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SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONE VI

SENTENZA 29 luglio 2014, n. 33452

Ritenuto in fatto

  1. Con sentenza del 23 maggio 2013 la Corte d’appello di Roma, in riforma della sentenza emessa in data 6 luglio 2012 dal Tribunale di Roma, ha concesso ad A.O. le attenuanti generiche, riducendo la pena a mesi nove di reclusione – con la non menzione della condanna e la riduzione delle provvisionali nei confronti delle parti civili P.G. (ad Euro 2.000,00) e V.S. (ad Euro 10.000,00) – e confermando nel resto l’impugnata sentenza, che l’aveva condannata alla pena di anno uno e mesi sei di reclusione, con il beneficio della sospensione condizionale e la condanna al risarcimento dei danni in favore delle predette parti civili, per i reati, unificati ex art. 81 c.p., di sottrazione di minore (ex art. 574 c.p.) e di elusione del provvedimento emesso dal Tribunale civile di Roma in data 23 settembre 2005 (ex art. 388, commi 1 e 2, c.p.), commessi in (omissis) , perché, separata già da alcuni anni, si allontanava dalla casa coniugale nella notte tra l'(omissis) di quell’anno, portando con sé la figlia F. , di circa dieci anni, all’insaputa e contro la volontà del marito, V.S. , nel luogo di sua origine in provincia di (omissis) al mare, ove viveva la madre.
  2. Avverso la su indicata pronuncia della Corte d’appello ha proposto ricorso per cassazione il difensore di fiducia dell’imputata, deducendo sei motivi di doglianza il cui contenuto viene qui di seguito sinteticamente riassunto.

2.1. Violazioni di legge in relazione agli artt. 51 c.p., 155-quater, comma 2, co, 574 e 388 c.p., 16 Cost., atteso che il disposto di cui all’art. 155-quater, comma 2, oc, non impone affatto che sia il coniuge affidatario a rivolgersi al giudice per la ridefinizione delle condizioni prima di trasferire la residenza, né che egli debba attendere che l’abbia fatto l’altro coniuge, per il quale a sua volta non è previsto che debba o possa farlo prima o dopo il cambio di residenza. Nel caso di specie, peraltro, ciò è avvenuto qualche giorno dopo, dinanzi al Tribunale di Imperia, ed in ogni caso non risulta che l’imputata abbia volutamente impedito al coniuge la possibilità di fare visita alla minore, poiché il V. già la mattina del (OMISSIS) aveva sentito telefonicamente l’A. e ben conosceva il luogo dove si trovavano la moglie e la figlia, con la quale inoltre si è trovato in costante contatto telefonico anche nei giorni successivi.

2.2. Vizi di violazioni di legge ed omessa motivazione in relazione agli artt. 2 c.p., 155-quater, comma 2, co, 574 e 388 c.p., avendo la Corte d’appello omesso di pronunziarsi sul fatto che il disposto di cui al su citato art. 155-quater ha la funzione di integrare i precetti penali di cui agli artt. 574 e 388 c.p., fissandone un diverso contenuto e limite di estensione, con il completamento della previsione nel caso in cui il coniuge affidatario eserciti il diritto di trasferire la residenza, ipotesi in cui si ridefiniscono gli accordi o i provvedimenti adottati in ordine alle modalità dell’affidamento, nelle quali rientrano le condizioni di visita, di frequentazione e di contatti del coniuge non affidatario con il minore.

2.3. Violazione dell’art. 574 c.p., in relazione all’art. 606, comma 1, lett. b), c.p.p., avendo la Corte d’appello erroneamente interpretato il concetto di impedimento dell’esercizio della potestà genitoriale, atteso che: a) il V. ebbe sin dall’inizio la possibilità di esercitare senza ostacolo i suoi diritti-doveri di genitore; b) sin da subito egli se ne avvalse; c) la lontananza da (omissis) non rese impossibili i suoi trasferimenti, non precludendo, l’oggettiva distanza tra le residenze dei coniugi, di per sé sola, la possibilità di un affidamento condiviso. Non è stato reso impossibile, dunque, l’esercizio della potestà genitoriale, né risulta provata la lesione dell’ulteriore bene giuridico protetto dall’art. 574 c.p., ossia il fatto che la minore abbia subito un danno per essere stata privata del suo normale contesto di vita, apparendo estremamente riduttivo e superficiale equiparare lo sconvolgimento del patrimonio di relazioni affettive, familiari e sociali del minore al solo mutamento di residenza da una città all’altra, o da una scuola elementare all’altra. Al riguardo, infatti, tutti i testimoni escussi hanno riferito l’esatto contrario, per il periodo sia anteriore che posteriore alla data dell'(omissis) .

