Suprema Corte di Cassazione
sezione VI civile
sentenza 19 maggio 2015, n. 10233
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE 2
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. PETITTI Stefano – rel. Presidente –
Dott. MANNA Felice – Consigliere –
Dott. CORRENTI Vincenzo – Consigliere –
Dott. GIUSTI Alberto – Consigliere –
Dott. FALASCHI Milena – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso proposto da:
P.A.G., A.A.C., A. R.R., A.A., L.P.E., G. L., C.L., T.F., A.F., C.U., S.F., P.L. S., rappresentati e difesi, per procura speciale a margine del ricorso, dall’Avvocato LUPERTO COSIMO, elettivamente domiciliati in Roma, via Oderisi da Gubbio n. 214, presso Remo Colaci;
– ricorrenti –
contro
MINISTERO DELLA GIUSTIZIA, in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso dall’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, presso i cui uffici in Roma, via dei Portoghesi n. 12, è domiciliato per legge;
– controricorrente –
avverso il decreto della Corte d’Appello di Potenza, depositato in data 30 aprile 2013, n. 499 del 2013;
Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 19 marzo 2015 dal Presidente relatore Dott. Stefano Petitti.
Svolgimento del processo – Motivi della decisione
Ritenuto che, con ricorso depositato in data 29 settembre 2011 presso la Corte d’appello di Potenza P.A.G., A. F., A.R.R., A.A., A. A.C., C.L., C.U., G. L., L.P.E., P.L.S., S.F., T.F. chiedevano la condanna del Ministero della giustizia al pagamento del danno non patrimoniale derivato dalla irragionevole durata della procedura concernente il fallimento della Ditta Antonio De Rocco S.p.A., iniziata con dichiarazione di fallimento da parte del Tribunale di Lecce in data 7 giugno 1988 e non ancora conclusasi alla data della domanda;
che l’adita Corte d’appello, stimata come ragionevole una durata di nove anni in considerazione della complessità della procedura, riteneva che fosse indennizzabile un ritardo di 14 anni, tenuto conto che l’inizio del procedimento doveva essere individuato nella data di insinuazione al passivo, e liquidava ai ricorrenti, in considerazione dell’atteggiamento quasi contemplativo degli stessi e tenuto conto del criterio interpretativo desumibile dalle disposizioni modificative della L. n. 89 del 2001, introdotte dal D.L. n. 83 del 2012, un indennizzo pari al valore del credito, debitamente convertito in Euro, da ciascuno di essi azionato nella procedura fallimentare, oltre interessi al tasso legale dalla data di presentazione della domanda al soddisfo;
che, quindi, la Corte d’appello condannava il Ministero della giustizia al pagamento, in favore dei ricorrenti, delle seguenti somme: P.A.G.: Euro 3.549,00; A. F.: Euro 3.949,00; A.R.R.: Euro 4.436,00;
A.A.: Euro 2.117,00; A.A.C.: Euro 4.131,00; C.L.: Euro 2.403,00; C.U.: Euro 3.694,00; G.L.: Euro 3.360,00; L.P.E.:
Euro 2.227,00; P.L.S.: Euro 3.318,00; S. F.: Euro 1.444,00; T.F.: Euro 4.409,00;
che avverso questo decreto i ricorrenti in epigrafe indicati hanno proposto ricorso, affidato a cinque motivi;
che l’intimato Ministero ha resistito con controricorso.
