in relazione all’art. 360, n. 4, c.p.c.”, per avere il giudice d’appello dichiarato esso ricorrente, e non la srl SIMAC, della quale era stato legale rappresentante, “tenuto al pagamento delle somme dovute per IVA non versata”; con il quinto ed ultimo motivo si duole della omessa ed insufficiente motivazione in ordine alla erronea dichiarazione di difetto di giurisdizione, alla omessa notifica del titolo esecutivo ed alla omessa declaratoria di carenza di legittimazione passiva di esso ricorrente.
Il quarto motivo del ricorso, il cui esame logicamente precede, è privo di pregio, non ravvisandosi il vizio di omessa pronuncia addebitato alla sentenza impugnata, la quale si è invero pronunciata sull’appello (“… rigetta l’appello e conferma la sentenza., non ravvisa motivazione contrarie alla decisione assunta..”), ed in particolare in punto di giurisdizione (“… il Collegio non può che rilevare il difetto di giurisdizione del giudice tributario..”).
Quanto, poi, al vizio di motivazione adombrato con il quinto mezzo “in ordine alla erronea dichiarazione di difetto di giurisdizione”, la censura, formulata ai sensi dell’art. 360, n. 5, cod. proc. civ., si rivela inammissibile, implicando l’interpretazione e l’applicazione di norme di diritto e la soluzione di questioni giuridiche.
Il primo motivo del ricorso, diretto a contestare l’affermata carenza di giurisdizione del giudice tributario sulla controversia, è infondato.
Il Collegio, infatti, nel solco dell’indirizzo ancora di recente manifestato da Cass., sez. un., 18 febbraio 2014, n. 3773, osserva carne, ai fini della delimitazione dell’ambito della giurisdizione tributaria, occorre attribuire esclusivo rilievo alla disciplina dettata dall’art. 2 del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, norma espressamente diretta a definire l’oggetto della giurisdizione tributaria, senza che tale disciplina possa essere, ai fini anzidetti, in qualche modo condizionata, in senso limitativo, da quanto previsto dal successivo art. 19, il quale, agendo su un piano distinto, elenca gli atti che possono, e debbono, essere oggetto di impugnazione dinanzi al giudice tributario. Ciò in quanto l’art. 2 costituisce la sedes materiae per individuare i confini della giurisdizione tributaria, delineati essenzialmente attraverso l’indicazione dei tributi oggetto di controversia, con i relativi accessori.
“Tali confini, prima con l’art. 12 della l. 28 dicembre 2001, n. 448, e poi con l’art. 3 bis del d.l. 30 settembre 2005, n. 203, convertito nella l. 2 dicembre 2005, n. 248, si sono ampliati fino a comprendere le controversie aventi ad oggetto, innanzitutto, “i tributi di ogni genere e specie, comunque denominati” (con esclusione delle controversie riguardanti gli atti della esecuzione forzata tributaria, tra i quali non rientrano le cartelle di pagamento e gli avvisi di mora), e sempre che si tratti di controversie in cui sia configurabile un rapporto di natura effettivamente tributaria, cioè concernente prestazioni patrimoniali imposte di natura tributaria, al fine di evitare la violazione del divieto costituzionale di istituire giudici speciali (Corte cost., sentenze n. 64 e n. 130 del 2008, n. 238 del 2009, n. 39 del 2010; cfr. Cass., sez. un., n. 20323 del 2012): si tratta, quindi, di una giurisdizione attribuita in via esclusiva e ratione materiae, indipendentemente dal contenuto della domanda e dalla tipologia di atti emessi dall’amministrazione finanziaria (Cass., sez. un., n. 20889 del 2006, n. 27209 del 2009). Va aggiunto che, sempre ai fini della sussistenza della giurisdizione tributaria, è altresì necessario – come ha precisato l’orientamento più recente di queste sezioni unite, espresso con riguardo essenzialmente al tema della giurisdizione in materia di rapporti tra sostituto d’imposta e sostituito – che alla controversia non sia estraneo l’esercizio del potere impositivo sussumitele nello schema potestà – soggezione, proprio del rapporto tributario; se si tratta, cioè, di una controversia esclusivamente tra privati, la mancanza di un soggetto investito di potestas impositiva, intesa in senso lato, comporta l’assenza anche del rapporto tributario (Cass. nn. 15031 e 26820 del 2009, 8312 del 2010, 2064 del 2011, 7526 del 2013)”.
