cassazione 7

Suprema Corte di Cassazione

sezione VI

sentenza  3 agosto 2015, n. 16315

Svolgimento del processo

M.D.M. adiva in data 18.2.2009 la Corte di Appello di Lecce, ai sensi degli artt. 2 e ss. della L. 24 Marzo 2001, n. 89, al fine di ottenere l’equo indennizzo dovuto a causa della violazione della ragionevole durata del processo civile.
All’esito del procedimento, la Corte di Appello di Lecce rigettava la domanda della ricorrente condannandola a pagare le spese di lite.
Avverso tale pronuncia la M. ha proposto ricorso dinanzi a tale Corte sulla base di tre motivi.
Il Mistero della Giustizia resiste con controricorso.

Motivi della decisione

Con il primo motivo il ricorrente lamenta la violazione degli artt. 2 e ss. della L. 24 marzo 2001, n. 89 nonché un vizio della motivazione, in riferimento al conteggio del periodo di violazione della ragionevole durata.
Con il secondo motivo la M. si duole della violazione degli artt. 24 e 111 Cost, degli artt. 112 e 115 cp.c., degli artt. 34 e 35 Cedu nonché del vizio di motivazione, non avendo il giudice di merito motivato adeguatamente il mancato riconoscimento del diritto all’equa riparazione.
La terza censura è relativa alla pronuncia del giudice di merito sulle spese.
I primi due motivi possono essere trattati congiuntamente.
Va, innanzitutto, premesso che il termine ragionevole di durata del processo, dal cui superamento deriva il diritto all’equa riparazione per il periodo eccedente, non può tradursi in formule aritmetiche fisse per determinate categorie di controversie o singole fasi del giudizio né è desumibile da dati di durata media ricavati da analisi statistiche, ma va determinato caso per caso, in relazione allo svolgimento del singolo procedimento (Cass. 25008/2005).
Nel caso di specie il procedimento è stato instaurato il 21.3.2005 e si è concluso il 19.11.2008, per una durata complessiva di 3 anni e 8 mesi, dunque, ben superiore al termine di 3 anni determinato dalla Corte EDU per il procedimento di primo grado.
Il Giudice di merito non ha considerato adeguatamente la violazione del termine di circa 8 mesi, durata che non può considerarsi irrilevante, come si desume dalla motivazione della Corte territoriale che sostiene, in modo del tutto generico ed impreciso e con motivazione, quindi, insufficiente e carente, che il procedimento presupposto si sia protratto “per poco più di tre anni”. Peraltro, la effettiva ratio decidendi della Corte d’Appello è stata quella concernente la modesta entità della posta in gioco, avendo il giudizio presupposto ad oggetto differenze tra quanto dovuto a titolo di indennità per occupazione agricola e quanto corrispostogli per un solo anno.
Tale motivazione è errata in punto di poiché questa Corte ha ripetutamente ritenuto che le situazioni concrete in cui le conseguenze pregiudizievoli,sotto il profilo della sofferenza psicologica della pendenza del processo, vanno escluse, sono quelle in cui il protrarsi del giudizio risponde ad un interesse della parte o questo è comunque destinato a produrre conseguenze che la parte percepisce a sé favorevoli (Cass 1338/04) mentre, più in generale, può dirsi che la piena consapevolezza nella parte processuale civile della infondatezza delle proprie istanze o della loro inammissibilità rende inesistente il danno non patrimoniale, perché tale consapevolezza fa venire meno l’ansia ed il malessere correlati all’incertezza della lite, essendo con gli stessi incompatibile (v., in tal senso, Cass, 11 dicembre 2002 n. 17650; 18 settembre 2003 n. 13741).
In assenza di tali situazioni particolari, da rilevarsi con idonea motivazione nel caso concreto, il danno non patrimoniale non può essere negato alla persona che ha visto violato il proprio diritto alla durata ragionevole del processo, ed ha perciò subito l’afflizione causata dall’esorbitante attesa della decisione (Cass 1338/05).
In particolare questa Corte ha rilevato che la modestia della posta in gioco e la mancata presentazione di istanze di prelievo, se possono indurre a ritenere la sussistenza di un patimento psicologico più contenuto, non valgono ad escludere la sussistenza di quest’ultimo. (Cass. 12242/09).
Deve, pertanto, ritenersi che la pur rilevata modestia del valore economico della controversia non possa costituire valida ragione per escludere il patimento psicologico che giustifica l’equa riparazione.
I primi due motivi vanno, pertanto, accolti. Resta assorbito il terzo relativo alle spese.
Il decreto impugnato va conseguentemente cassato e sussistendo i requisiti di cui all’art. 384 c.p.c. la causa può essere decisa nel merito, determinandosi l’equo indennizzo dovuto al ricorrente in Euro 665,00 oltre interessi di legge dalla domanda, somma al cui pagamento si condanna il Ministero convenuto che viene altresì condannato al pagamento delle spese del giudizio di merito liquidate in Euro 775,00 (445 onorari, 280 diritti, 50 spese) ed in Euro 800,00 per il presente giudizio di Cassazione. Le dette spese vanno distratte in favore dell’Avv. Oscar Lojodice dichiaratosi antistatario.

P.Q.M.

Accoglie il ricorso, cassa il decreto impugnato e sussistendo i requisiti di cui all’art. 384 c.p.c. decide nel merito, condannando il Ministero al pagamento di Euro 665,00 oltre interessi di legge dalla domanda, condanna, altresì, il Ministero al pagamento delle spese del giudizio di merito liquidate in Euro 775,00 (445 onorari, 280 diritti, 50 spese) ed in Euro 800,00 per il presente giudizio di Cassazione con distrazione delle spese in favore dell’Avv. Oscar Lojodice dichiaratosi antistatario.

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