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Suprema Corte di Cassazione

sezione VI

ordinanza 17 aprile 2014, n. 8940

REPUBBLICA ITALIANAIN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE 3
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. FINOCCHIARO Mario – Presidente
Dott. AMENDOLA Adelaide – Consigliere
Dott. AMBROSIO Annamaria – Consigliere
Dott. FRASCA Raffaele – rel. Consigliere
Dott. DE STEFANO Franco – Consigliere
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 13797/2013 proposto da:
AZIENDA SANITARIA LOCALE DI NOVARA (OMISSIS), in persona del Direttore Generale legale rappresentante, elettivamente domiciliata in (OMISSIS), presso lo studio dell’avvocato (OMISSIS), che la rappresenta e difende giusta procura in calce al ricorso;
– ricorrente –
contro
(OMISSIS), (OMISSIS), in proprio ed in qualita’ di genitori esercitanti la patria potesta’ dei minori (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS), elettivamente domiciliati in (OMISSIS), presso lo studio dell’avvocato (OMISSIS), rappresentati e difesi dall’avvocato (OMISSIS) giusta procura speciale in calce al controricorso;
– controricorrenti –
avverso la sentenza n. 462/2012 del TRIBUNALE di NOVARA, depositata il 21/06/2012;
avverso l’ordinanza n. 2074/2012 della CORTE D’APPELLO DI TORINO del 20/03/2013, depositata il 28/03/2013;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 15/04/2014 dal Consigliere Relatore Dott. RAFFAELE FRASCA;
udito l’Avvocato (OMISSIS) difensore della ricorrente che si riporta agli scritti;
udito l’Avvocato (OMISSIS) difensore dei controricorrenti che si riporta agli scritti.
FATTO E DIRITTO
Ritenuto quanto segue:
p.1. L’Azienda Sanitaria Locale di (OMISSIS) ha proposto ricorso per cassazione contro (OMISSIS) e (OMISSIS), in proprio e nella qualita’ di esercenti la potesta’ genitoriale sui figli minori (OMISSIS) e (OMISSIS), nonche’ contro (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS) e (OMISSIS):
a) l’ordinanza del 28 marzo 2013, con la quale la Corte d’Appello di Torino ha dichiarato inammissibile ai sensi dell’articolo 348 bis c.p.c., il suo appello avverso la sentenza resa in primo grado dal Tribunale di Novara del 21 giugno 2012, che aveva accertato la responsabilita’ di essa ricorrente per le lesioni riportate da (OMISSIS) in occasione del parto della madre (OMISSIS), condannato la ricorrente al risarcimento a favore della stessa (OMISSIS) a quel che sembra per tutte le voci di danno, nonche’ per una sola voce di danno a favore dei genitori, e disposto la prosecuzione del giudizio per l’accertamento degli ulteriori danni degli stessi genitori, del fratello (OMISSIS) e degli altri attori, nonni della piccola (OMISSIS);
b) la citata sentenza di primo grado.
p.2. Al ricorso, che propone preliminarmente quattro motivi contro l’ordinanza sub a) e due motivi contro la sentenza di primo grado del Tribunale di Novara, hanno resistito con controricorso gli intimati.
p.3. Prestandosi il ricorso ad essere deciso con il procedimento di cui all’articolo 380 bis c.p.c., e’ stata redatta relazione ai sensi di detta norma ed essa e’ stata notificata agli avvocati delle parti, unitamente al decreto di fissazione dell’adunanza della Corte.
p.4. Parte ricorrente ha depositato memoria.
Considerato quanto segue:
1. Nella relazione ai sensi dell’articolo 380-bis c.p.c. si sono svolte le seguenti considerazioni, che si riportano integralmente con alcune piccole correzioni in neretto o cancellature di errori materiali:
“(…) p.3. Il ricorso puo’ essere deciso con il procedimento di cui all’articolo 380 bis c.p.c., in quanto appare manifestamente inammissibile sia contro l’ordinanza ex articolo 348 bis, sia contro la sentenza di primo grado.
L’inammissibilita’ del ricorso contro entrambi i provvedimenti impugnati appare discendere dalle seguenti ragioni, se saranno condivise dal Collegio.
p.4. In via preliminare e’ opportuno rilevare che la proposizione, come accaduto nella specie, di un ricorso per cassazione unico, contro due distinti provvedimenti, pronunciati l’uno in grado di appello e l’altro in primo grado e, quindi, in gradi distinti del giudizio, pur in mancanza di una espressa previsione legislativa in tal senso (atteso che l’articolo 348 ter, comma 3, prevede solo l’impugnazione del provvedimento di primo grado, mentre nessuna disposizione risulta in punto di impugnabilita’ dell’ordinanza ex articolo 348 bis), risulta pienamente legittima, in quanto: aa) l’ordinamento conosce il fenomeno della impugnazione con unico ricorso per cassazione di due sentenze emesse nello stesso processo, siccome fanno manifesto l’articolo 360, comma 3, ed il secondo dell’articolo 361 c.p.p.; bb) l’applicazione del criterio della idoneita’ dell’atto al raggiungimento dello scopo, previsto dall’articolo 156 c.p.c., in tema di forme processuali, evidenzia – al di la’ di previsioni espresse – che, quando i due provvedimenti impugnati sono stati emessi nell’ambito dello stesso processo, l’unita’ del processo giustifica che l’esercizio del diritto di impugnazione in cassazione avvenga con un unico atto.
