Corte di Cassazione, sezione VI penale, sentenza 13 luglio 2017, n.34375

In tema di violazione delle norme della circolazione su strada la violazione della regola cautelare e la sussistenza del nesso di condizionamento tra la condotta e l’evento non sono, pertanto, sufficienti per fondare l’affermazione di responsabilità, giacché occorre anche chiedersi, necessariamente, se l’evento derivatone rappresenti o no la “concretizzazione” del rischio che la regola stessa mirava a prevenire. Difetta, in altri termini, l’evitabilità e quindi la colpa quando l’evento si sarebbe verificato anche qualora il soggetto avesse agito nel rispetto delle norme cautelari

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONE IV PENALE  

SENTENZA 13 luglio 2017, n.34375 

 

Ritenuto in fatto

Con sentenza del 7.10.2016, la Corte di Appello di Bologna confermava la sentenza resa dal Tribunale di Rimini, in data 16.07.2010, che aveva condannato F.M. per il delitto di omicidio colposo aggravato della violazione delle norme sulla circolazione stradale ai danni di S.L.S.R. .

In entrambe le pronunce di merito la dinamica del sinistro veniva pacificamente ricostruita nel senso che il ciclomotore condotto dalla persona offesa, giunto in corrispondenza di un incrocio, rallentava la sua marcia e si accingeva a svoltare a sinistra approssimandosi alla linea di mezzeria, allorquando la conducente perdeva l’equilibrio e cadeva. Nel frangente, sopraggiungeva sulla carreggiata opposta una Ford Fiesta condotta dal F. che, giunta all’incrocio, urtava il corpo della donna, cagionandone la morte. Non vi era, dunque, stato alcun urto tra i mezzi poiché la S. era caduta in terra autonomamente in concomitanza con l’arrivo dell’autovettura.

Così ricostruito l’episodio, i giudici del merito dichiaravano l’imputato colpevole del reato ascrittogli, individuando quale profilo di colpa la eccessiva velocità tenuta nel sopraggiungere all’incrocio, che non gli aveva consentito di evitare l’urto con il corpo della vittima.

Avverso tale sentenza propone ricorso per cassazione F.M. , a messo del proprio difensore, deducendo violazione di legge e mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione, con riferimento all’accertamento del nesso di causalità tra la condotta dell’imputato e l’evento dannoso. Deduce il ricorrente che la Corte di appello avrebbe dovuto riconoscere la mancanza nella condotta tenuta dall’imputato, del nesso di causalità quantomeno sotto il profilo della “causalità della colpa”.

In particolare, la sentenza impugnata non avrebbe adeguatamente esaminato la configurazione del rapporto di causalità tra la condotta colposa del ricorrente e l’investimento della vittima, rapporto che, ad avviso della difesa, non sarebbe ravvisabile nel caso, atteso che le regole cautelari violate dall’imputato non erano comunque idonee ad evitare il rischio determinato della caduta improvvisa della vittima sulla sede stradale. Inoltre, secondo la prospettazione difensiva, l’evento in esame si sarebbe ugualmente verificato pur quando l’imputato avesse correttamente rispettato il limite di velocità, mancando specificamente la prova che il comportamento alternativo corretto del ricorrente avrebbe con certezza escluso il decesso della donna.

Considerato in diritto

Il ricorso è fondato quanto alla dedotta insussistenza di profili di colpa addebitabili al ricorrente in relazione all’evento lesivo.

Osserva, infatti, il Collegio che il ragionamento seguito dalla Corte territoriale per affermare la responsabilità del ricorrente sotto il profilo della ritenuta configurabilità di una condotta colposa si presenta carente e logicamente viziato.

La Corte di appello, ripercorrendo anche le considerazioni sviluppate dal giudice di primo grado, ha ritenuto l’addebitabilità dell’evento all’imputato a titolo di colpa considerando che egli, approssimandosi all’incrocio, avrebbe dovuto adottare un comportamento improntato a massima prudenza, moderando la velocità, al fine di evitare situazioni di pericolo. La Corte ha, in particolare, evidenziato che, in tale situazione, il F. , perfettamente in grado di avvedersi del ciclomotore sul quale si trovava la vittima e impossibilitato a tenere strettamente la destra, a causa della presenza di altro veicolo fermo allo stop, avrebbe dovuto tenere una velocità maggiormente ridotta, sicché il sinistro, pur se causalmente innescato dalla condotta imperita della vittima, doveva comunque ritenersi eziologicamente riconducibile al comportamento colposo del ricorrente che, qualora avesse tenuto la condotta esigibile avrebbe potuto arrestare la marcia avvalendosi del ciclomotore che ondeggiava e della donna che stava cadendo.

Così argomentando, la Corte di merito ha però del tutto erroneamente valutato la condotta del F. , confondendo e sovrapponendo i diversi piani che attengono alla verifica relativa alla sussistenza del nesso causale e al giudizio volto all’accertamento della colpevolezza.