“L’art. 19 del d.lgs. n. 546 del 1992 attiene invece, specificamente, alla proponibilità della domanda dinanzi al giudice tributario e, quale espressione della struttura impugnatoria del processo tributario, contiene il “catalogo” (anch’esso arricchitosi nel tempo) degli “atti impugnabili”, cioè degli atti che, se ritualmente notificati, comportano, in ragione della loro ritenuta natura immediatamente impositiva, l’onere della impugnazione, a pena della cristallizzazione della pretesa in essi contenuta; secondo la giurisprudenza di questa Corte, peraltro, la tassatività di detta elencazione va riferita non tanto ai singoli atti nominativamente indicati, ma piuttosto alla individuazione di “categorie” di atti, considerate in relazione agli effetti giuridici da quelli prodotti, con la conseguenza che la norma è suscettibile, in presenza di determinate condizioni, di interpretazione estensiva, in ossequio alle norme costituzionali di tutela del contribuente (artt. 24 e 53 Cost.) e di buon andamento della p.a. (art. 97 Cost.); ciò con la precisazione, quanto agli atti per i quali si ritenga di ammettere la possibilità di una tutela di natura “anticipata”, della mera facoltatività dell’impugnazione, il cui mancato esercizio non determina alcuna conseguenza sfavorevole in ordine alla possibilità di contestare la pretesa in un secondo momento, quando cioè essa si vesta della forma autoritativa di uno degli atti espressamente indicati nell’art. 19 (cfr., da ultimo, Cass. n. 17010 del 2012 e n. 24916 del 2013)”.
“Dalle considerazioni che precedono discende che il dettato dell’art. 19 del d.lgs. n. 546 mentre, per un verso, rafforza la tesi suddetta, secondo cui per aversi controversia tributaria, rimessa alla giurisdizione delle commissioni tributarie, occorre l’esercizio del potere impositivo mediante un atto proveniente da un soggetto investito di detta potestas, d’altro canto, però, non può evidentemente condurre, in ragione della mancanza di tale atto nell’elenco ivi indicato, a precludere l’accesso del cittadino alla tutela giurisdizionale ogni qual volta esista un atto che si riveli comunque idoneo, in ragione del suo contenuto, a far sorgere l’interesse ad agire ex art. 100 c.p.c., come avverrebbe qualora, da un lato, il giudice ordinario correttamente negasse la propria giurisdizione in favore di quello tributario e, dall’altro, quest’ultimo dichiarasse il ricorso improponibile per la non riconducibilità dell’atto stesso all’elenco dell’art. 19”.
Venendo al caso di specie, la controversia non ha ad oggetto tributi, non essendo in essa configurabile un rapporto di natura tributaria, cioè concernente prestazioni patrimoniali imposte, e neppure ha ad oggetto sanzioni amministrative tributarie, ed è pertanto estranea alla giurisdizione tributaria.
L’iscrizione a ruolo effettuata dall’amministrazione e la successiva cartella impugnata davanti al giudice tributario sono infatti relative alla somma di Euro 15.498,56, al pagamento della quale il P. , riconosciuto responsabile in sede penale di frode fiscale, era stato condannato a titolo di provvisionale in favore del Ministero delle finanze costituitosi parte civile, a seguito della condanna al risarcimento dei “danni materiali e morali”, cane si rileva dalla sentenza n. 204/99 del Tribunale di Bolzano, confermata in sede di rinvio dalla sentenza della Corte d’appello di Trento n. 8/04 (decisioni entrambe prodotte con l’atto di costituzione dell’Agenzia delle dogane davanti alla Commissione tributaria di primo grado): “va emessa pertanto senz’altro pronuncia di condanna degli imputati, nei cui confronti vi è costituzione di parte civile, al risarcimento del danno fatto valere dalla parte civile, peraltro con rimessione delle parti davanti al giudice civile…., non consentendo le prove acquisite una compiuta liquidazione in particolare del danno materiale subito dall’erario… appare peraltro opportuno riconoscere sin d’ora alla costituita parte civile Ministero delle finanze le seguenti provvisionali immediatamente esecutive, che vanno imputate, quantomeno, al danno non patrimoniale subito dalla P.A…”.
Quando il giudice penale pronuncia sentenza di condanna, infatti, a norma degli artt. 538, 539 e 540 cod. proc. pen., decide sulla domanda per il risarcimento del danno proposta dalla parte civile costituitasi ai sensi dei precedenti artt. 74 e seguenti; se pronuncia condanna dell’imputato al risarcimento del danno, provvede altresì alla liquidazione, ma se le prove acquisite non consentono la liquidazione del danno, pronuncia condanna generica e rimette le parti davanti al giudice civile. A richiesta della parte civile, “l’imputato e il responsabile civile sono condannati al pagamento di una provvisionale – che è immediatamente esecutiva – nei limiti del danno per cui si ritiene già raggiunta la prova”.
In conclusione, il ricorso deve essere rigettato, assorbito l’esame del secondo, del terzo, e della parte residua del quinto motivo.
Le spese di lite seguono la soccombenza e si liquidano coinè in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte, a sezioni unite, rigetta il ricorso.
Condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio, liquidate in Euro 3.000 oltre alle spese liquidate a debito.

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