Considerato che il Collegio ha deliberato l’adozione della motivazione semplificata nella redazione della sentenza;
che con il primo motivo i ricorrenti deducono violazione o falsa applicazione della L. n. 89 del 2001, art. 2 e ss., dell’art. 2056 c.c., dell’art. 111 Cost., e dell’art. 6, par. 1., della CEDU, nonchè vizio di motivazione omessa e contraddittoria ed omesso esame su fatti decisivi, dolendosi del fatto che la Corte d’appello abbia determinato la durata ragionevole della procedura fallimentare presupposta in nove anni, in contrasto con le indicazioni della giurisprudenza di legittimità, secondo cui la detta durata può essere al massimo di sette anni;
che la Corte d’appello, ad avviso dei ricorrenti non avrebbe neppure adeguatamente illustrato le ragioni specifiche che nel caso esaminato inducevano a ritenere ragionevole una durata di nove anni, nè avrebbe considerato che dalla relazione del curatore fallimentare emergevano elementi nel senso della non complessità della procedura;
che con il secondo motivo i ricorrenti denunciano altra violazione della L. n. 89 del 2001, art. 2, dell’art. 2056 c.c., dell’art. 1 della legge costituzionale n. 2 del 1999, dell’art. 6, par. 1, della CEDU e dell’art. 111 Cost., nonchè vizio di motivazione contraddittoria e omesso esame su fatti decisivi, censurando il decreto impugnato per essersi la Corte d’appello discostata dai parametri relativi all’entità degli indennizzi che la giurisprudenza della Suprema Corte di Cassazione ha enucleato (e che prevedono un indennizzo non inferiore a 750,00 Euro per ogni anno di ritardo in relazione ai primi tre anni eccedenti la durata ragionevole e 1.000,00 per quelli successivi), avendo riconosciuto a tutti i ricorrenti un indennizzo pari all’importo del credito da ciascuno di essi azionato nella procedura concorsuale;
che con il terzo motivo i ricorrenti denunciano altra violazione della L. n. 89 del 2001, art. 2, degli artt. 2056, 1223 e 1226 c.c., dell’art. 1 della legge costituzionale n. 2 del 1999, dell’art. 6, par. 1, della CEDU, dell’art. 11 preleggi, del D.L. n. 83 del 2012, art. 55, e della L. n. 134 del 2012, art. 2 bis, nonchè vizio di motivazione contraddittoria e omesso esame su fatti decisivi, censurando il decreto impugnato per avere la Corte d’appello fatto applicazione della disposizione da ultimo citata – la quale effettivamente prevede che l’indennizzo non possa superare il valore della causa in relazione alla quale viene chiesto -, sebbene la stessa sia applicabile ai soli ricorsi depositati dopo l’entrata in vigore della legge di conversione;
che con il quarto motivo i ricorrenti lamentano che la Corte di appello abbia liquidato l’indennizzo tenendo conto del valore dei crediti ammessi al passivo, e dunque in misura non omogenea per tutti i ricorrenti, in violazione dell’art. 3 Cost., e degli artt. 2056, 1223 e 1226 c.c., nonchè vizio di motivazione contraddittoria e omesso esame su fatti decisivi;
che con il quinto motivo i ricorrenti denunciano ulteriore violazione degli artt. 1223, 1226 e 2056 c.c., violazione dell’art. 429 c.p.c., e della L. n. 89 del 2001, art. 2, nonchè vizio di motivazione contraddittoria ed omesso esame su fatti decisivi, per avere, l’adita Corte d’appello, liquidato indennizzi pari al valore dei crediti di lavoro vantati dai ricorrenti senza averli previamente attualizzati, vale a dire senza che essi siano stati ricalcolati tenendo conto della rivalutazione monetaria e degli interessi legali, dalla maturazione al soddisfo;
che all’esame dei motivi occorre premettere che la presente controversia non è soggetta, ratione temporis, all’applicazione delle disposizioni introdotte dal D.L. n. 83 del 2012, convertito, con modificazione, dalla L. n. 134 del 2012, applicabili ai ricorsi depositati a decorrere dal trentesimo giorno successivo a quello di entrata in vigore della legge di conversione;
che, del resto, alle disposizioni introdotte nel 2012 non può neanche riconoscersi natura di norme di interpretazione autentica, atteso che, se è vero che per alcuni aspetti vengono recepiti orientamenti della giurisprudenza di questa Corte mutuati dalla giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo, non vi è nulla nel D.L. n. 83 del 2012, che possa indurre a ritenere che il legislatore abbia inteso attribuire alle nuove disposizioni efficacia retroattiva, avendo, anzi, espressamente dettato una specifica previsione per l’entrata in vigore della nuova disciplina;
che, tanto premesso, il primo motivo di ricorso è fondato;
