Suprema Corte di Cassazione
sezione VI
sentenza 31 marzo 2014, n. 14816
Ritenuto in fatto
1. È impugnata la sentenza n. 2371/12 con la quale la Corte d’appello di Bari, in data 19/10/2012, parzialmente riformando una sentenza resa dal Tribunale di Bari in composizione monocratica, ha ritenuto S.C. responsabile dei delitti di resistenza a pubblico ufficiale e lesioni personali.
Dagli indicati provvedimenti risulta che S. è stato tratto in arresto dopo un duro scontro intervenuto, con due guardie giurate e un agente della Polizia di Stato, all’interno di un locale pubblico. Dopo avere insultato le guardie e percosso una tra esse, l’odierno ricorrente avrebbe risposto in tono insultante anche all’agente di polizia, che a seguito dell’alterco si era qualificato esibendo il proprio distintivo, e poi si sarebbe avventato su di lui, colpendolo con calci e pugni. Le lesioni riportate dalla guardia e dall’agente erano state poi certificate presso i servizi di pronto soccorso del locale ospedale.
Nei confronti di S. era stata promossa l’azione penale per un delitto qualificato mediante riferimento contestuale agli artt. 336 e 337 cod. pen., sul presupposto che egli avesse minacciato le persone offese al fine di costringerle ad astenersi da un atto del loro ufficio, ed avesse poi opposto resistenza mentre le stesse persone offese compivano un atto d’ufficio. Era stato contestato anche un delitto di lesioni personali aggravate, qualificato a mente degli artt. 582, 585, 576, primo comma, n. 1, cod. pen..
L’azione era stata promossa mediante richiesta di giudizio immediato, che il giudice per le indagini preliminari aveva accolto, e S. era stato condannato, in esito al conseguente giudizio dibattimentale, con riferimento ai reati descritti nell’originaria imputazione.
Con la sentenza oggetto dell’odierna impugnazione la Corte territoriale ha inteso rimuovere il giudizio di condanna in ordine al delitto di cui all’art. 336 cod. pen., riqualificando il fatto come reato di ingiurie e minacce in riferimento alle due guardie giurate (con conseguente dichiarazione di improcedibilità dell’azione, dato il difetto di querela), e considerando assorbita la relativa condotta, per il resto, nella fattispecie di resistenza a pubblico ufficiale concernente l’agente della Polizia di Stato.
Valutando una questione proposta dalla difesa con i motivi di appello, la Corte ha escluso la nullità del decreto di giudizio immediato e del successivo dibattimento, eccepita in quanto, per i delitti di cui agli artt. 336 e 337 cod. pen., è prevista la citazione diretta a giudizio, con conseguente inammissibilità del ricorso al rito immediato. Per un verso – si è detto – il decreto giudiziale ha riguardato anche il delitto di lesioni aggravate di cui al capo B) della rubrica. Per altro verso, il decreto in questione sarebbe sindacabile, dal giudice del dibattimento, riguardo alla sola eventualità della carenza del previo interrogatorio, e non dunque per il vizio dedotto dalla difesa.
2. Con un primo motivo di impugnazione la difesa dell’imputato deduce, in sostanza, violazione della legge processuale, ribadendo che il giudizio immediato non è ammissibile per reati in ordine ai quali deve procedersi mediante citazione diretta (sono richiamati l’art. 606, comma 1, lettere a), b) e c), e l’art. 549 cod. proc. pen.). La violazione denunciata avrebbe comportato nullità del giudizio e della sentenza, e privato l’imputato della possibilità di accedere ai riti speciali nei termini consentiti dal giudizio a citazione diretta.
Con un secondo blocco di rilievi critici, il ricorrente deduce che si sarebbe data motivazione carente e contraddittoria in merito all’asserita credibilità dei testi di accusa, trascurando tra l’altro specifici motivi di rancore che l’agente di polizia coinvolto nel fatto avrebbe nutrito nei confronti dell’imputato (il quale, in sostanza, sarebbe stato assolto da un’accusa di evasione derivante da denuncia sporta, in tutt’altra e precedente occasione, proprio dall’agente di cui si tratta).
