Cassazione 11

Suprema Corte di Cassazione

sezione VI

sentenza 9 ottobre 2015, n. 20366

Svolgimento del processo

È stata depositata la seguente relazione.
«1. G.F. convenne in giudizio, davanti al Tribunale di Cagliari, la Parrocchia di Santa Cecilia, quale ente gestore del Duomo di Cagliari, chiedendo che fosse condannata al risarcimento dei danni conseguenti alla sua caduta avvenuta all’interno del Duomo, a suo dire riconducibile ad una non adeguata illuminazione della chiesa e a non adeguata segnalazione delle scale che scendono verso la cripta. Si costituì in giudizio la Parrocchia, chiedendo il rigetto della domanda. Il Tribunale rigettò la domanda, condannando l’attore alla rifusione delle spese di giudizio.
2. Proposto appello dall’attore soccombente, la Corte d’appello di Cagliari, con sentenza del 9 settembre 2013, ha respinto il gravame, confermando la pronuncia di primo grado e condannando l’appellante al pagamento di due terzi delle ulteriori spese del grado.
3. Contro la sentenza d’appello ricorre G.F., con atto affidato a tre motivi.
Resiste la Parrocchia di Santa Cecilia con controricorso.
4. Osserva il relatore che il ricorso può essere trattato in camera di consiglio, in applicazione degli artt. 375, 376 e 380-bis cod. proc. civ., in quanto appare destinato ad essere rigettato. 5. Con il primo motivo di ricorso, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3), cod. proc. civ., si lamenta violazione e falsa applicazione degli artt. 2043 e 2051 cod. civ.; con il secondo, in riferimento all’art. 360, primo comma n. 5), cod. proc. civ., omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia; con il terzo, in riferimento all’art 360, primo comma, n. 3), cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione degli artt. 90, 112 e 132 del codice di procedura civile.
5.1. Il primo motivo non è fondato.
Il ricorrente insiste nell’affermare che la sentenza di appello avrebbe errato nell’applicare gli artt. 2043 e 2051 cod. civ., sul rilievo che la chiesa era, nella circostanza, poco illuminata, che la scala che conduceva alla cripta non era segnalata e che tutte le deposizioni dei testimoni avrebbero confermato la sua versione dei fatti.
Si osserva, in proposito, che, a prescindere dall’inquadramento della fattispecie nell’una o nell’altra delle disposizioni appena richiamate, assume decisiva rilevanza il fatto che la sentenza impugnata ha escluso che l’illuminazione della chiesa fosse inadeguata – l’incidente si è verificato verso le ore 10.30 del giorno 27 settembre, quindi in condizioni ritenute di sufficiente visibilità – aggiungendo che, comunque, le scale e la porta che conducevano alla cripta erano apprezzabili alla distanza di cinque e dieci metri. Di talché, essendo l’accesso alla cripta consentita da un’ampia apertura collocata sotto l’altare maggiore, la Corte d’appello ha attribuito la responsabilità del fatto dannoso ad esclusiva colpa del F., evidentemente intento ad ammirare l’interno dei duomo, riconducibile alla sua disattenzione nella circostanza della caduta.
La giurisprudenza di questa Corte ha riconosciuto che, ai fini di cui all’art. 2051 cod. civ., il caso fortuito può essere integrato anche dalla colpa del danneggiato, poiché la pericolosità della cosa impone un obbligo massimo di cautela, proprio poiché il pericolo è altamente prevedibile. E tale prevedibilità con l’ordinaria diligenza è sufficiente ad escludere la responsabilità del custode anche ai sensi dell’art. 2051 cod. civ. (sentenze 22 ottobre 2013, n. 23919, e 20 gennaio 2014, n. 999). 5.2. Il secondo motivo è inammissibile alla luce dei criteri di cui alla sentenza 7 aprile 2014, n. 8053, delle Sezioni Unite di questa Corte, perché tende a rimettere in discussione una serie di circostanze che non sono state affatto omesse, bensì tutte positivamente valutate dalla Corte di merito.
5.3. Il terzo motivo è infondato.
La Corte d’appello, poiché contestualmente al rigetto dell’appello del F. ha anche respinto l’appello incidentale della Parrocchia – che sollecitava la condanna dell’appellante principale ai sensi dell’art. 96 cod. proc. civ. – ha ritenuto di compensare le spese del giudizio di appello nella misura di un terzo, rimanendo i restanti due terzi a carico della parte effettivamente soccombente.
È evidente che il ricorrente, dato l’esito del giudizio, non può dolersi della mancata compensazione totale.
6. Si ritiene, pertanto, che il ricorso debba essere rigettato».

Motivi della decisione

1. Non sono state depositate memorie alla precedente relazione.
A seguito della discussione sul ricorso, tenuta nella camera di consiglio, ritiene il Collegio di condividere i motivi in fatto e in diritto esposti nella relazione medesima e di doverne fare proprie le conclusioni. 2. Il ricorso, pertanto, è rigettato.
A tale esito segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, liquidate ai sensi del d.m. 10 marzo 2014, n. 55.
Sussistono inoltre le condizioni di cui all’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, liquidate in complessivi euro 3.200, di cui euro 200 per spese, oltre spese generali ed accessori di legge. Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso.

 

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