2.4. Violazione di legge in relazione agli artt. 190, comma 1 e 526, comma 1, c.p.p., per avere la Corte d’appello utilizzato frasi contenute negli scritti della minore (copie di pagine del suo diario e copie di lettere dalla stessa inviate al padre), senza che tale documentazione fosse stata ritualmente acquisita e sottoposta a verifiche circa l’effettiva provenienza e datazione nel corso del giudizio di primo grado. Tali verifiche non sono state mai disposte né esperite e la stessa difesa della parte civile non le ha mai richieste.

2.5. Violazione dell’art. 388 c.p., avendo la Corte d’appello erroneamente definito come fraudolenti o simulati gli atti compiuti dall’imputata, che non ha impedito al marito di raggiungere la figlia nel luogo dove si trovava, ma ha solo posto in essere una situazione di cui non ha parlato con il marito, se non, telefonicamente, la mattina successiva al trasferimento suo e della figlia, senza però indirizzarlo verso altre, non vere, direzioni.

Considerato in diritto

  1. Il ricorso è infondato e deve essere pertanto rigettato per le ragioni qui di seguito esposte e precisate.
  2. Preliminarmente, deve rilevarsi l’inammissibilità, ex art. 606, comma 3, c.p.p., del motivo di doglianza su indicato al p.2.4., trattandosi di una questione per la prima volta prospettata in questa Sede, e non preventivamente dedotta nei motivi di gravame sottoposti alla cognizione della Corte d’appello.
  3. Per quel che attiene ai primi tre gruppi di censure difensive, è necessario ribadire, sul piano generale ed al fine della verifica della consistenza dei rilievi mossi alla sentenza della Corte d’appello, che tale decisione non può essere isolatamente valutata, ma deve essere esaminata in stretta correlazione con la sentenza di primo grado, dal momento che l’iter motivazionale di entrambe sostanzialmente si dispiega secondo l’articolazione di sequenze logico-giuridiche pienamente convergenti (Sez. 4, n. 15227 del 14/02/2008, dep. 11/04/2008, Rv. 239735; Sez. 6, n. 1307 del 14 gennaio 2003, Rv. 223061). Siffatta integrazione tra le due motivazioni si verifica non solo allorché i giudici di secondo grado abbiano esaminato le censure proposte dall’appellante con criteri omogenei a quelli usati dal primo giudice e con frequenti riferimenti alle determinazioni ivi prese ed ai passaggi logico-giuridici della decisione, ma anche, e a maggior ragione, quando i motivi di appello non abbiano riguardato elementi nuovi, ma si siano limitati a prospettare circostanze già esaminate ed ampiamente chiarite nella decisione di primo grado (da ultimo, Sez. 3, n. 13926 del 01/12/2011, dep. 12/04/2012, Rv. 252615).

Nel caso portato alla cognizione di questa Suprema Corte, in particolare, ci si trova di fronte a due pronunzie, di primo e di secondo grado, che concordano nell’analisi e nella valutazione degli elementi di prova posti a fondamento delle conformi rispettive decisioni, con una struttura motivazionale della sentenza di appello che viene a saldarsi perfettamente con quella precedente, sì da costituire un corpo argomentativo uniforme e privo di lacune, in considerazione del fatto che l’impugnata pronunzia ha comunque offerto una congrua e ragionevole giustificazione del finale giudizio di colpevolezza formulato nei confronti dell’odierna ricorrente.

Discende da tale evenienza, secondo la linea interpretativa in questa Sede da tempo tracciata, che l’esito del giudizio di responsabilità non può certo essere invalidato da prospettazioni alternative, risolventisi in una ‘mirata rilettura’ degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, ovvero nell’autonoma assunzione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, da preferirsi a quelli adottati dal giudice del merito, perché illustrati come maggiormente plausibili, o perché assertivamente dotati di una migliore capacità esplicativa nel contesto in cui la condotta delittuosa si è in concreto realizzata (Sez. 6, n. 22256 del 26/04/2006, dep. 23/06/2006, Rv. 234148; Sez. 1, n. 42369 del 16/11/2006, dep. 28/12/2006, Rv. 235507).

