Cassazione 4

Suprema Corte di Cassazione

sezione VI

sentenza 22 gennaio 2016, n. 3048

Ritenuto in fatto

1. Con provvedimento adottato de plano in data 18 settembre 2014, il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Napoli ha disposto l’archiviazione del procedimento iscritto a carico di V.R. , sostituto Procuratore presso il Tribunale di Salerno, per il reato di rivelazione ed utilizzazione di segreti di ufficio (art. 326 cod. pen.) nella ritenuta impossibilità di qualificare il denunciante, P.V.L. , quale persona offesa destinataria dell’avviso di cui all’art. 408, comma 2, cod. proc. pen..
2. Avverso l’indicato decreto propone ricorso il difensore del P. affidando il mezzo ad un unico articolato motivo con cui denuncia l’illegittimità del provvedimento per violazione della legge processuale (art. 606, comma 1, lett. e), in relazione agli artt. 408, comma 2, e 409, comma 2, cod. proc. pen.).
La difesa deduce la nullità assoluta per violazione delle regole del contraddittorio perché il decreto di archiviazione non era stato preceduto dalla notifica, ai sensi dell’art. 408 cod. proc. pen., dell’avviso di deposito della richiesta di archiviazione avanzata dal Pubblico Ministero.
Nell’illustrare la vicenda all’interno della quale era maturato il procedimento penale oggetto dell’impugnato decreto, la difesa espone come il P. fosse stato nominato perito genetico-forense nel corso delle indagini disposte per l’omicidio di C.E. – il cui cadavere era stato rinvenuto, diciassette anni dopo la sparizione della giovane, nel sottotetto di una chiesa di (…).
Deduce ancora la difesa come, in esito alla ritenuta discrepanza tra i risultati della perizia svolta dal medesimo P. – che non aveva riscontrato alcuna evidenza genetico-forense a sostegno dell’ipotesi accusatoria nei confronti di R.D. , indagato per l’omicidio C. – e quella resa dai R.I.S. – che aveva invece rinvenuto sulla scena del crimine tracce organiche riconducibili alla persona del soggetto accusato di omicidio -, fosse derivata l’indagine avviata nei confronti del proprio assistito per il delitto di falsa perizia.
In siffatto contesto, espone il ricorrente come il procedimento per rivelazione di segreto di ufficio, di cui era stata disposta l’archiviazione, fosse sorto in esito all’effettuata denuncia sull’incontro – di cui si era dato atto in alcuni articoli pubblicati sul sito web della trasmissione televisiva della Rai, “Chi lo ha visto” – intervenuto nei locali della Procura della Repubblica di Salerno tra il sostituto Procuratore, Dott.ssa V.R. , gli avvocati ed i familiari di C.E. .
Durante l’incontro, il Magistrato titolare delle indagini, all’epoca coperte da segreto di ufficio, avrebbe riferito a terze persone – gli indicati familiari e legali della C. – che entro un mese sarebbe stato disposto il rinvio a giudizio del P. per il delitto di falsa perizia.
2.1. Sulle indicate premesse in fatto, la difesa del P. contesta come a quest’ultimo si neghi, quale “denunciante – danneggiato” del reato di rivelazione di segreto di ufficio, il diritto ad avere notifica della richiesta di archiviazione.
Siffatto diritto invece – sia pure per le descritte irrituali forme dell’incontro intervenuto nei locali della Procura presso il Tribunale di Salerno – sarebbe stato riconosciuto ai familiari di C.E. , da qualificarsi, anch’essi, quali meri “denuncianti-danneggiati” nel procedimento per falsa perizia avviato nei confronti del P. .
Il trattamento processuale riservato ai denunciane – i familiari della C. – del “presupposto” procedimento di falsa perizia avrebbero segnato anche quello da riservarsi al denunciante – il ricorrente P. – del connesso procedimento di rivelazione di segreto d’ufficio.
2.2. La difesa denuncia inoltre violazione del contraddittorio anche per l’ulteriore ipotesi in cui il descritto incontro non fosse mai avvenuto, o fosse avvenuto secondo modalità diverse da quelle descritte dalla trasmissione televisiva.
In tal caso vi sarebbe stato un interesse del P. ad interloquire, all’esito dell’avviso della richiesta di archiviazione e del provocato procedimento camerale, sulla possibile riqualificazione, in termini di diffamazione aggravata, della vicenda e quindi della derivata propria posizione di persona offesa.
3. Il Procuratore generale presso la Corte di Cassazione, con memoria scritta depositata l’8 luglio 2015, ha concluso per l’inammissibilità del proposto ricorso, per ritenuto difetto di legittimazione in capo al ricorrente ad attivare i meccanismi di controllo sul corretto uso del potere di archiviazione, attesa la natura monoffensiva del reato di rivelazione di segreto di ufficio, in cui unica persona offesa è la pubblica Amministrazione.
4. La difesa del P. ha provveduto a depositare memoria scritta in cui sollecita la Corte ad un ripensamento critico in ordine alla struttura del reato di rivelazione ed utilizzazione di segreti di ufficio, visione che, non più legata ad una visione “Stato-centrica” della pubblica Amministrazione, vuole essere diretta a far valere la natura plurioffensiva del delitto, in cui il bene tutelato non è solo quello connesso all’imparzialità ed al buon andamento della pubblica Amministrazione, ma anche quello, di volta in volta diverso ed ulteriore, facente capo ad una serie di titolari puntualmente identificati.
Argomenta la parte, per la più ampia proposta lettura, da quanto già avvenuto per le fattispecie di peculato (art. 314 cod. pen.), abuso d’ufficio (art. 323 cod. pen.), turbata libertà degli incanti (art. 353 cod. pen.), omissione di atti di ufficio (art. 328, comma 2, cod. pen.), ipotesi nelle quali la giurisprudenza della Corte di legittimità avrebbe alternativamente ravvisato, secondo raggiunto orientamento, la lesione di ulteriori interessi facenti capo al privato di cui la prima avrebbe, così, legittimato il diritto ad avere avviso dell’archiviazione (art. 408, comma 2, cod. proc. pen.).
5. In data 30 novembre 2015, per la camera di consiglio del 1 dicembre 2015, è pervenuta tardiva memoria (art. 611 cod. proc. pen.) della difesa dell’indagata che ha concluso per l’inammissibilità del ricorso.

