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Suprema Corte di Cassazione

sezione VI

ordinanza 30 gennaio 2014, n. 2089

Fatto e diritto

Rilevato che in data 5-15 luglio 2013 è stata depositata relazione ex art. 380 bis che qui si riporta:
1. Il Tribunale di Perugia, con sentenza non definitiva del 7 febbraio 2011, ha dichiarato la cessazione degli effetti civili del matrimonio di S.G. e B.A. .
2. Ha impugnato la pronuncia S.G. rilevando che il Tribunale non aveva verificato compiutamente se vi fosse stata rottura definitiva della comunanza di vita e la possibilità di ricostituirla. Ha ritenuto lesivo della sua posizione di cattolico praticante che la pronuncia di cessazione degli effetti civili del matrimonio anticipi l’esito del giudizio rotale di annullamento attualmente in corso.
3. Il reclamo è stato respinto dalla Corte di appello che ha condannato S.G. al pagamento della somma di 6.000 Euro ex art. 96 c.p.c. assumendo il reclamo, consapevolmente infondato, un carattere meramente strumentale, al fine di prolungare i tempi del passaggio in giudicato della sentenza dichiarativa della cessazione degli effetti civili del matrimonio e di vanificare le statuizioni della sentenza definitiva emananda nel giudizio di cessazione degli effetti civili del matrimonio.
4. S.G. propone ricorso per cassazione contro la pronuncia della Corte perugina affidandosi a tre motivi di impugnazione con i quali deduce: a) omessa e insufficiente motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio (art. 360 comma primo n.5 c.p.c.); b) violazione e falsa applicazione di norme di diritto (art. 360 comma primo n.3 c.p.c.), violazione dell’art. 101 c.p.c..: mancata realizzazione del pieno contraddittorio, nullità; c) omessa e insufficiente motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio (in relazione all’art. 360 n. 5 c.p.c. e all’art. 96 comma 1 c.p.c.).
5. Si difende con controricorso B.A. .
Ritenuto che:
6. Con il primo motivo di ricorso lo S. ribadisce che la pronuncia con sentenza non definitiva della cessazione degli effetti civili lede la sua posizione di cattolico e credente e la relativa prerogativa a che lo scioglimento del matrimonio venga pronunciato esclusivamente dal tribunale ecclesiastico. Ritiene inoltre il ricorrente che la Corte di appello avrebbe dovuto esaminare l’opportunità di una sentenza parziale a fronte delle giustificazioni contrarie, già addotte dall’odierno ricorrente, considerato che l’opposizione da questi spiegata prevedeva anche, nella non voluta ipotesi di accoglimento, che il divorzio venisse semmai dichiarato solo con sentenza, definitiva, all’esito dell’ampia trattazione della causa.
7. Il motivo è palesemente inammissibile quanto alla prima censura perché la stessa non ha alcun fondamento giuridico nella stessa deduzione del ricorrente che la prospetta infatti come vizio di motivazione peraltro insussistente perché dalla motivazione della Corte di appello si evince chiaramente come nell’ordinamento giuridico italiano non esiste una condizione privilegiata dei cittadini cattolici a ottenere che i giudizi ecclesiastici di annullamento del matrimonio siano decisi preventivamente rispetto ai giudizi civili di scioglimento del matrimonio ex legge n. 898/1970. Né si può ipotizzare la sussistenza di una lesione di legittime aspettative del cittadino cattolico alla definizione della controversia in sede ecclesiastica anziché davanti alla giurisdizione italiana perché la pronuncia del giudice italiano non pregiudica la prosecuzione del giudizio ecclesiastico il cui oggetto non coincide se non indirettamente con quello di divorzio.
8. Quanto alla seconda censura se ne deve riscontrare la palese infondatezza atteso che la decisione del giudice di merito circa la possibilità di una definizione con sentenza parziale di una parte delle domande proposte non dipende da una valutazione di opportunità ma dall’accertamento dell’esaurimento delle attività istruttorie necessarie ai fini della decisione e nella specie la Corte di appello ha ampiamente motivato sul punto rilevando che i coniugi hanno vissuto separatamente dopo l’omologazione della separazione consensuale e che gli stessi hanno manifestato l’intento di porre fine al rapporto coniugale come dimostra la posizione processuale assunta nel giudizio ecclesiastico e in quello civile.
9. Con il secondo motivo il ricorrente lamenta una lesione del suo diritto di difesa in ordine alla domanda riconvenzionale e a quella autonoma di condanna ex art. 96 c.p.c., basata sulla consapevolezza della proposizione dell’appello, e proposta dalla B. tre giorni prima della udienza, in sede di costituzione nel giudizio camerale di impugnazione, e afferma che la Corte non avrebbe potuto pronunciarsi, pena la nullità del giudicato, senza aver dato alla parte, che all’udienza aveva richiesto termine per note, la possibilità di svolgere le proprie difese sull’appello incidentale e sulla domanda endoprocessuale autonoma di condanna al risarcimento dei danni per lite temeraria.
10. Il motivo va respinto in quanto la censura difetta di interesse quanto alla pronuncia sulla domanda riconvenzionale ed è infondata quanto alla pronuncia di condanna ex art. 96, primo comma, c.p.c.. Come ha correttamente rilevato la difesa della controricorrente la domanda di risarcimento del danno derivato dall’aver proposto un gravame nella consapevolezza della sua infondatezza pur costituendo domanda endoprocessuale autonoma non costituisce domanda riconvenzionale e poteva essere proposta dalla odierna controricorrente anche in sede di costituzione all’udienza fissata per la discussione. La mancata concessione di un termine per note non pone dunque in essere alcuna lesione né formale né sostanziale del diritto di difesa pienamente esercitato dall’odierno ricorrente con l’esplicazione delle ragioni poste a base della proposizione dell’appello che escludono per implicito la sua temerarietà.
11. Il terzo motivo del ricorso lamenta il difetto di motivazione in ordine ai presupposti per il riconoscimento del carattere temerario della proposizione del gravame e in merito alla sussistenza e entità del danno liquidato dal giudice di appello.