  1. Nel merito, sulla base delle numerose emergenze probatorie offerte dall’istruzione dibattimentale, la Corte d’appello ha ricostruito analiticamente l’intera vicenda storico-fattuale oggetto della regiudicanda, ripercorrendo il tracciato argomentativo già sviluppato dal Giudice di primae curae ed evidenziando, in particolare: a) che l’allontanamento della minore dal suo luogo di residenza abituale – ossia da (…) – ed il suo spostamento in un piccolo centro della provincia di (…), a distanza di oltre 600 km dalla capitale, furono il frutto di una decisione unilaterale dell’imputata, che mise in atto tale proposito all’insaputa e contro la volontà dell’altro genitore; b) che presso tale località la minore fu iscritta a scuola e fu trasferita anche la sua residenza; c) che il V. ebbe notizia dell’avvenuto trasferimento della minore nella località ligure e del fatto che si trattava non di una permanenza limitata, ma di un cambiamento durevole, solo ex post, ossia dopo aver tentato inutilmente di rintracciare per via telefonica la minore nei giorni (omissis) ; d) che l’allontanamento avvenne la sera dell'(omissis) , con modalità ingannevoli, avendo l’imputata indotto il coniuge a credere che avrebbe visto la figlia a scuola in occasione della cerimonia di apertura dell’anno scolastico, prevista per il successivo (omissis) ; e) che la sentenza pronunciata in sede di separazione coniugale prevedeva una serie di incontri tra padre e figlia, modulati sul presupposto del comune luogo di residenza e programmati sia per fine-settimana alternati, che nel corso di pomeriggi infrasettimanali; f) che dal (omissis) di quell’anno il V. ha avuto conoscenza della scuola frequentata dalla figlia solo il (omissis) successivo, ed ha potuto incontrarla verso la metà di ottobre, vedendola sino al (omissis) una sola volta al mese; g) che, infatti, solo il (omissis) il Tribunale di Imperia rivedeva, sia pure provvisoriamente, le modalità di frequentazione della minore con il padre, con la conseguenza che la condotta dell’imputata è stata valutata limitatamente al periodo antecedente, escludendosi la rilevanza degli avvenimenti successivi.

6.1. In tal guisa ricostruito il contesto storico-fattuale della regiudicanda, è d’uopo rilevare come i Giudici di merito abbiano fatto buon governo del quadro di principii che regolano la materia, disattendendo le obiezioni e gli argomenti difensivi, sostanzialmente riproposti anche in questa Sede, ed osservando come la condotta posta in essere dall’imputata non solo abbia impedito all’altro coniuge, per un arco temporale rilevante, l’esercizio delle diverse manifestazioni della potestà genitoriale, estromettendolo dalle scelte fondamentali riguardanti l’esistenza della figlia e mettendolo in condizioni di non poter mantenere con lei consuetudini e comunanza di vita, ma abbia anche determinato, al di fuori di situazioni imprevedibili e di carattere cogente, un improvviso stravolgimento del normale contesto di vita in cui la minore si trovava inserita.

Entrambi i coniugi, infatti, sono contitolari dei poteri-doveri disciplinati dall’art. 316 cod. civ., ma affinché la condotta di uno di essi possa integrare l’ipotesi criminosa prevista dall’art. 574 c.p. è necessario che il comportamento dell’agente porti ad una globale sottrazione del minore alla vigilanza dell’altro genitore, sì da impedirgli l’esercizio della funzione educativa ed i poteri inerenti all’affidamento, rendendogli impossibile l’ufficio che gli è stato conferito dall’ordinamento nell’interesse del minore stesso e della società (Sez. 6, n. 7836 del 08/04/1999, dep. 16/06/1999, Rv. 214761; Sez. 5, n. 37321 del 08/07/2008, dep. 01/10/2008,Rv. 241637; Sez. 6, n. 22911 del 19/02/2013, dep. 27/05/2013, Rv. 255621).

