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Suprema Corte di Cassazione

sezione VI

ordinanza  9 luglio 2013, n. 17010

Svolgimento del processo

1. C.A.O. propone ricorso per cassazione, affidato a tre motivi, avverso la sentenza della commissione tributaria regionale della Puglia n. 24/14/10, depositata il 26 febbraio 2010, con la quale, rigettato l’appello della medesima contro la decisione di quella provinciale, l’opposizione inerente all’avviso di accertamento, relativo all’Irpef, Irap ed Iva per l’anno 2001, riguardanti l’impresa familiare per la confezione di giacchè e pantaloni, veniva respinta. In particolare il giudice di secondo grado osservava che l’atto impositivo era stato regolarmente notificato; era adeguatamente motivato con i rilievi enunciati dalla Guardia di finanza in sede di verifica, la quale aveva riscontrato una contabilità non attendibile; il termine per le relative operazioni non era stato superato, anche perchè i giorni supplementari erano serviti soltanto alla elaborazione dei dati, ed alla predisposizione degli allegati presso, lo studio di consulenza SAVMA; inoltre alcuna sanzione di nullità del relativo avviso è prevista; il maggior reddito era stato esattamente accertato, a prescindere dal tentativo inerente all’adesione, posto che il procedimento relativo non si era perfezionato; esso andava attribuito al titolare dell’impresa per intero, e non in quota anche al marito, socio o collaboratore, poichè scaturiva non dalla dichiarazione, bensì dalla contestazione inerente all’accertamento stesso.
L’agenzia delle entrate resiste con controricorso, mentre la ricorrente ha depositato memoria.

Motivi della decisione

2. Col primo motivo la ricorrente deduce violazione di norma di legge, in quanto il termine di gg. 30 per la verifica da parte della GdF. deve intendersi perentorio, e quindi i dati raccolti da essa non potevano essere utilizzati per l’avviso di accertamento, pena la nullità del medesimo.
Il motivo è infondato.

A parte che si tratta anche di questione di fatto, per la quale la CTR riteneva che il termine in argomento non fosse stato affatto superato, tuttavia va osservato che in tema di verifiche tributarie, il termine di permanenza degli operatori civili o militari dell’Amministrazione finanziaria presso la sede del contribuente è meramente ordinatorio, in quanto nessuna disposizione lo dichiara perentorio, o stabilisce la nullità degli atti compiuti dopo il suo decorso. Nè la nullità di tali atti può ricavarsi dalla “ratio” delle disposizioni in materia, apparendo sproporzionata la sanzione del venir meno del potere accertativo fiscale a fronte del disagio arrecato al contribuente dalla più lunga eventuale permanenza degli agenti dell’Amministrazione, come nella specie (Cfr. anche Cass. Sentenze n. 17002 del 05/10/2012, n. 23595 del 11/11/2011).
Sul punto perciò la sentenza impugnata risulta motivata in modo giuridicamente corretto.
3. Col secondo motivo la ricorrente denunzia violazione di norme di legge, giacchè il giudice di appello non poteva ritenere legittimo l’avviso di accertamento, nonostante che con procedimento per adesione C.A. e l’agenzia avessero convenuto per un importo più ridotto.
La censura non ha pregio, dal momento che in tema di accertamento con adesione, la presentazione dell’istanza di definizione, così come il protrarsi nel tempo della relativa procedura, non comportano l’inefficacia dell’avviso di accertamento, ma ne sospendono soltanto il termine di impugnazione per 90 giorni, decorsi i quali, senza che sia stata perfezionata la definizione consensuale, quest’ultimo, in assenza di tempestiva impugnazione, diviene definitivo, poichè, a norma del D.Lgs. 19 giugno 1997, n. 218, artt. 6 e 12, soltanto all’atto del perfezionamento della definizione l’avviso perde efficacia (V. pure Cass. Ordinanza n. 3368 del 02/03/2012, n. 28051 del 2009).
Anche su tale punto perciò la sentenza impugnata risulta motivata in modo giuridicamente corretto.
4. Col terzo motivo la ricorrente lamenta violazione di norma di legge, poichè il giudice di appello semmai doveva attribuire parte del maggior reddito al marito della contribuente, socio al 49% dell’impresa familiare, e quindi per tal verso l’atto impositivo non poteva essere ritenuto legittimo.
La doglianza non va condivisa, atteso che in tema di imposte sui redditi, perchè possa essere applicato il regime fiscale dell’impresa familiare, previsto prima dal D.P.R. 29 settembre 1973, n. 597, art. 5, ed attualmente sostituito dal D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 5, non basta la mera cogestione da parte dei coniugi di un’azienda – eventualmente rilevante ex art. 177 c.c., per la ripartizione degli utili – ma è indispensabile che ricorrano le condizioni previste dal medesimo art. 5 cit., e cioè la indicazione nominativa dei familiari partecipanti all’attività di impresa; quella relativa alle quote attribuite ai sìngoli familiari, nonchè l’attestazione nella dichiarazione annuale di ciascun partecipante di aver lavorato per l’impresa familiare, e ciò prima dell’accertamento stesso, mentre tali presupposti difettano nel caso in esame (Cfr. anche Cass. Sentenze n. 23170 del 17/11/2010, n. 13390 del 1992).
D’altronde i familiari collaboratori non sono contitolari dell’impresa familiare, ed i redditi loro imputati sono reddito di puro lavoro, non assimilabili a quello di impresa, tanto che – a prescindere dalla natura, subordinata, autonoma o comparata, del detto lavoro – essi sono esclusi dall’ILOR, ai sensi del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 599, art. 1, comma 2, lett. a), come emendato dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 42 del 1980 (V. pure Cass. Sentenza n. 4714 del 17/04/1992).
Pure su tale questione perciò la sentenza impugnata risulta motivata in modo giuridicamente corretto.
5. Ne deriva che il ricorso va rigettato.
6. Quanto alle spese del giudizio, esse seguono la soccombenza, e vengono liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso, e condanna la ricorrente al rimborso delle spese a favore della controricorrente, e che liquida in Euro 3.000,00 (tremila/00) per onorario, oltre a quelle prenotate a debito.

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