cassazione

Suprema CORTE DI CASSAZIONE

sezione VI

sentenza 27 giugno 2014, n. 27996

Ritenuto in fatto

 1. Con la sentenza sopra indicata la Corte d’Appello di Salerno, in riforma di quella emessa in data 01/10/2009 dal locale Tribunale, appellata da S.P. limitatamente al reato di cui all’art. 629 cod. pen. (capo d] del decreto che dispone il giudizio del 15/02/2006) e da C.S. in ordine al reato ascrittogli al capo z) dello stesso decreto, diversamente qualificato in primo grado ai sensi dell’art. 326, comma 1 cod. pen., nonché da due parti civili:

– dichiarava non doversi procedere nei confronti dello S. per i reati di cui al capo h) (artt. 81 cpv., 640 cod. pen., truffa continuata) del decreto che dispone il giudizio del 15/02/2006 e per quelli di cui ai capi b) e c) (truffa aggravata continuata e falsità materiale in scrittura privata) del decreto che dispone il giudizio del 06/06/2007 perché estinti per intervenuta prescrizione, respingendo l’appello in relazione al delitto di estorsione;

– riduceva l’entità della pena inflitta allo S. in primo grado nella misura di quattro anni, quattro mesi e quindici giorni di reclusione ed Euro 680,00 di multa, previa concessione all’imputato delle circostanze attenuanti generiche e risoluzione della continuazione tra i reati per cui aveva riportato condanna e quelli dichiarati prescritti;

– rigettava l’appello di C.S. e delle parti civili;

– confermava le statuizioni civili pronunziate a carico degli imputati, che condannava alla rifusione delle spese processuali sostenute dalle parti civili per il grado di giudizio.

La Corte respingeva la tesi dello S. volta a sostenere la ricorrenza della diversa ipotesi del reato di truffa aggravata nella condotta contestata a titolo di estorsione, nonché l’eccezione di nullità della richiesta di rinvio a giudizio formulata dal C. in relazione ad una dedotta nullità rilevante ai sensi dell’art. 415 bis cod. proc. pen., oltre alla censura di merito riferita alla insussistenza di prove sufficienti del reato di rivelazione di segreti d’ufficio contestata a detto appellante.

2. Avverso la sentenza hanno presentato distinti ricorsi gli imputati:

– S. deducendo violazione di legge in ordine alla determinazione della Corte territoriale di confermare la condanna per il delitto di estorsione e non ravvisare il diverso reato di truffa aggravata, fondata – secondo il ricorrente – su una erronea valutazione della fattispecie, da cui era dato agevolmente desumere che quello prospettato alla parte lesa (pignoramento dei camion di sua proprietà in caso di mancato pagamento del debito) non era un male ingiusto, ma l’esercizio di un diritto dell’ente esattore nella cui veste di incaricato le si era fraudolentemente presentato;

– C. riproponendo l’eccezione di nullità della richiesta di rinvio a giudizio formulata dal PM, derivante dall’interruzione dell’interrogatorio cui si era sottoposto ai sensi dell’art. 415 bis cod. proc. pen. al fine di esaminare materiale probatorio d’accusa non portato successivamente a completamento; deducendo, inoltre, vizio di motivazione della decisione impugnata in ordine alla confermata responsabilità per il reato di cui all’art. 326 comma 1 cod. pen. a dispetto delle numerose emergenze probatorie, anche testimoniali, a discarico.

 Considerato in diritto

 3. Il ricorso formulato da S.P. si rivela infondato e come tale deve essere rigettato.

Esso si appunta esclusivamente sulla qualificazione in iure della condotta contestata al capo d) della rubrica, ritenuta da entrambi i giudici di merito integrare il delitto di estorsione di cui allo art. 629 cod. pen. a dispetto della tesi difensiva che vi ravvisa invece gli estremi del delitto di truffa aggravata.

In concreto, lo S. si era presentato a Si.Sa. , debitore nei cui confronti pendeva procedura esecutiva curata da ETR Equitalia, come dipendente di quest’ultima pur non rivestendo più detta qualifica, minacciandolo di dover procedere al sequestro di alcuni camion di sua proprietà ove non avesse provveduto all’immediato pagamento della somma di 2.000,00 Euro, in tal modo inducendolo a versargli il minor importo di Euro 1.500,00.

Sostiene al riguardo il ricorrente che il male prospettato al Si. non poteva definirsi ingiusto, consistendo nella prospettazione del concreto esercizio del diritto dell’ente esattore nella cui veste di incaricato egli si era, però, fraudolentemente presentato, integrando pertanto la condotta il diverso reato di truffa, aggravata dalla prospettazione di un pericolo non reale, a causa del cessato status di dipendente dell’ente esattore, bensì immaginario (art. 640 comma 2 n. 2 cod. pen.).

