Suprema Corte di Cassazione
sezione VI
ordinanza 6 giugno 2014, n. 12781
Osserva
Rilevato che la Corte condivide e si riporta quanto alla descrizione del presente giudizio alla relazione ex art. 380 bis c.p.c. del 28 novembre 2013 articolata sui seguenti punti:
1. Con ricorso ex art. 710 c.p.c. C.C. ha chiesto al Tribunale di Brescia il riconoscimento, nei confronti del coniuge separato M.C., del suo diritto all’assegno di mantenimento e all’accollo delle rate mensili, dell’importo di circa 870 euro, del mutuo-casa, contratto con la Banca Credito Bergamasco, e gravante sull’ex abitazione nonché l’elevazione dell’assegno di 750 euro, posto dalla separazione consensuale a carico del C., a titolo di contributo mensile al mantenimento del figlio M..
2. Il C. si è opposto alle richieste della ricorrente e ha chiesto a sua volta la riduzione dell’assegno in favore del figlio.
3. Il Tribunale di Brescia, con decreto del 15 novembre 2012, ha rilevato l’inesistenza di fatti sopravvenuti idonei a fondare le contrapposte richieste delle parti.
4. La Corte di appello di Brescia ha ritenuto fondata la decisione e ha respinto il reclamo proposto dalla C. che ha condannato al pagamento delle spese processuali rilevando la incontestata mancata verificazione di nuovi fatti idonei a giustificare le condizioni della separazione.
5. Ricorre per cassazione C.C. che deduce violazione o falsa applicazione delle norme che regolano l’interpretazione dei contratti (1362 e 1363 c.c.) e dell’art. 156 c.c. ritenendo che il riferimento contenuto nella separazione consensuale al punto 13 (“a partire dal 1 luglio 2012 il dott. C. nulla più dovrà versare alla sig.ra C. a titolo di contributo al di lei mantenimento essendo la stessa economicamente autosufficiente”) alla sua condizione di autosufficienza economica non era stato preso adeguatamente in considerazione dai giudici dell’appello i quali non avevano dato alcun rilievo alla circostanza per cui, successivamente alla omologazione della separazione consensuale, l’odierna ricorrente non solo non aveva stabilizzato la propria posizione lavorativa precaria ma aveva anzi chiuso il rapporto di lavoro per essere stata costretta alle dimissioni dal proprio datore di lavoro.
Ritenuto che
Il ricorso è infondato in quanto è sostanzialmente ripetitivo delle difese già svolte nella fase di merito, ampiamente prese in esame e motivatamente respinte dalla Corte di appello con argomentazioni che vanno ribadite in questa sede. Infatti la separazione consensuale, che ha previsto la esclusione dalla data del 1 luglio 2012 del diritto di C.C. a percepire l’assegno di mantenimento, è stata interpretata dalla Corte di appello alla luce del suo tenore testuale e valutata con riferimento alla mancata allegazione di fatti nuovi rispetto alla situazione economica delle parti al momento della separazione stessa. In particolare la Corte di appello ha rilevato che la C. anche all’epoca della separazione non svolgeva attività lavorativa, in quanto casalinga, sicché non è apprezzabile la dimissione dall’attività lavorativa reperita in epoca successiva alla separazione, e, allo stesso modo, non può essere fatta valere la presupposizione della C. di reperire una occupazione lavorativa entro il luglio 2012 poiché la previsione di un assegno sino a quella data non era condizionato negli accordi di cui alla separazione consensuale al reperimento di un lavoro. Né può ritenersi che tale interpretazione recepita dai giudici dell’appello si ponga in contrasto logico e sostanziale con la disposizione dell’art. 156 c.c. Emerge infatti dalla decisione del Tribunale, riportata nel controricorso, che il venir meno del diritto all’assegno è stato fatto coincidere, nella separazione consensuale, con la donazione alla C. del 50% della proprietà dell’immobile già adibito ad abitazione familiare. Va inoltre rilevato che la rinuncia all’assegno di mantenimento ha conseguenze diverse nel giudizio di separazione e in quello di divorzio in quanto il diniego dell’assegno divorzile non può fondarsi sul rilievo che negli accordi di separazione i coniugi pattuirono che nessun assegno fosse versato dal marito per il mantenimento della moglie, dovendo comunque il giudice procedere, in quella sede, alla verifica del rapporto delle attuali condizioni economiche delle parti con il pregresso tenore di vita coniugale (cfr. Cass. civ. sezione I n. 1758 del 28 gennaio 2008).
Il ricorso va pertanto respinto con condanna della ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione liquidate in 1.500 euro di cui 200 per spese, oltre spese generali e accessori di legge. Dispone che in caso di diffusione del presente provvedimento siano omesse le generalità e gli altri dati identificativi a norma dell’art. 52 del decreto legislativo n. 196/2003.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13.
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