Nel caso in esame, invero, non si pongono dubbi per quanto attiene al profilo della causalità materiale della condotta ai sensi degli artt. 40 e 41 cod. pen., in quanto l’imputato con il suo comportamento attivo, alla guida del proprio autoveicolo ha certamente urtato la persona offesa determinandone il decesso.

Non può invece giungersi ad analoghe conclusioni in relazione al distinto tema della cosiddetta “causalità della colpa” che si configura quando il comportamento diligente avrebbe certamente evitato l’esito antigiuridico o avrebbe avuto significative probabilità di scongiurare il danno.

Occorre, in proposito, rammentare che è principio consolidato nella giurisprudenza di legittimità che, in tema di reati colposi, l’elemento soggettivo del reato richiede non soltanto che l’evento dannoso sia prevedibile, ma altresì che lo stesso sia evitabile dall’agente con l’adozione delle regole cautelari idonee a tal fine (cosiddetto comportamento alternativo lecito), non potendo essere soggettivamente ascritto per colpa un evento che, con valutazione “ex ante”, non avrebbe potuto comunque essere evitato (Sez. 4, n. 9390 del 13/12/2016, Di Pietro, Rv. 269254; Sez. 4, n. 7783 del 11/02/2016, Montaguti, Rv. 266356, Sez. 4, n. 25648 del 22/05/2008, Ottonello, Rv. 240859). Il tema è stato di recente approfondito anche dalle Sezioni Unite della Suprema corte che, nel delineare i tratti distintivi tra la regola di giudizio relativa all’evitabilità dell’evento per effetto di condotte appropriate e quella relativa alla dimostrazione del nesso causale hanno precisato che è proprio la regola fissata dall’art. 43 cod. pen., che, affermando che per aversi colpa l’evento deve essere stato causato da una condotta soggettivamente riprovevole, implica che l’indicato nesso eziologico non si configura quando una condotta appropriata (il cosiddetto comportamento alternativo lecito) non avrebbe comunque evitato l’evento. Si ritiene infatti che non sarebbe razionale pretendere, fondando poi su di esso un giudizio di rimproverabilità, un comportamento che sarebbe comunque inidoneo ad evitare il risultato antigiuridico. Concludono, dunque, le Sezioni unite che la colpa si configura quando la cautela richiesta avrebbe avuto significative probabilità di successo; quando cioè l’evento avrebbe potuto essere ragionevolmente evitato, quando – insomma – si configura la cosiddetta “causalità della colpa” (Sez. U, n. 38343 del 24.04.2014, Espenhahn, in motivazione).

In tale ambito ricostruttivo, la violazione della regola cautelare e la sussistenza del nesso di condizionamento tra la condotta e l’evento non sono, pertanto, sufficienti per fondare l’affermazione di responsabilità, giacché occorre anche chiedersi, necessariamente, se l’evento derivatone rappresenti o no la “concretizzazione” del rischio che la regola stessa mirava a prevenire (Cass. Sez. 4, n. 43966 del 06/11/2009, dep. 17/11/2009, Rv. 245526). Difetta, in altri termini, l’evitabilità e quindi la colpa quando l’evento si sarebbe verificato anche qualora il soggetto avesse agito nel rispetto delle norme cautelari.

Nel caso in disamina la Corte di appello non ha fatto buon governo dei suddetti principi giuridici che regolano l’individuazione della colpa ai sensi dell’art. 43 cod. pen. L’indagine svolta dal giudice di merito avrebbe, infatti, dovuto essere volta ad accertare se una condotta di guida prudente poteva avere significative probabilità di scongiurare l’evento. Viceversa la Corte, pur richiamando espressamente le deposizioni testimoniale, tutte convergenti nel riferire che la caduta della persona offesa avvenne contestualmente al passaggio dell’auto, tanto che questa colpì la donna prima che essa arrivasse a terra, ha omesso del tutto di valutare tale circostanza, giungendo alla opposta conclusione, che non trova alcun riscontro nelle emergente processuali, per cui il F. avrebbe potuto avvedersi del ciclomotore che ondeggiava e della donna che stava cadendo. Essendo, invece, incontestato che la persona offesa aveva perso l’equilibrio improvvisamente, in maniera del tutto autonoma e contestualmente al passaggio dell’autovettura, sì che l’impatto non aveva coinvolto nemmeno il ciclomotore ma solo il corpo della donna nell’atto stesso della caduta, appare evidente l’impossibilità per l’imputato di evitare l’investimento della vittima.

Per quanto detto, si impone nel caso l’annullamento senza rinvio della sentenza impugnata, perché, in assenza di colpa ascrivibile all’imputato il fatto non costituisce reato.

P.Q.M.

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata perché il fatto non costituisce reato.

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