La giurisprudenza di questa Corte di legittimità pronunziatasi in argomento è, però, di ostacolo all’accoglimento della tesi esposta in ricorso.

La distinzione tra il delitto di estorsione e quello di truffa aggravata dall’ingenerato timore di un pericolo immaginario, consiste nel diverso modo in cui viene prospettato il danno, in vista del quale la persona offesa si induce a quell’azione od omissione da cui deriva il conseguimento del profitto ingiusto dell’agente. Si ha truffa aggravata quando il danno non viene prospettato come certo e sicuro, ma soltanto come possibile ed eventuale e mai proveniente direttamente o indirettamente dall’imputato, giacché in tal caso l’offeso non è coartato nella sua volontà ma si determina all’azione di omissione in stato di errore (Cass. Sez. 6, n. 4825 del 12/12/1995, Meocci, Rv. 203601).

Mentre, infatti, gli elementi caratterizzanti la condotta estorsiva sono la violenza e la minaccia, quelli qualificanti il comportamento truffaldino – anche nell’ipotesi aggravata della prospettazione del pericolo immaginario – sono, pur sempre, gli artifizi e raggiri: in quest’ultima ipotesi infatti la minaccia, poiché riguarda un male non reale, ma immaginario, assume i contorni dello inganno perché contribuisce all’induzione in errore della parte offesa del reato attraverso la prospettazione del falso pericolo (Sez. 2, n. 8456 del 18/04/1995, PM in proc. Faragli, Rv. 202-347 relativa a fattispecie di ritenuta sussistenza del reato di truffa nella condotta di soggetto che, spacciandosi per ufficiale della Guardia di Finanza, aveva richiesto e ottenuto una somma di danaro per non procedere ad una verifica fiscale).

Sotto un angolo visuale parzialmente diverso, si è inoltre affermato che la differenza tra il reato di truffa aggravata dall’ingenerato timore di un pericolo immaginario e quello di estorsione non sta nell’effettiva sussistenza del male minacciato – immaginario nella truffa, concreto e realizzabile nell’estorsione – ma nella circostanza che nella truffa il male viene ventilato come possibile ed eventuale e comunque non proveniente direttamente od indirettamente da chi lo prospetta, di talché l’offeso non è coartato nella sua volontà, ma si determina perché tratto in errore dall’esposizione di un pericolo inesistente, mentre nell’estorsione il male viene indicato come certo e realizzabile ad opera del reo o di altri, sicché, l’offeso è posto nella ineluttabile alternativa di far conseguire all’agente il preteso profitto o di subire il male minacciato (Sez. 2, sent. n. 1074 del 21/10/1988, Masci, Rv. 183145; Sez. 2 sent. n. 1080 del 21/04/1987, Valente, Rv. 177496).

Fermi restando i citati approdi interpretativi, si possono aggiungere le seguenti considerazioni.

Secondo un’impostazione seguita da una giurisprudenza piuttosto risalente di questa Corte di Cassazione (Cass. 27/01/1971 in Cass. Pen., 1972, 500; Cass. 14/07/1973, ibidem, 1974, 769) e che trova riscontro in un’importante voce dottrinale, deve ravvisarsi estorsione in tutti i casi in cui sussista la minaccia di un male, a prescindere dal fatto che questo sia reale o immaginario, dal momento che identico è l’effetto coercitivo esercitato sul soggetto passivo, tanto che la sua concretizzazione dipenda effettivamente dalla volontà dell’agente, quanto che queta sia la rappresentazione che se ne faccia la vittima (ad es. per effetto di errore preesistente, come nella specie sul profilo della perdurante qualifica soggettiva del soggetto attivo), ancorché in contrasto con la realtà effettiva, a lui ignota.

Il recupero di tale approccio ermeneutico in apparenza rigorista permette, infatti, di considerare irrilevanti le specifiche connotazioni del pericolo insito nella minaccia esercitata, che può alternativamente risultare privo di riscontro nella realtà obiettiva (es. quello di future sventure prospettato a persona superstiziosa da chi si attribuisca non solo capacità divinatorie ma anche manipolatorie degli eventi futuri) o in concreto inattuabile per inettitudine, impossibilità (come nella specie, in cui il ricorrente non era più dipendente Equitalia ETR e non avrebbe di fatto potuto attuare la minaccia di sequestro) o mancanza di volontà dell’agente.