Considerato in diritto
1. Il ricorso è infondato.
1.1. Con il primo motivo viene lamentata una violazione della legge processuale, con riguardo al rigetto delle eccezioni di nullità della sentenza di primo grado e del relativo dibattimento. La nullità deriverebbe dal ricorso alla procedura di giudizio immediato, che sarebbe stata adottata pur essendo perseguiti, secondo il Difensore, reati in ordine ai quali è prescritto il ricorso alla citazione diretta (art. 550, comma 2, lettere a e b, cod. proc. pen., relativamente ai delitti di cui agli artt. 336 e 337 cod. pen.).
La censura non è adeguatamente focalizzata, non essendo neppure indicata la previsione sanzionatoria che il Giudice dell’appello avrebbe dovuto applicare, e lamentandosi genericamente una violazione dei “diritti difensivi” derivante da una indebita variazione delle “cadenze processuali tipiche”, anche con riguardo ai tempi dell’eventuale opzione per il giudizio abbreviato.
In ciò il ricorso riproduce la censura proposta con i motivi di appello (ove almeno si leggeva un fugace riferimento all’omesso deposito degli atti ex art. 415-bis cod. proc. pen.), senza minimamente confrontarsi con la replica offerta dalla Corte territoriale.
Viene tuttavia denunciato un error in procedendo, la cui eventuale sussistenza, e la cui eventuale rilevanza, è necessario siano valutate da questa Corte.
1.2. Nella sentenza impugnata si sviluppano due repliche alle censure difensive.
La seconda si risolve in un richiamo alla giurisprudenza che da lungo tempo esclude la possibilità di un sindacato del giudice dibattimentale sulla ricorrenza dei presupposti per il ricorso al rito immediato. Per la verità l’orientamento in questione attiene essenzialmente alla valutazione circa l’evidenza della prova, e si estende all’osservanza del termine entro il quale il pubblico ministero dovrebbe esercitare l’azione nella forma in questione, sul presupposto che detto termine non sia perentorio. Non potrebbe dirsi di contro affermato un indirizzo che escluda la rilevazione di nullità afferenti al rito.
Non sono mancate pronunce in tal senso (Sez. 3, Sentenza n. 31728 del 28/03/2013, En Naoumi, rv. 256733, per altro fondata in via principale sull’asserita tardività dell’eccezione; Sez. 4, Sentenza, n. 46761 del 25/10/2007, Gianatti, rv. 238506, per altro riferita, in motivazione, ad un giudizio di insussistenza della nullità dedotta). Ma ve ne sono anche di segno opposto (Sez. 5, Sentenza n. 1245 del 21/01/1998, Cusani, rv. 210027; Sez. 6, Sentenza n. 6989 del 10/01/2011, rv. 249463).
Non potrebbe in particolare teorizzarsi l’indifferenza del sistema nel caso di ricorso al rito immediato per reati procedibili mediante citazione diretta. Anzi, è questo uno dei terreni sui quali si manifesta l’opinione che le nullità sono deducibili, innanzi al giudice dibattimentale, sempre che non si determini una decadenza o sanatoria (il che avviene, ad esempio, quando l’imputato, raggiunto da un decreto di giudizio immediato per i reati di cui all’art. 550 cod. proc. pen., promuove un giudizio abbreviato, e pretende di far valere in quell’ambito il vizio de quo: Sez. 6, Sentenza n. 5902 del 13/10/2011, Adiletta, rv. 252065; Sez. 4, Sentenza n. 41073 del 3/11/2010, Halilovic, rv. 248773). In mancanza di un’accettazione degli effetti dell’atto, o comunque di una sanatoria, la nullità è stata considerata deducibile, ed ha implicato un giudizio di legittimità del provvedimento di restituzione degli atti al giudice per le indagini preliminari (Sez. 1, Sentenza n. 8227 del 10/02/2010, Ly, rv. 246249: “il giudice del dibattimento può sindacare i presupposti e le condizioni per l’ammissione del giudizio immediato qualora essi si risolvano in violazioni di norme procedimentali concernenti l’intervento, l’assistenza o la rappresentanza dell’imputato”).