Entro tale prospettiva ermeneutica, deve rilevarsi come entrambe le decisioni di merito abbiano congruamente ed esaustivamente argomentato nel senso che il definitivo allontanamento della minore dal suo abituale contesto di vita ha in effetti comportato per il padre la materiale impossibilità, quanto meno lungo il dispiegarsi di tutto il rilevante lasso temporale sopra indicato, di fruire del regime di visite predisposto secondo le modalità e con le scansioni temporali puntualmente stabilite dall’Autorità giudiziaria in sede di separazione.

Al riguardo, pertanto, deve ritenersi che la Corte territoriale si sia pienamente uniformata alla linea interpretativa che questa Suprema Corte ha da tempo tracciato (Sez. 6, n. 21441 del 18/02/2008, dep. 28/05/2008, Rv. 239880; Sez. 6, n. 11415 del 04/03/2002, dep. 20/05/2002, Rv. 221931), allorquando ha stabilito che risponde del delitto di sottrazione di persona incapace il genitore che, senza il consenso dell’altro, porta via con sé il figlio minore, allontanandolo dal domicilio stabilito, ovvero lo trattiene presso di sé, quando tale condotta determina un impedimento per l’esercizio delle diverse manifestazioni della potestà dell’altro genitore, come le attività di assistenza e di cura, la vicinanza affettiva, la funzione educativa, identificandosi nel regolare svolgimento della funzione genitoriale il principale bene giuridico tutelato dalla norma.

6.2. Invero, per integrare la fattispecie incriminatrice in esame è necessario che, per effetto della sottrazione, l’esercizio della potestà genitoriale venga reso – temporaneamente o definitivamente – impossibile, ovvero talmente difficoltoso, da risultare praticamente tale. Occorre cioè che l’agente, con la propria condotta, interrompa il rapporto che deve intercorrere tra minore e genitore – rapporto che è condizione indispensabile affinché egli possa esercitare la sua potestà nei confronti di quello – e che il minore venga allontanato dalla sfera di accessibilità del genitore, in modo che risulti frapposto un impedimento all’efficace esercizio della sua potestà.

Il determinarsi di tale situazione da luogo di per sé all’evento tipico del reato, nel cui disvalore non ricade propriamente la realizzazione di un concreto nocumento arrecato alla persona del minore.

L’oggettività giuridica del reato, infatti, è da ritenere oggi calibrata su una nozione funzionale della potestà genitoriale, vista quale ufficio di diritto privato, quale mezzo, cioè, attraverso il quale il titolare è messo nelle condizioni di adempiere al meglio i propri obblighi di assistenza nei confronti del figlio. La tutela della potestà parentale deve dunque declinarsi non in senso statico, per il prestigio che si pretende riconnesso alla figura/istituzione genitoriale o tutoria, ma in senso dinamico, ossia in quanto funzionale alla realizzazione di interessi del minore e, in subordine, all’adempimento degli obblighi che gravano sullo stesso genitore o tutore.

Il contenuto dell’illecito, in definitiva, ruota, oltre che su una compromissione degli affetti familiari, sulla capacità della condotta di pregiudicare in misura rilevante, come avvenuto nel caso in esame, la funzionalità propria della potestà dall’ordinamento riconosciuta al genitore, rimanendo l’offesa circoscritta in una dimensione solo simbolica quando la sottrazione sia durata pochi istanti, ovvero per un tempo talmente limitato che nessuno degli interessi coinvolti possa considerarsi seriamente compromesso.

  1. Fondamentale rilievo assumono, ai fini della corretta individuazione della dimensione offensiva della fattispecie in una prospettiva ermeneutica costituzionalmente orientata, le norme civilistiche di cui agli artt. 143, 147, 155 ss. (queste ultime poi confluite, con modifiche, nelle nuove disposizioni di cui agli artt. 337-bis – 337-octies, cod. civ., a seguito della riforma della disciplina della filiazione introdotta dal D. Lgs. 28 dicembre 2013, n. 154, entrato in vigore dal 7 febbraio 2014) e 316 c.c., che individuano l’insieme degli obblighi attinenti alla potestà dei genitori, facendo riferimento al diritto-dovere di cura, di istruzione, educazione ed assistenza morale, nonché di intervento sulle scelte riguardanti il minore, con riferimento alla sua educazione, alla salute, alla cura e allo sviluppo della sua personalità.

Esse delineano, infatti, un quadro di posizioni soggettive connotate dal fondamentale dovere di solidarietà che deve ispirare i rapporti tra persone legate dal vincolo coniugale, collegandone l’ambito e le modalità di esplicazione all’esercizio della potestà genitoriale, in quanto strettamente correlate all’incapacità giuridica del soggetto beneficiario del rapporto educativo (al riguardo v., in motivazione, Sez. 6, del 24/10/2013, dep. 19/12/2013, n. 51488).

In tal senso, la fondamentale disposizione contenuta nell’art. 30, comma primo, Cost., secondo cui ‘è dovere e diritto dei genitori mantenere, istruire ed educare i figli, anche se nati fuori del matrimonio’, assolve la funzione di garantire la situazione familiare elementare del rapporto di filiazione, quale ne sia il titolo, richiamando i genitori alle loro responsabilità nei confronti dei figli senza distinguere in base al vincolo coniugale eventualmente insorto fra loro.

Il ruolo educativo affidato ai genitori, pertanto, consiste nell’assicurare al figlio uno sviluppo ed una maturazione integrale della personalità, conformemente ai precetti fissati negli artt. 2 e 3 Cost., e deve essere inteso in una prospettiva ‘funzionalista’, che l’art. 30, primo e secondo comma, Cost., costruisce non come frutto dell’esercizio di una loro libertà personale, ma come un diritto-dovere che trova proprio nell’interesse del figlio la sua funzione ed il suo limite (C. Cost., 16 marzo 1992, n. 132).

A tale quadro costituzionale si conforma l’attuale disciplina dell’istituto della potestà genitoriale, in quanto strettamente finalizzato alla protezione dell’interesse del minore ed alla formazione della sua personalità, e da considerare, dunque, sempre meno come ‘diritto’, e sempre più come ‘dovere’ posto a presidio di diritti fondamentali della persona.

Anche in caso di separazione personale dei genitori, del resto, il figlio minore ha il diritto di mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno di essi, di ricevere cura, educazione e istruzione da entrambi e di conservare rapporti significativi con gli ascendenti e con i parenti di ciascun ramo genitoriale (ex art. 155, comma primo, cod. civ., come sostituito, prima, dall’art. 1 della L. 8 febbraio 2006, n. 54, e, poi, dal su citato D. Lgs. n. 154 del 28 dicembre 2013, che ha fatto confluire la disposizione, con qualche modifica, nei nuovi artt. 337-bis e 337-ter, cod. civ.).

Nel caso in esame, dunque, l’imputata, proprio per non ledere il corrispondente diritto dell’altro genitore alla visita ed alla frequentazione della minore nel quadro delle disposizioni già dettate in sede di separazione, avrebbe dovuto preventivamente rivolgersi al Giudice civile, sollecitando l’eventuale modifica del contenuto delle precise statuizioni al riguardo adottate.

In tal senso deponeva, del resto, la disposizione di cui all’art. 155-quater, comma secondo, cod. civ. – poi abrogata per effetto dell’art. 106 su citato D. Lgs. n. 154/2013 – che non a caso prevedeva ‘la ridefinizione degli accordi o dei provvedimenti adottati’ nelle ipotesi, come quella qui considerata, in cui il cambiamento della residenza o del domicilio da parte di uno dei coniugi integrasse un mutamento in grado di interferire con le modalità dell’affidamento.

Un quadro di regole, quello or ora indicato, che appare non solo ribadito, ma ulteriormente rafforzato dalle nuove disposizioni di cui agli artt. 337-bis e 337-ter cod. civ. – inserite dall’art. 55, comma primo, del su citato D. Lgs. n. 154/2013 – nel cui testo sono sostanzialmente confluite, con modifiche, le norme precedentemente in vigore. Nel terzo comma dell’art. 337-bis, cod. civ., infatti, si prevede che le decisioni di maggior interesse per i figli – ivi comprese quelle relative alla scelta della residenza abituale del minore – ‘sono assunte di comune accordo’, tenendo conto di una serie di parametri legati alle capacità, all’inclinazione naturale ed alle aspirazioni dei figli, mentre ‘in caso di disaccordo la decisione è rimessa al giudice’.

  1. Parimenti infondato, infine, sino a lambire i margini dell’inammissibilità, deve ritenersi anche l’ultimo motivo di ricorso, in quanto fortemente orientato verso una rivalutazione dei correlativi profili di merito, in quanto tale incompatibile con i tratti dell’odierno scrutinio di legittimità.

Al riguardo, invero, l’adeguatezza delle ragioni giustificative illustrate nell’impugnata sentenza non è stata validamente censurata dalla ricorrente, limitatasi a riproporre, per lo più, una serie di obiezioni già esaustivamente disattese dai Giudici di merito ed a formulare critiche e rilievi sulle valutazioni espresse in ordine alle risultanze offerte dal materiale probatorio sottoposto alla loro cognizione, prospettandone, tuttavia, una diversa ed alternativa lettura, in questa Sede, evidentemente, non assoggettabile ad alcun tipo di verifica, per quanto sopra evidenziato.

Il tessuto motivazionale della sentenza in esame, dunque, non presenta affatto quegli aspetti di carenza, contraddittorietà o macroscopica illogicità del ragionamento del giudice di merito che, alla stregua del consolidato insegnamento giurisprudenziale da questa Corte elaborato, potrebbero indurre a ritenere sussistente il vizio di cui alla lett. e) del comma primo dell’art. 606 e.p.p. (anche nella sua nuova formulazione), nel quale sostanzialmente si risolvono le doglianze dal ricorrente ivi prospettate.

Sul punto, infatti, la Corte di merito, confermando in toto le valutazioni già motivatamente espresse dal Giudice di primo grado, ha richiamato il ricorso alle modalità ingannevoli della condotta posta in essere dall’imputata, ed ha quindi evidenziato come gli incontri del padre con la minore siano ripresi solo un mese dopo l’improvviso della minore dal suo consueto ambiente di vita, rendendo in tal guisa impossibile, nel periodo sopra considerato, la corretta esecuzione del contenuto e delle finalità delle disposizioni impartite dall’Autorità giudiziaria in tema di affidamento della minore.

Anche sotto tale profilo, per vero, deve ritenersi che la Corte distrettuale abbia fatto buon governo del quadro di principii ormai da tempo pacificamente delineati da questa Suprema Corte (da ultimo, Sez. 6, n. 43292 del 09/10/2013, dep. 23/10/2013, Rv. 257450; Sez. 6, n. 33719 del 11/05/2010, dep. 16/09/2010, Rv. 248157), secondo cui l’elusione dell’esecuzione di un provvedimento del giudice civile che riguardi l’affidamento di minori può concretarsi in qualunque comportamento, anche omissivo, da cui derivi la ‘frustrazione’ delle legittime pretese altrui.

Siffatta ‘frustrazione’ ben può ritenersi integrata, come ritenuto dai Giudici di merito, dalla condotta posta in essere dall’imputata, la quale, senza proporre alcuna impugnazione al Giudice civile, si è arbitrariamente attivata per disattendere i provvedimenti giudizialmente impostile, trasferendosi assieme alla minore a lei affidata in una località distante circa 600 km. dal luogo ove da tempo viveva, senza preoccuparsi di cercare un accordo con il coniuge al fine di ottemperare, sia pure parzialmente, alle correlative statuizioni giudiziali.

Al riguardo, infine, v’è da considerare, sotto altro ma connesso profilo, che è pienamente configurabile il concorso formale tra il reato di sottrazione di minori, previsto dall’art. 574 cod. pen., e quello di elusione di provvedimenti del giudice concernenti l’affidamento di minori, attesa la differenza dei rispettivi elementi strutturali che esclude il rapporto di specialità, dal momento che la prima delle suindicate fattispecie, mirando a tutelare il legame fra minore e genitore, si incentra sulla cesura di tale legame che si realizza mediante la sottrazione, mentre l’altra ha il suo ‘accento’ sulla elusione del provvedimento del giudice (Sez. 6, n. 8577 del 07/02/2006, dep. 10/03/2006, Rv. 233500; v., inoltre, Sez. 6, n. 19520 del 19/03/2003, dep. 24/04/2003, Rv. 225738).

  1. Al rigetto del ricorso, conclusivamente, consegue la condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali, ex art. 616 c.p.p..

Da tale pronuncia discendono, altresì, le correlative statuizioni di seguito espresse in ordine alla rifusione delle spese del grado in favore delle costituite parti civili, la cui liquidazione viene operata secondo l’importo in dispositivo meglio enunciato.

 P.Q.M.

 Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali. Condanna altresì la ricorrente a rimborsare alle parti civili le spese di questo grado che liquida in complessivi Euro 3.500,00 oltre spese generali, IVA e CPA.

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