Al contempo esso consente di mantenere netta la distinzione, fondamentale ai fini di un’actio finium regundorum tra le figure criminose, che il timore (del pericolo di un male) incusso alla vittima deriva in maniera indefettibile da una minaccia nell’estorsione e da un inganno nella truffa.

Sotto altro angolo visuale, poiché si danno situazioni in cui si rivela labile la differenza tra la minaccia e il raggiro con minaccia, si deve affermare che quando il livello di concretezza della prima assuma contorni consistenti, ne deriva di necessità il superamento dell’ambito concettuale della truffa, ancorché connotata dal timore del pericolo immaginario, con integrazione del più grave reato di estorsione.

In applicazione dei citati principi, viene a cadere anche l’obiezione più immediata all’applicazione di tale schema ermeneutico alla fattispecie in esame, concernente il fatto che anche la qualifica soggettiva dell’agente era in realtà ricompresa nell’ambito della prospettazione artificiosa alla vittima, atteso che all’epoca del fatto lo S. non risultava più alle dipendenze di Equitalia ETR in quanto allontanatone dal servizio; a detta obiezione si può, infatti, replicare che le motivazioni all’origine della rappresentazione da parte del soggetto passivo della verificazione del male prospettato divengono irrilevanti, quando nei suoi confronti venga formulata una minaccia.

4. Parimenti infondato si rivela il ricorso del C. .

4.1 L’eccezione di nullità della richiesta di rinvio a giudizio (art. 416 cod. proc. pen.) per asserite violazioni procedurali verificatesi all’atto della spedizione dell’avviso di chiusura delle indagini di cui all’art. 415 bis cod. proc. pen. appare in primo luogo intempestiva e comunque infondata nei suoi presupposti obiettivi.

L’intempestività è data dal fatto che trattandosi di questione di nullità concernente gli atti delle indagini preliminari e quindi a regime intermedio (art. 181, comma 2 cod. proc. pen.), essa avrebbe dovuto essere sollevata prima che fosse pronunziato il provvedimento di chiusura della discussione della fase dell’udienza preliminare (art. 424 cod. proc. pen.) e non risulta che ciò sia avvenuto.

L’infondatezza discende in ogni caso dalla circostanza che a pag.12 della motivazione della sentenza impugnata, la Corte territoriale ha rilevato che il presupposto di fatto a fondamento dell’eccezione (l’asserita interruzione dell’interrogatorio al PM per acquisire informazioni in merito alle disposte ed eseguite intercettazioni telefoniche) non ha trovato “alcun riscontro nello esame degli atti”, né d’altronde il ricorrente ha allegato elementi concreti per fornirne dimostrazione, venendo meno a quell’onere di prova che inerisce alla formulazione di qualsivoglia eccezione (in tal senso v. Cass. Sez. 1, sent. n. 1976 del 05/12/1972, Catania, Rv. 123487 in fattispecie d’incapacità del giudice dovuta ad illegale procedimento di formazione del collegio giudicante).

4.2 Quanto al secondo motivo di ricorso, esso consta – come la stessa struttura evidenzia – di censure che attengono alla concreta valutazione del materiale probatorio esaminato dai giudici d’appello e in particolare le dichiarazioni a discarico del coimputato S. (assuntosi l’esclusiva responsabilità dei reati in addebito, tenendo indenne il C. ), quelle rese dai testi M. e Ca. (dipendenti della ETR Equitalia) su tempi e modalità di accensione del computer della postazione di lavoro del ricorrente, le circostanze temporali inerenti allegati allontanamenti del C. dalla postazione di lavoro per esigenze istituzionali.

Su tali punti, la Corte territoriale, nel condividere le valutazioni del primo giudice, ha svolto argomentazioni ispirate a criteri di logicità e ragionevolezza (pagg. 13-14 motivazione), in particolar modo evidenziando l’impossibilità di prestare credito alla ritrattazione, ritenuta oltre tutto generica, venuta dallo S. in dibattimento circa l’apporto causale fornito dal C. alle condotte ascrittegli a fronte del “carattere circostanziato ed al più pregnante valore probatorio delle dichiarazioni” accusatorie rese nel corso delle indagini preliminari.

Trattasi all’evidenza di valutazioni non condivise dal ricorrente ma che, come tali e poiché prive di risvolti di manifesta illogicità, non appaiono suscettibili di censura in questa sede.

 P.Q.M.

 rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali; condanna altresì il ricorrente S. a rifondere le spese sostenute dalla parte civile Si.Sa. che liquida in complessivi Euro 2.500,00 oltre IVA e CPA e il ricorrente C. a rifondere le spese sostenute dalla parte civile Equitalia Sud SpA che liquida in complessivi Euro 2.000,00 oltre IVA e CP

Leave a Reply

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *