Suprema Corte di Cassazione
sezione VI
sentenza 11 febbraio 2014, n. 6400
Osserva
1. Con sentenza 13 giugno 2012 la Corte di appello di Milano confermava, in punto di responsabilità, la decisione 15 ottobre 2007 del locale Tribunale che aveva ritenuto R.S. colpevole del reato di cui all’ art. 567, 2° comma, c.p., addebitatogli per avere, in concorso con L.B., giudicata separatamente, alterato lo stato civile di A.S. nata a Milano il 21 ottobre 2003, dichiarandola all’ufficiale di stato civile come figlia sua e di sua moglie, appunto, L.B., nonostante l’imputato non fosse né marito della B. né padre naturale della neonata.
Il procedimento aveva avuto inizio a sèguito di impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità proposta, ai sensi dell’ art. 263 c.c., dalla B., depositata in data 12 aprile 2005 davanti al Tribunale di Milano, corredata, tra l’altro, dal certificato di stato libero della donna.
Poiché l’impugnazione per difetto di veridicità doveva essere necessariamente preceduta dall’azione di contestazione della filiazione legittima, avendo il S. dichiarato, non solo di essere il padre della piccola A., ma anche di essere unito in matrimonio con la B., il 19 gennaio 2006, la B. depositava ricorso ex art. 248 c.c.
La domanda veniva accolta dal Tribunale civile di Milano che dichiarava che A.S. non è figlia legittima di R.S.
2. Ad avviso del giudice di primo grado, la falsa attribuzione dello status di figlio legittimo, mediante la altrettanto falsa dichiarazione di coniugio sarebbe sufficiente ad integrare la fattispecie per cui è intervenuta condanna.
3. Sulla base degli elementi documentali ed esclusa ogni rilevanza alle contestazioni circa l’elemento soggettivo su cui si fondava essenzialmente l’atto di appello, la Corte territoriale confermava la sentenza di primo grado.
4. Ricorre per cassazione il Saracino articolando tre ordini di motivi.
Con il primo deduce violazione dell’ art. 567, 20 comma, c.p., per essersi accertata non la falsa paternità dell’imputato ma esclusivamente l’assenza del rapporto di coniugio. Un dato che consente di ritenere l’inipotizzabilità del reato contestato che presuppone che venga attribuito al neonato un genitore diverso da quello che l’ha generato.
Con il secondo motivo si censura l’affermata preclusione all’esame del motivo sopra riportato in quanto l’imputato, pur avendo articolato l’impugnazione sull’elemento soggettivo, aveva comunque messo in discussione la sua responsabilità.
Con il terzo motivo si lamenta violazione di legge e omessa motivazione in punto di elemento soggettivo del reato; l’imputato aveva agito nella più perfetta buona fede ed al solo scopo di far del bene alla piccola A. Un dato che era stato riconosciuto dallo stesso Tribunale che gli aveva concesso le circostanze attenuanti generiche proprio “in ragione delle motivazioni per le quali ha posto in essere la condotta”.
Il ricorso è inammissibile.
3. Occorre premettere che, come ampiamente risulta dalla sentenza di primo grado (di cui la decisione di appello segue le linee fondamentali), la vicenda processuale ora la vaglio del Collegio scaturisce dall’atto di citazione proposto dalla B., avente ad oggetto l’impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità, impugnazione consentita, ai sensi dell’art. 263 c.c. anche dopo la legittimazione. Nell’atto ora ricordato, la B., oltre a contestare di essere unita in matrimonio con la S., precisava che il ricorrente non era neppure padre naturale della neonata, così domandando che il Tribunale civile dichiarasse l’inefficacia del riconoscimento, ed ordinasse all’ufficiale di stato civile di eseguire la relativa annotazione in calce all’atto di nascita, di dichiarare l’assunzione della neonata del nome della madre e la cancellazione del cognome S. Successivamente, il 19 gennaio 2006, la B. depositava ricorso ex art. 248 c.c. (contestazione della legittimità), azione resasi necessaria perché la prima domanda doveva essere preceduta dal giudizio di contestazione della filiazione legittima, avendo il S. dichiarato, non soltanto di essere il padre naturale della neonata ma anche di essere coniugato con la B. all’atto della nascita.
Pervenuto l’originario atto di citazione al Pubblico ministero, si procedeva a carico del S. e della B. (che definiva il procedimento ai sensi dell’art. 444 c.p.p.). Alla minore veniva nominato un curatore speciale. Veniva acquisita la sentenza del Tribunale civile di Milano in data 14 marzo 2007, che aveva accolto l’azione di contestazione di legittimità. La parte civile nelle sue conclusioni dichiarava di aver proposto l’azione ex art. 263 c.c. In effetti, sempre secondo la sentenza di primo grado il S. aveva ammesso anche di non essere padre naturale della neonata, contestando esclusivamente l’elemento psicologico del reato.
Nell’atto di appello il S. incentrava, anche qui, le sue doglianze sull’assenza dell’elemento soggettivo, pur non mancando di rilevare che il procedimento civile aveva accertato soltanto la falsità della dichiarazione di coniugio, perché, quanto alla contestazione della paternità naturale, “il procedimento civile relativo al difetto di veridicità … si è interrotto ed allo stato degli atti non è in alcun modo possibile asserire la veridicità o meno della dichiarazione dell’imputato in merito”.
Un argomento riproposto in sede di ricorso nonostante sin dal 2009 il Tribunale di Milano avesse dichiarato che il S. non è padre naturale della piccola A. Infatti, veniva acquisita di ufficio da parte di questa Corte la sentenza 16 novembre 2009, del Tribunale civile di Milano, in esito alla citazione del S. da parte di L.B. e del curatore speciale di A.S. ai sensi dell’ art. 263 c.c., con la quale veniva dichiarato inefficace il riconoscimento della paternità naturale del S. e dichiarato che A.S. è figlia naturale di L.B.
Dunque, a parte ogni questione che fa leva sulla falsa dichiarazione di legittimità, il Collegio è dell’avviso che, pur essendo la giurisprudenza, orientata ad attribuire al rapporto di procreazione valore esponenziale ai fini della configurabilità della alterazione di stato, in ogni caso nella fattispecie risulta, sulla base di sentenza passata in cosa giudicata, la realizzazione del fatto per cui è intervenuta condanna.
5. Per il resto, le censure del ricorrente rientrano nel catalogo delle cause di inammissibilità descritte dall’ art. 606, comma 3, c.p.p., concernendo questioni di fatto già ampiamente scrutinate da entrambi i giudici di merito. Per di più, il ricorrente ha surrettiziamente nascosto alla cognizione di questa Corte la decisione definitiva che aveva negato la paternità naturale del S.
6. Alla dichiarazione di inammissibilità del ricorso consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e di una somma in favore della cassa delle ammende che si ritiene equo determinare in euro mille.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali ed alla somma di euro mille alla Cassa delle ammende.
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