che, invero, questa Corte ha avuto modo di affermare (Cass. n. 8468 del 2012) che la durata ragionevole delle procedure fallimentari può essere stimata in cinque anni per quelle di media complessità, ed è elevabile fino a sette anni allorquando il procedimento si presenti notevolmente complesso; ipotesi, questa, ravvisabile in presenza di un numero elevato di creditori, di una particolare natura o situazione giuridica dei beni da liquidare (partecipazioni societarie, beni indivisi ecc.), della proliferazione di giudizi connessi alla procedura, ma autonomi e quindi a loro volta di durata condizionata dalla complessità del caso, oppure della pluralità delle procedure concorsuali interdipendenti;
che, nel caso di specie, la Corte d’appello si è discostata dall’indicato orientamento ritenendo ragionevole una durata di nove anni per via della “complessità del caso”; elemento – questo – che già concorre a considerare ragionevole la durata di sette anni in luogo di cinque;
che il secondo e il terzo motivo di ricorso, all’esame dei quali può procedersi congiuntamente, sono fondati;
che, invero, questa Corte ha già avuto modo di chiarire che, se è vero che il giudice nazionale deve, in linea di principio, uniformarsi ai criteri di liquidazione elaborati dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo (secondo cui, data l’esigenza di garantire che la liquidazione sia satisfattiva di un danno e non indebitamente lucrativa, la quantificazione del danno non patrimoniale deve essere, di regola, non inferiore a Euro 750,00 per ogni anno di ritardo, in relazione ai primi tre anni eccedenti la durata ragionevole, e non inferiore a Euro 1.000,00 per quelli successivi), permane, tuttavia, in capo allo stesso giudice, il potere di discostarsene, in misura ragionevole, qualora, avuto riguardo alle peculiarità della singola fattispecie, ravvisi elementi concreti di positiva smentita di detti criteri, dei quali deve dar conto in motivazione (Cass. n. 18617 del 2001; Cass. n. 17922 del 2010);
che, nella specie, esclusa la diretta applicabilità della nuova normativa di cui alla L. n. 89 del 2001, art. 2 bis, introdotto dal D.L. n. 83 del 2012, deve rilevarsi che la Corte d’appello, pur potendo – come prima rilevato – discostarsi dagli ordinari criteri di liquidazione, ha attuato una liquidazione che assume come vincolante e come limite massimo il valore del credito ammesso al passivo, mentre, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, la maggiore o minore entità della posta in gioco può incidere sulla misura dell’indennizzo, consentendo al giudice di scendere anche al di sotto della soglia minima (Cass. n. 12937 del 2012), ma non anche di parificare la liquidazione al valore della causa in cui si è verificata la violazione;
che il quarto ed il quinto motivo di ricorso rimangono assorbiti dall’accoglimento del precedente;
che, dunque, accolto il primo, il secondo e il terzo motivo, assorbiti il quarto e il quinto, il decreto impugnato deve essere cassato;
che, tuttavia, non apparendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, la causa può essere decisa nel merito ai sensi dell’art. 384 c.p.c., comma 2;
che, infatti, accertata la irragionevole durata della procedura fallimentare in anni 16 (eccedenti i 7 previsti per procedure fallimentari di particolare complessità quale quella in oggetto, stante l’altissimo numero di domande di ammissione allo stato passivo e la pluralità di azioni giudiziarie intraprese nell’interesse del fallimento per il recupero di crediti), alla liquidazione dell’indennizzo può procedersi applicando il criterio di 500,00 Euro per anno di ritardo, giudicato come congruo nell’ormai prevalente e più recente giurisprudenza di questa Corte Suprema in relazione alle procedure fallimentari (Cass. n. 16311 del 2014) e determinando l’ammontare dell’indennizzo, in favore di ciascuno dei ricorrenti, in Euro 8.000,00;
che il Ministero della giustizia deve quindi essere condannato al pagamento, in favore dei ricorrenti, della somma di Euro 8.000,00, oltre agli interessi legali dalla domanda al soddisfo, ferma la statuizione relativa alle spese del giudizio di merito, ivi compresa la distrazione in favore del difensore antistatario;
che il Ministero deve essere condannato altresì alla rifusione delle spese del giudizio di cassazione, liquidate come da dispositivo.
P.Q.M.
La Corte accoglie il primo, il secondo e il terzo motivo di ricorso, assorbiti il quarto e il quinto; cassa il decreto impugnato in relazione alle censure accolte e, decidendo nel merito, condanna il Ministero della giustizia al pagamento, in favore di ciascuno dei ricorrenti, della somma di Euro 8.000,00, oltre agli interessi legali dalla data della domanda al saldo, ferme le statuizioni in ordine alle spese del giudizio di merito; condanna altresì il Ministero alla rifusione delle spese giudizio di cassazione, in Euro 700,00 per compensi, oltre agli accessori di legge e alle spese forfettarie.
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Sezione Sesta – 2 Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 19 marzo 2015.
Depositato in Cancelleria il 19 maggio 2015.
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