In effetti la stessa Corte territoriale, in conclusione della propria analisi, si è posta il problema della nullità del decreto introduttivo del giudizio, individuando il solo problema del previo interrogatorio, e notando come, nella specie, lo stesso risultasse regolarmente assunto.
L’appellante, per la verità, aveva piuttosto compiuto un vago riferimento alla perdita “della ulteriore garanzia di cui all’art. 415-bis” (assumendo erroneamente l’intervento di una novità assoluta). I rilievi difensivi, per altro verso, potrebbero evocare un problema di competenza funzionale del giudice per le indagini preliminari che adotti un decreto di giudizio immediato per reati a citazione diretta. Tuttavia questa Corte non è chiamata, nella specie, ad approfondire le questioni indicate, posto che il Giudice del provvedimento impugnato ha proposto una soluzione alternativa del problema posto dall’odierno ricorrente, che è conforme al diritto processuale.
1.3. Infatti, come si è anticipato, la Corte territoriale ha ritenuto che nella specie potesse procedersi mediante rito immediato in ragione della connessione esistente tra reati “a citazione diretta” ed un reato per il quale, invece, l’azione deve esercitarsi, nella forma ordinaria, mediante la richiesta di rinvio a giudizio.
Va detto anzitutto che il rilievo è fondato in fatto (tanto che il ricorrente non lo contesta, ed anzi ignora del tutto l’argomento): contro S. si procedeva anche per un reato punito con pena superiore nel massimo ai quattro anni di reclusione, trattandosi di lesioni personali aggravate a norma dell’art. 61 n. 2 cod. pen., e dunque, propriamente, a norma dell’art. 585, comma 1, in rapporto all’art. 576, comma 1, numero 1, cod. proc. pen..
Ora, l’art. 551 cod. proc. pen. stabilisce che, quando il procedimento concernente un reato perseguibile mediante citazione diretta è connesso ad altro nel quale si debba procedere diversamente, “il pubblico ministero presenta per tutti la richiesta di rinvio a giudizio a norma dell’art. 416”.
Il senso della norma è chiaro: la opportunità del simultaneus processus implica la prevalenza del rito più garantito, perché segnato dal controllo giudiziale circa i presupposti per un utile avvio della fase dibattimentale.
La lettera della legge, come appena si è visto, allude per i casi in questione alla richiesta di rinvio a giudizio. La Corte ritiene, per altro, che la disposizione non potrebbe essere intesa nel senso di un divieto del ricorso ai riti alternativi previsti per i casi in cui, nella forma “ordinaria”, la domanda di giudizio deve passare attraverso il vaglio dell’udienza preliminare.
Si tratterebbe di un assurdo sistematico, in forza del quale, riguardo ai reati a citazione diretta per i quali la prova sia evidente, e che potrebbero essere portati alla conoscenza del giudice dibattimentale senza alcun filtro, risulterebbe poi inadeguato il controllo giudiziale implicato dal rito immediato, e dovrebbe procedersi necessariamente mediante l’udienza preliminare. Con il paradosso che la connessione con reati tendenzialmente più gravi, e perseguibili col rito speciale, comporterebbe il massimo aggravamento della procedura, non richiesto per i richiamati e più gravi reati, e men che meno richiesto per i reati a citazione diretta per i quali la prova non sia evidente.
Sembra chiaro, quindi, come l’art. 551 cod. proc. pen. vada letto nel senso che, per il caso di connessione, i reati “a citazione diretta” seguono la sorte di quelli diversi, qualunque poi la stessa debba essere alla luce delle norme che segnano, in generale, l’opzione tra udienza preliminare e modalità alternative di esercizio dell’azione.
