Corte di Cassazione, sezione VI, sentenza 4 luglio 2016, n.13599

Nel sistema delineato dagli artt. 519 e 525 c.c. in tema di rinunzia all’eredità – la quale determina la perdita del diritto all’eredità ove ne sopraggiunga l’acquisto da parte degli altri chiamati – l’atto di rinunzia deve essere rivestito di forma solenne (dichiarazione resa davanti a notaio o al cancelliere e iscrizione nel registro delle successioni, o anche a mezzo di scrittura privata autenticata), senza possibilità di equipollenti.

La rinunzia all’eredità non fa venir meno la delazione del chiamato, stante il disposto dell’art. 525 c.c. e non è, pertanto, ostativa alla successiva accettazione, che può essere anche tacita, allorquando il comportamento del rinunciante (che, nella specie, si era costituito in giudizio, allegando la sua qualità di crede e riportandosi alle difese già svolte dal “de cuius”) sia incompatibile con la volontà di non accettare la vocazione ereditaria.

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONE VI

SENTENZA 4 luglio 2016, n.13599

Ritenuto in fatto

A.D.G., A.D.G., E.D.G. e S.L.B., in proprio e nella qualità di eredi di C.D.G., convenivano il Ministero della giustizia davanti alla Corte di appello di Caltanissetta chiedendone la condanna al pagamento di quanto ad essi spettante a titolo di equa riparazione per la durata non ragionevole di un processo intrapreso dal loro dante causa e dalla madre, S.L.B., in data 24 ottobre 1997 davanti al Pretore di Sciacca, in opposizione a decreto ingiuntivo chiesto cd ottenuto dalla Sicilcassa s.p.a..
Nel corso di tale procedimento, e precisamente poco prima del deposito della sentenza di primo grado, avvenuto il 18.10.2005, con cui veniva revocato il d.i., decedeva l’opponente D.G. (in data 19 febbraio 2003), per cui l’appello, interposto dalla Cross Factor s.p.a. (cessionaria del credito in esame), avanti alla Corte di appello di Palermo, veniva notificato nei confronti degli eredi ed il processo si concludeva con sentenza depositata il 26 ottobre 2011, di rigetto del gravame.
l.a Corte di appello di Caltanissetta, con decreto depositato il 10 gennaio 2013, ha dichiarato inammissibile la domanda proposta dai ricorrenti iure ereditario, risultando dalla sentenza della Corte di appello di Palermo (pronunciata nel giudizio presupposto) che gli stessi avevano rinunciato, puramente e semplicemente all’eredità relitta di C.D.G.. Per quanto atteneva all’azione proposta iure proprio, osservava che la L.B. aveva agito personalmente in entrambi i gradi del giudizio e determinava in sette anni e cinque mesi il ritardo non ragionevole nella definizione del giudizio, durato complessivamente quattordici anni, da cui andavano detratti tre anni per il primo grado, altri tre anni per l’appello, che era stato di media difficoltà (per la necessità di acquisire documenti) e sette mesi, intercorrenti tra il deposito della sentenza di primo grado e la proposizione del gravame (dal 18.10.2005 al 17.5.2006), non addebitabili al sistema giustizia, per cui liquidava un’indennità pari ad €. 6.666,66, oltre interessi legali dalla domanda.
Relativamente alla posizione degli altri ricorrenti D.G., poiché l’atto di appello del 17.5.2006 li aveva citati in proprio, agli stessi spettava l’equa riparazione e determinato il ritardo quanto al giudizio di gravame in due anni e cinque mesi, a fronte della durata complessiva di cinque anni e cinque mesi (dal 17.5.2006 al 26.10.2011), detratti tre anni, per cui liquidava per ciascuno €. 1.812,50, oltre interessi dalla domanda.
Le spese del giudizio venivano interamente compensate in ragione della peculiarità della fattispecie.
Per la cassazione di tale decisione i D.G. e la L.B. propongono ricorso, affidato a quattro motivi. Il Ministero intimato presso la stessa sede del dicastero non ha svolto difese.
All’udienza del 14.10.2014 veniva disposta la rinnovazione della notificazione del ricorso al Ministero presso l’Avvocatura generale in Roma, adempimento che veniva adempiuto dai ricorrenti in data 6 maggio 2015, in esito al quale l’Amministrazione svolgeva difese con controricorso

Motivi della decisione

Il Collegio ha deliberato l’adozione di una motivazione in forma semplificata.

Con il primo motivo viene denunciata violazione e falsa applicazione dell’art. 2, comma 1, della legge n. 89 del 2001, nonchè dell’art. 6 della Cedu, censurandosi l’affermazione della corte di merito circa l’efficacia attribuita alla rinuncia all’eredità da parte degli stessi, avvenuta puramente e semplicemente, per la delazione dei chiamati non era venuta meno, stante il disposto dell’art. 525 C.C..

La censura è fondata.

Questa Corte ha già avuto modo di affermare che nel sistema delineato dagli artt. 519 e 525 c.c. in tema di rinunzia all’eredità – la quale determina la perdita del diritto all’eredità ove ne sopraggiunga l’acquisto da parte degli altri chiamati – l’atto di rinunzia deve essere rivestito di forma solenne (dichiarazione resa davanti a notaio o al cancelliere e iscrizione nel registro delle successioni) (Cass. 29 marzo 2003 n. 4846; Cass. 12 ottobre 2011 n. 21014; Cass. 20 febbraio 2013 n. 4274), senza possibilità di equipollenti. In coerenza con questo orientamento, si è espressamente escluso che la rinuncia all’eredità possa essere fatta mediante scrittura privata autenticata; in tal senso questa Corte (v. Cass. 11 gennaio 2011 n. 444) si è già espressa affermando (in motivazione): ‘del tutto infondata risulta la tesi in diritto del ricorrente, secondo cui la rinuncia all’eredità può anche essere fatta con scrittura privata autenticata, sia perché contraria alla disciplina di cui agli artt. 519 e 525 c.c., come statuito da questa Corte (tra le altre, Cass. n. 4846 del 2003 cit.), sia perché atto di notevole incidenza in tema di successione ereditaria, riguardo, in particolare, ai chiamati all’eredità e ai creditori’. E’ stato aggiunto che “la rinunzia all’eredità non fa venir meno la delazione del chiamato, stante il disposto dell’art. 525 c.c. e non è, pertanto, ostativa alla successiva accettazione, che può essere anche tacita, allorquando il comportamento del rinunciante (che, nella specie, si era costituito in giudizio, allegando la sua qualità di crede e riportandosi alle difese già svolte dal ‘de cuius’) sia incompatibile con la volontà di non accettare la vocazione ereditaria (v. Cass. 18 aprile 2012 n. 6070).

A tale principio, che va ribadito in questa sede, la Corte di merito non si è adeguata e ha, pertanto erroneamente ritenuto che, con la loro condotta processuale, i ricorrenti abbiano rinunciato all’eredità di C.D.G., e ha, conseguentemente, respinto la domanda loro avanzata di equa riparazione iure hereditatis.

Con il secondo motivo viene dedotta violazione e falsa applicazione dell’art. 2, commi 2 e 3, della legge n. 89 del 2001 e dell’art. 6 della Cedu, censurandosi l’individuazione, per la decorrenza della determinazione del periodo di durata non ragionevole, della data di entrata in vigore della L. n. 89 del 2001, in particolare con riferimento alla detrazione del periodo di sette rasesi intercorrente tra il deposito della sentenza di primo grado e la proposizione dell’appello.

Il motivo è fondato nei limiti di seguito precisati.

La Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali garantisce all’art. 6, par. 1 ad ogni persona il diritto che la sua causa sia definita in un termine ragionevole, davanti a un tribunale indipendente e imparziale costituito per legge. Si tratta di diritto soggettivo perfetto nei confronti dello Stato, che presuppone necessariamente l’instaurazione del rapporto processuale tra le parti del processo e il giudice. Soltanto laddove la domanda sia stata sottoposta agli organi giurisdizionali dello Stato, infatti, sorge il dovere di questi di darvi soddisfazione entro un termine ragionevole. Ne deriva che la durata del processo postula la sua pendenza davanti ad un organo della giurisdizione, e che non può tenersi conto dei periodi nei quali la controversia civile sia sottratta all’esame e alla decisione del giudice, come avviene allorché, essendosi il giudice già pronunciato, con provvedimento definitivo e idoneo alla formazione del giudicato, ancorché impugnabile, alle parti sia lasciato dalla legge uno spatium deliberandi in ordine all’eventuale impugnazione, mentre solo in conseguenza del concreto esercizio dell’azione – in questo caso in via d’impugnazione del provvedimento già emesso – si ripropone l’esigenza di una risposta degli organi della giurisdizione in un tempo ragionevole (v. Cass. 10 maggio 2010 n. 11307).

E’ quindi compito del giudice dell’equa riparazione verificare di volta in volta, tenuto conto delle circostanze delle singole vicende processuali, quale sia in concreto stato il comportamento della parte che chiede l’equa riparazione tra un grado e l’altro, e scomputare dalla durata complessiva del giudizio solo il lasso di tempo non riconducibile, secondo il suo prudente apprezzamento, all’esercizio del diritto di difesa. E’ evidente che, ove una parte, per perseguire un proprio interesse, non si avvalga di una facoltà, come ad esempio quella della notificazione della sentenza a sè favorevole a fini sollecitatori, e lasci quindi decorrere tutto intero il termine lungo per la proposizione dell’impugnazione, non può pretendere che il termine decorso venga tutto intero addebitato alla organizzazione giudiziaria, dovendo al contrario, come detto, il giudice dell’equa riparazione apprezzare in concreto il comportamento della parte stessa anche in relazione al mancato esercizio di detta facoltà.

Escluso, quindi, che possa imputarsi alla parte tutto il lasso di tempo intercorso tra un grado di giudizio e l’altro, spetta al giudice dell’equa riparazione apprezzare nelle singole situazioni concrete quanta parte del tempo occorso per la instaurazione del giudizio di impugnazione sia riferibile ad esercizio del diritto di difesa, come tale non addebitabile alla parte, e quanta, invece, alla scelta processuale delle parti di non utilizzare la facoltà sollecitatoria di cui si è detto, con la conseguenza che il relativo lasso temporale andrà riferito al comportamento processuale della parte (cfr., sul punto, Cass., sentt. n. 10632 e n. 5212 del 2007).

Nella specie, la forte di merito ha scomputato dalla durata complessiva del processo presupposto tutto il periodo compreso fra il deposito della sentenza di primo grado e la notifica dell’impugnazione della stessa – in difformità dal principio di diritto appena enunciato – anziché detrarre il periodo corrispondente al termine previsto per l’impugnazione ed apprezzare la condotta tenuta dalle parti in ordine alla notifica della sentenza. L’accoglimento dei primi due motivi del ricorso, il secondo nei limiti sopra esposti, assorbe l’esame degli ulteriori due mezzi con i quali i ricorrenti lamentano la ‘violazione dell’art. 2, comma 1, della legge n. 89 del 2001, oltre a contestuale violazione dell’art. 6 della CEDU per avere la corte di merito erroneamente determinato l’indennizzo da eccessiva durata del processo, senza riconoscere €. 1.500,00/2.000,00 per ogni anno di ritardo’ (terzo motivo) nonché la ‘violazione dell’art. 92, comma 2, c.p.c. per avere la corte di merito compensato le spese processuali, in assenza dei presupposti’ (quarto motivo). Conclusivamente, il ricorso deve essere accolto nei termini e nei limiti sopra indicati. Il decreto impugnato deve essere cassato, e la causa va rinviata ad altro giudice – che viene individuato nella Corte d’appello di Caltanissetta in diversa composizione – che la riesaminerà alla luce dei rilievi dianzi svolti. Alla predetta Autorità è demandato anche il regolamento delle spese del presente giudizio di legittimità.

P.Q.M.

La Corte, accoglie il ricorso;

cassa il decreto impugnato e rinvia la causa, anche per le spese del giudizio di Cassazione, alla Corte d’appello di Caltanissetta in diversa composizione.

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