Suprema Corte di Cassazione
sezione VI
sentenza 15 luglio 2014, n. 31123
Ritenuto in fatto
È impugnata la sentenza del 12/02/2013 con la quale la Corte d’appello di Torino ha parzialmente riformato la sentenza di condanna resa il 29/02/2012, nei confronti di N.G. , dal Tribunale di Torino.
L’imputazione originaria si riferiva ad un delitto di maltrattamenti in famiglia commesso dall’odierno ricorrente ai danni della moglie Z.S. e delle figlie V. e Va. , lungo un periodo corrente dal (omissis) .
L’azione penale relativa al fatto commesso in danno della Z. è stata dichiarata improcedibile dal Giudice di prime cure, per estinzione in forza di prescrizione, sul presupposto che la condotta violenta e minacciosa tenuta dal N. fosse cessata, riguardo appunto alla moglie, in sostanziale coincidenza con l’abbandono da parte sua del domicilio coniugale, avvenuto nel (omissis) .
Anche N.V. e Va. avevano lasciato la casa familiare, ancor prima del padre (rispettivamente, nel (…) e nel (…)), ma il Tribunale aveva ritenuto per esse fondata l’imputazione. La Corte territoriale ha poi ridefinito la fisionomia del fatto punibile, prosciogliendo l’odierno ricorrente, per l’insussistenza del fatto contestato, fino a tutto il (…), e dichiarandolo colpevole del reato ascritto nei confronti delle figlie per gli anni (omissis) .
1.1. Secondo le risultanze esposte nella sentenza impugnata, la convivenza nel nucleo familiare era degenerata a far tempo dal (…), allorquando N. , che aveva acquistato un casa in (…), si era allontanato sempre più spesso, e nei periodi di presenza aveva preso a maltrattare le figlie e la moglie, ad infliggere percosse e minacce, a danneggiare gli oggetti domestici.
Le figlie dell’imputato, dopo aver lasciato la casa familiare, avevano avuto con il padre contatti sporadici, quasi mai di persona. Tuttavia nel (…) l’uomo aveva preso a chiamarle per telefono e ad inviare loro messaggi sms, con insulti e minacce gravi, tanto da indurle ad uno stato di preoccupazione e prostrazione che le aveva infine spinte a denunciare i fatti. Circostanze, queste, nel complesso confermate da vari testimoni.
La sentenza riferisce anche delle prospettazioni difensive, secondo cui i problemi familiari erano iniziati a causa di una relazione extraconiugale della Z. , senza alcun atteggiamento violento da parte dell’interessato, che comunque avrebbe praticamente interrotto i rapporti con le persone offese fin dalla metà dello scorso decennio. Le liti più recenti sarebbero nate dal fatto che la Z. aveva estromesso N. da un suo appartamento, e l’avrebbe privato di tutti i suoi beni, e dal fatto che una querela sporta per tali fatti dallo stesso N. era stata archiviata per ritenuta tardività.
1.2. La Corte territoriale, dopo avere escluso la ricorrenza dei presupposti per una assoluzione nel merito quanto al reato dichiarato estinto con la sentenza appellata (e la possibilità o l’utilità di ulteriori indagini sull’argomento), ha negato, come si accennava, che le prove raccolte documentino condotte di maltrattamenti in danno delle giovani N. , risultando solo episodiche percosse per l’epoca anteriore all’abbandono della casa familiare e solo limitatissimi contatti per l’epoca successiva.
Le pressioni dell’odierno ricorrente, per altro, si erano intensificate a partire dal 2009, dando luogo ad “un vero e proprio stillicidio di telefonate e di sms di contenuto minatorio e molesto […] dai toni fortemente aggressivi”, talvolta esplicitamente riferiti all’imminenza di atti di violenza armata, e ad una effettiva condizione di sofferenza delle interessate, posta in evidenza da alcune deposizioni.
In diritto, la Corte territoriale assume che il delitto di maltrattamenti è integrabile anche quando non vi sia convivenza del nucleo familiare, se le condotte violente e minacciose sono idonee, come nel caso di specie, a provocare un penoso regime di vita.
2. Con un primo motivo di ricorso, la Difesa del N. denuncia violazione della legge penale sostanziale (art. 606, comma 1, lettera b, cod. proc. pen., in relazione all’art. 572 cod. pen.).
Il rapporto di familiarità nel quale deve inserirsi la patologia descritta dalla norma incriminatrice richiede almeno una effettiva continuità di interessi e consuetudini di vita, che nella specie, ed avuto riguardo ai residui fatti in contestazione, mancava del tutto e da molti anni.
Mancava d’altra parte, nel caso in esame, una vera connotazione di abitualità della condotta e di soggezione indotta nelle presunte vittime. La stessa sentenza riconosce che Na.Va. , da lungo tempo, non rispondeva neppure più alle chiamate ed ai messaggi del padre.
La sentenza impugnata sarebbe affetta anche da carenza di motivazione, non avendo la Corte territoriale dato risposta alle specifiche sollecitazioni dell’appellante per una riqualificazione dei fatti più recenti a norma dell’art. 612 cod. pen..
Considerato in diritto
1. Il ricorso è fondato, nei termini e nei limiti di cui appresso di dirà.
2. Come si è visto trattando del fatto, i Giudici di merito hanno accertato che, sebbene l’imputazione elevata nei confronti del N. comprenda fatti asseritamente commessi fino all’estate del 2010, il rapporto di convivenza familiare dell’odierno ricorrente con le persone offese era ormai cessato da molti anni. L’interruzione data, per quanto riguarda la moglie, al (…). Anche riguardo alle figlie, per le quali è residuato un deliberato di condanna relativamente ai comportamenti tenuti nel (…) e nel (…), la convivenza era cessata al più tardi nel (…).
L’odierno ricorrente è stato in parte prosciolto dai reati ascrittigli, nei confronti di tutte le persone offese, essenzialmente in ragione dell’indicata dissoluzione del nucleo familiare, e della sporadicità dei successivi contatti intercorsi tra i protagonisti della vicenda, tale da escludere comunque il necessario connotato di abitualità della condotta vessatoria.
Di fronte ad una ripresa della (patologica) relazione del ricorrente con le figlie, avviata nel 2009 e segnata da telefonate e messaggi di carattere minatorio od insultante, la Corte territoriale ha ritenuto corretta la qualificazione della condotta quale violazione dell’art. 572 cod. pen. Ciò nella ritenuta applicazione di una giurisprudenza consolidata, secondo cui, ad esempio, la separazione tra coniugi non esclude la configurabilità del delitto di maltrattamenti, quando dello stesso sussistano gli ulteriori elementi costitutivi: l’interruzione della convivenza non interrompe – si dice – l’immanenza dei doveri di rispetto e solidarietà fondati sul vincolo familiare (ad esempio, Sez. 6, Sentenza n. 7369 del 13/11/2012, rv. 254026; Sez. 6, Sentenza n. 26571 del 27/06/2008, rv. 241253; Sez. 6, Sentenza n. 49109 del 22/09/2003, rv. 227719; Sez. 6, Sentenza n. 3570 del 01/02/1999, rv. 213515).
Il principio richiamato è certamente corretto, ma non pertinente al caso di specie. La giurisprudenza non ha inteso affermare che qualunque condotta vessatoria tenuta ai danni di un parente (o di una persona legata da un vincolo affettivo costruito sul modello parentale) può essere qualificata a norma dell’art. 572 cod. pen. Ha riconosciuto, piuttosto, che le situazioni familiari o parafamiliari costituiscono un ambito all’interno del quale sono possibili rapporti di subordinazione psicologica o di vessazione che trovano fondamento proprio nel vincolo nascente dalla relazione familiare, la quale in certo senso costituisce l’occasione della condotta prevaricatrice e l’oggetto di un abuso compiutone dall’agente.
Ove la dinamica familiare resti inalterata, in termini di attualità del vincolo “abusato”, l’interruzione della convivenza non esclude la possibile prosecuzione o l’avvio di una condotta di maltrattamenti (in questi termini, sostanzialmente, Sez. 6, Sentenza n. 282 del 26/01/1998, rv. 210838). Del resto, l’orientamento consolidato che, anche prima della recente riforma, ha esteso alle comunità non fondate sul matrimonio la tutela apprestata dalla norma de qua si fonda proprio sulla centralità che assume, nell’economia della fattispecie, lo stabile vincolo affettivo ed umano da proteggere contro fenomeni di sopraffazione (ad esempio Sez. 3, Sentenza n. 8953 del 03/07/1997, rv. 208444; Sez. 5, Sentenza n. 24688 del 17/03/2010, rv. 248312; Sez. 6, Sentenza n. 23830 del 07/05/2013, rv. 256607).
Non a caso, proprio trattando dell’ipotesi di separazione intervenuta tra i coniugi, questa Corte ha avuto cura di precisare come l’integrazione del reato resti possibile se e quando “l’attività persecutoria si valga proprio o comunque incida su(i) vincoli che, rimasti intatti a seguito del provvedimento giudiziario, pongono la parte offesa in posizione psicologica subordinata (fattispecie nella quale il marito separato pure dinanzi a terzi percuoteva abitualmente e minacciava la moglie di ritorsioni gravi sul figlio minore)” (Sez. 6, Sentenza n. 10023 del 07/10/1996, rv. 206399).
È dunque evidente che non ogni reato commesso con continuità nei confronti di un parente, quand’anche provochi un penoso regime di vita, può essere qualificato a norma dell’art. 572 cod. pen., così come invece è parsa ritenere la Corte territoriale, non indagando affatto sulla qualità della “relazione familiare” residuata dopo il risalente scioglimento del nucleo familiare, e dopo il lungo periodo di interruzione quasi totale dei rapporti tra N. e le sue figlie.
L’integrazione del delitto contestato dovrà essere verificata in base al principio che, sul piano obiettivo, è necessaria l’attualità di una relazione familiare intesa come vincolo affettivo e produttivo di doveri di solidarietà ed assistenza e che, sul piano soggettivo, l’agente deve volere la produzione del regime di vita segnato dalla vessazione nella sua specifica qualità di patologica relazione familiare.
3. La sentenza impugnata va dunque annullata, per il denunciato difetto di motivazione, ed in vista di una corretta applicazione della norma penale sostanziale.
Va aggiunto che l’irrilevanza dei singoli episodi di ingiuria o minaccia, e dello stesso generale atteggiamento persecutorio del ricorrente nei confronti delle figlie (art. 612-bis cod. pen.), è stata ritenuta sul presupposto dell’assorbimento dei relativi delitti nella fattispecie dei maltrattamenti in famiglia. Resta chiaro che, ove ritenesse non integrata detta fattispecie alla luce del principio di diritto qui enunciato, la Corte territoriale potrà ben valutare una diversa qualificazione giuridica dei fatti già contestati, come del resto, e sia pure in un’ottica schiettamente difensiva, si è chiesto con i motivi di ricorso (in rapporto ad una eventuale riqualificazione dei messaggi minacciosi e art. 612 cod. pen.).
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata e rinvia per nuovo giudizio ad altra sezione della Corte d’appello di Torino.
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