Non sembrano ostare, alla soluzione indicata, due possibili rilievi. È vero, anzitutto, che il ricorso al giudizio immediato priva l’imputato del deposito degli atti ex art. 415-bis cod. proc. pen., che invece vi sarebbe nel caso di citazione diretta. L’obiezione è valida tuttavia per qualunque genere di reato, a cominciare da quelli connessi ai reati de quibus, ed è notoriamente superata con riferimento al requisito di evidenza della prova ed alla necessità, comunque, del previo interrogatorio.
Neppure potrebbe dirsi, per altro verso, che l’incompatibilità del rito immediato con la procedura a citazione diretta comporti, per i reati pertinenti a quest’ultima, una “mancanza delle condizioni che giustificano” la scelta dello stesso rito immediato, con applicazione conseguente del comma 2 dell’art. 553 cod. proc. pen., e dunque secondo una alternativa tra scelte comunque diverse da quella compiuta nel caso di specie: la separazione dei procedimenti (con conseguente “recupero” della citazione diretta) o la prevalenza del rito ordinario, nel caso di connessione inscindibile (con conseguente “abbandono” del rito immediato).
Anzitutto, prevale nella specie un favor separationis cui sottende una ratio incompatibile con la logica del simultaneus processus che segna invece l’art. 551 cod. proc. pen.. Tale ratio si identifica con la possibilità di definire prontamente una parte almeno del giudizio, e quindi pare riferibile essenzialmente al requisito di evidenza della prova, più che ad altri fattori di discernimento tra le procedure. In secondo luogo, la lettura ipotizzata implicherebbe, ancora una volta, conseguenze incongrue dal punto di vista sistematico. Si ipotizzi la sussistenza di una riunione indispensabile tra i procedimenti: una comune evidenza della prova tra reati “ordinari” e reati “a citazione diretta” dovrebbe implicare l’obbligo per i primi di procedere mediante l’udienza preliminare: cioè, sarebbero i reati per i quali nessun filtro è necessario a imporre agli altri il più laborioso tra i filtri previsti dal codice, senza che ciò sia imposto dalla natura dell’addebito o dalla qualità della prova.
In realtà può e deve ritenersi (anche nella logica della ragionevole durata) che l’art. 551 cod. proc. pen. fondi un caso di procedibilità mediante rito immediato riguardo a reati a citazione diretta, e che dunque non operi il comma 2 dell’art. 453 cod. proc., poiché le “condizioni che giustificano” la scelta di tale rito sussistono anche per detti reati, ferma restando la necessità di una connotazione di evidenza per la prova in ordine a tutti i fatti connessi.
Di qui il principio: nel caso in cui reati perseguibili mediante citazione diretta siano connessi a reati per i quali dovrebbe essere promossa l’udienza preliminare – e per tutti i reati in questione vi sia evidenza della prova e ricorrano le ulteriori condizioni di cui all’art. 453 cod. proc. pen. – il pubblico ministero è ammesso a procedere congiuntamente mediante richiesta di giudizio immediato.
2. La serie delle doglianze affastellate nell’ambito del “secondo motivo” del ricorrente non può essere presa in considerazione nel presente giudizio di legittimità, perché si tratta di rilievi generici, in buona parte analoghi a quelli proposti con l’atto di appello, e comunque pertinenti al fatto ed al merito della decisione giudiziale.
La sentenza impugnata si caratterizza per una diffusa e congruente valutazione del quadro probatorio. Il ricorrente denuncia contraddizioni tra le prove che non sono adeguatamente specificate. La Corte territoriale, comunque, ha considerato partitamente le deposizioni dei due testi a difesa, illustrando con rilievi logici le ragione della loro inattendibilità od ininfluenza, e del credito da conferire necessariamente alle deposizioni contrapposte, provenienti anche da testi “indipendenti” e riscontrate dai certificati sanitari.
L’illustrazione di elementi confermativi che attengono specificamente alla deposizione dell’agente M. , provenienti finanche da uno dei testi a difesa, vale ampiamente a bilanciare i riferimenti, evanescenti e non credibilmente giustificati, a pretese ragioni di inimicizia dello stesso agente nei confronti del ricorrente.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
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