Ritenuto in diritto

1. Per consolidato orientamento di legittimità, nel reato di rivelazione ed utilizzazione di segreto di ufficio, la persona offesa deve essere individuata esclusivamente nella p.A., risultando l’interesse tutelato rappresentato dal buon funzionamento dell’amministrazione attraverso il dovere di fedeltà del funzionario.
Al privato invece può, al più, attribuirsi la qualità di terzo danneggiato, negandosi, per tale via, al medesimo la legittimazione a ricorrere per cassazione contro il provvedimento di archiviazione e ad attivare i meccanismi di controllo processuale di cui agli artt. 408-410 cod. proc. pen. (Sez. 6, n. 4170 del 06/11/2012, Minolfi, Rv. 254239; Sez. 6, n. 19307 del 22/04/2008, Rv. 239883, Petrella; Sez. 6, n. 5141 del 18/12/2007, Cincavalli; Sez. 6, n. 2675 del 24/09/1998, Piccirilli; Sez. 6, n. 3598 del 12/10/1995, Ferretti).
1.1. L’argomento portato in ricorso per il quale il trattamento riservato ai danneggiati del reato di falsa perizia, i quali sarebbero stati avvisati, nel corso di un incontro con il rappresentante della pubblica Accusa, della prossima chiusura delle indagini e del disposto rinvio a giudizio del P. , indagato per il reato di cui all’art. 373 cod. pen., deporrebbe per la legittimazione del P. stessa ad ottenere avviso della richiesta archiviazione nel derivato procedimento di rivelazione di segreti di ufficio, è del tutto incongruo.
Lo stesso, nella diversità delle condotte poste in raffronto di operata, in fatto, partecipazione ai danneggiati degli esiti delle indagini e di mancato avviso del provvedimento di archiviazione, non è destinato a sostenere alcun critico ripensamento dell’affermato indirizzo della Corte sul carattere monoffensivo del reato di rivelazione del segreto di ufficio.
1.2. Gli esiti interpretativi cui è giunta la giurisprudenza di legittimità nella individuazione degli interessi lesi, e quindi delle categorie delle persone offese, per talune delle tipologie di reato (tra i quali il peculato e l’abuso d’ufficio), non valgono ad estendere, di contro a granitica giurisprudenza di legittimità, in capo al danneggiato dal reato di rivelazione del segreto di ufficio quel diritto al contraddittorio riconosciuto invece in fase di indagine alla persona offesa, destinataria come tale dell’avviso del decreto di archiviazione (art. 409, comma 2, cod. proc. pen.).
L’elemento soggettivo del reato oggetto dell’opposta archiviazione che accompagna la condotta per la quale “Il pubblico ufficiale o la persona incaricata di un pubblico servizio, che, violando i doveri inerenti alle funzioni o al servizio, o comunque abusando della sua qualità, rivela notizie di ufficio, le quali debbano rimanere segrete, o ne agevola in qualsiasi modo la conoscenza” (art. 326, comma primo, cod. pen.) risulta infatti integrato da un dolo generico, che consiste nella coscienza e volontà di rivelare notizie o di agevolarne la loro conoscenza da parte di terzi, nella consapevolezza del loro carattere segreto e della violazione dei loro doveri di funzione.
Per gli indicati contenuti quindi l’intento dell’agente non è quello di recare danno al privato che pertanto patisce per la descritta condotta di eventuali pregiudizi non in via diretta, ma quale riflessa conseguenza destinata a rilevare ai fini della risarcibilità derivante da reato, ma non a legittimare il privato stesso all’esercizio dei poteri processuali destinati ad incidere sulle sorti dell’azione penale (artt. 408, 409, 410 cod. proc. pen.).
Siffatti poteri sono invece riconosciuti all’offeso, in quanto la lesione del bene giuridico di cui egli è portatore riceve espresso riconoscimento dalla stessa obiettiva struttura del reato e dal correlato estremo soggettivo (diversa sarebbe invece, ad esempio, l’ipotesi delittuosa descritta dal terzo comma dell’art. 326 cod. pen. ove l’espresso richiamo, proprio di un dolo specifico, all’intento dell’agente di procurare, con l’assunta condotta di illegittimo utilizzo di notizie di ufficio destinate a rimanere segrete, un altrui danno ingiusto può ritenersi estendere la platea dei soggetti offesi al privato).
1.3. Le svolte considerazioni assorbono ogni ulteriore prospettato profilo di ricorso.
2. Va pertanto dichiarata l’inammissibilità del ricorso ed il ricorrente condannato al pagamento delle spese processuali e di una somma che si reputa equo stimare in Euro mille in favore della Cassa delle ammende, in ragione della ritenuta sanzionabilità di una iniziativa processuale connotata da colpa.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1.000,00 in favore della Cassa delle ammende.

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