Entrambi i profili sembrano palesemente infondati atteso che è lo stesso ricorrente a indicare la ragione della sua impugnazione e cioè impedire la formazione del giudicato sulla dichiarazione di scioglimento del matrimonio in sede civile prima della pronuncia definitiva sull’annullamento del giudice ecclesiastico.

Correttamente il giudice di appello ha rilevato il carattere strumentale di tale impugnazione e l’assoluta mancanza di motivazioni giuridiche che potessero darle fondamento. Per quanto riguarda la sussistenza e entità del danno si richiama la giurisprudenza di legittimità secondo cui all’accoglimento della domanda di risarcimento dei danni da lite temeraria non osta l’omessa deduzione e dimostrazione dello specifico danno subito dalla parte vittoriosa, che non è costituito dalla lesione della propria posizione materiale (Cass. civ. sezione III, n. 17485 del 23 agosto 2011) e deve essere liquidato con riguardo alla lesione dell’equilibrio psico-fisico che, secondo nozioni di comune esperienza (e anche in forza del principio della ragionevole durata del processo, di cui all’art. 111 Cost. ed alla legge 24 marzo 2001, n. 89), si verifichi a causa di ingiustificate condotte processuali. Nella specie il riferimento all’elevata posta morale in gioco giustifica, sinteticamente ma significativamente, la misura del risarcimento pronunciato dalla Corte di appello in considerazione del carattere ostruzionistico delle iniziative processuali del ricorrente intese a conclamare senza alcuna giustificazione giuridica il diritto della B. a una pronuncia che attiene alla sua condizione personale e la cui dilazione viene a pesare negativamente sulla sua serenità e libertà di organizzazione della vita privata.
12. Sussistono pertanto i presupposti per la trattazione della controversia in camera di consiglio e se l’impostazione della presente relazione verrà condivisa dal Collegio per il rigetto del ricorso e l’accoglimento delle istanze di condanna ex art. 96 e/o 91 c.p.c. avanzate nel controricorso.
La Corte, letta la memoria difensiva del ricorrente;
Ritenuto di poter condividere pienamente la relazione e rilevato quanto al primo motivo di ricorso che la giurisprudenza di legittimità ha da tempo affermato che tra il giudizio di nullità del matrimonio concordatario e quello avente ad oggetto la cessazione degli effetti civili dello stesso non sussiste alcun rapporto di pregiudizialità, tale che il secondo debba essere necessariamente sospeso a causa della pendenza del primo ed in attesa della sua definizione (Cass. civ., sezione I, n. 11020 del 25 maggio 2005 e n. 24990 del 10 dicembre 2010), posto che trattasi di procedimenti autonomi, non solo sfocianti in decisioni di diversa natura e con peculiare e specifico rilievo in ordinamenti diversi, tanto che la decisione ecclesiastica solo a seguito di giudizio eventuale di delibazione, e non automaticamente, può produrre effetti nell’ordinamento italiano, ma anche aventi finalità e presupposti diversi. Né rileva, ha chiarito la giurisprudenza di questa Corte che le norme sul giudizio di delibazione, di cui agli artt. 796 e 797 cod. proc. civ., siano state abrogate dall’art. 73 della legge 31 maggio 1995, n. 218, di riforma del sistema italiano di diritto internazionale privato, giacché tale abrogazione, in ragione della fonte di legge formale ordinaria da cui è disposta, non è idonea a spiegare efficacia sulle disposizioni dell’Accordo, con protocollo addizionale, di modificazione del Concordato lateranense (firmato a Roma il 18 ottobre 1984 e reso esecutivo con la legge 25 marzo 1985, n. 121), disposizioni le quali – con riferimento alla dichiarazione di efficacia, nella Repubblica italiana, delle sentenze di nullità di matrimonio pronunciate dai tribunali ecclesiastici – contengono un espresso richiamo agli artt. 7 96 e 7 97 cod. proc. civ., che pertanto risultano connotati, relativamente a tale specifica materia ed in forza del principio concordatario accolto dall’art. 7 della Costituzione, di una vera e propria ultrattività.
Ritenuto quanto alla domanda di condanna ex art. 96 primo comma c.p.c. relativa alla proposizione del ricorso per cassazione che essa va accolta per le stesse ragioni indicate dalla Corte di appello e ribadite e chiarite nella relazione sopra riportata che sussistono anche per questo giudizio. La Corte ritiene equa la liquidazione della somma dovuta dal ricorrente in 5.000 Euro.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la parte ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione liquidate in 6.100 Euro di cui 100 per spese. Condanna altresì il ricorrente al pagamento della somma di 5.000 Euro ex art. 96 primo comma c.p.c. Dispone che in caso di diffusione del presente provvedimento siano omesse le generalità e gli altri dati identificativi a norma dell’art. 52 del decreto legislativo n. 196/2003.

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