In termini generali tanto trova conferma nel principio – risalente nella giurisprudenza di questa Corte e giustificato proprio dalle due ragioni appena indicate – secondo cui L’impugnazione di una pluralita’ di sentenze con un unico atto e’ consentita solo quando queste siano tutte pronunciate fra le medesime parti e nell’ambito di un unico procedimento, ancorche’ in diverse fasi o gradi – come nel caso di sentenza non definitiva oggetto di riserva di impugnazione e di successiva sentenza definitiva; della sentenza revocanda e di quella conclusiva del giudizio di revocazione; della sentenza di rinvio e di quella di rigetto della istanza di revocazione, allorche’ le due impugnazioni siano rivolte contro capi identici o almeno connessi delle due pronunzie; di sentenze di grado diverso pronunciate nella medesima causa, che investano l’una il merito e l’altra una questione pregiudiziale -, mentre e’ inammissibile sia il ricorso per cassazione proposto contestualmente e con un unico atto, contro sentenze diverse, pronunciate dal giudice del merito in procedimenti formalmente e sostanzialmente distinti, che concernano soggetti anch’essi parzialmente diversi, sia l’applicabilita’ in sede di legittimita’, ai fini di una eventuale riunione, del disposto dell’articolo 274 c.p.c., che comporta valutazioni di merito ed esercizio di poteri discrezionali propri ed esclusivi del giudice del merito stesso. (cosi’ gia’ Cass. n. 5472 del 1994, poi costantemente ripresa da decisioni successive).
Nella specie, dunque, la proposizione della congiunta impugnazione dei due provvedimenti sopra indicati risulterebbe rituale e non impingerebbe in alcun problema di ammissibilita’.
p.5. L’impugnazione dell’ordinanza ex articolo 348 bis, e’, tuttavia, inammissibile.
Queste le ragioni.
Nel dibattito dottrinale sollecitato dalla riforma di cui al Decreto Legge n. 83 del 2012, convertito, con modificazioni, nella Legge n. 134 del 2012, e’ noto che, di fronte al silenzio della legge sulla impugnabilita’ o meno dell’ordinanza ex articolo 348 bis c.p.c., ed alla previsione della impugnabilita’, in tal caso, del provvedimento emesso in primo grado, con il ricorso per cassazione, si sono prospettate due distinte opinioni, la prima escludente in ogni caso la possibilita’ di assoggettare a ricorso per cassazione detta ordinanza, la seconda ammissiva di tale impugnabilita’, sia pure – con vari distinguo – in determinati casi.
p.5.1. Ritiene questo relatore che le tesi dottrinali che ipotizzano un’impugnabilita’ di detta ordinanza o in via ordinaria con lo stesso ricorso per cassazione contro la sentenza di primo grado o con ricorso straordinario ai sensi dell’articolo III, settimo comma, della Costituzione (proposto separatamente o congiuntamente a quello ordinario contro la sentenza di primo grado) si scontrino con obiezioni che non paiono sormontabili.
p.5.2. L’ipotesi della impugnazione per la via del ricorso ordinario unitamente alla sentenza di primo grado e con pregiudizialita’ della trattazione dell’impugnazione dell’ordinanza rispetto a quella del ricorso contro la sentenza di primo grado, confligge con il dettato legislativo, che nell’articolo 348 ter, comma 3, non solo nulla dice sull’impugnabilita’ dell’ordinanza, ma, restringendo il potere processuale della parte soccombente all’impugnazione della sentenza di primo grado e con la previsione di una restrizione del relativo diritto quanto ai motivi deducibili per il caso di inammissibilita’ “fattuale” (articolo 348 ter c.p.c., comma 4), cioe’ con l’esclusione della ricorribilita’ ai sensi dell’articolo 360 c.p.c., n. 5, palesemente impedisce di considerare discutibile con tale rimedio anche l’ordinanza de qua. E cio’ ancorche’ equivocamente ed inspiegabilmente la Relazione accompagnatoria della riforma alluda alla possibilita’ della Corte di cassazione di controllare eventuali nullita’ del procedimento di appello. Sembra questo un caso in cui i conditores hanno interpretato quello che hanno scritto in modo assolutamente privo di riferimento con il suo tenore.
La tesi della ricorribilita’ in cassazione con ricorso ordinario sembra contrastare, inoltre, anche con il dato testuale che l’articolo 360 c.p.c., limita tale ricorso alle sentenze pronunciate in grado di appello o in unico grado (salvo il ricorso per saltum), onde, dovendo l’eventuale ricorribilita’ essere ricercata al di fuori dell’articolo 348 ter e, dunque, nell’articolo 360 c.p.c., e’ palese che non la si puo’ rinvenire in essa.
p.5.3. L’ipotesi della ricorribilita’ in via straordinaria ai sensi dell’articolo 111 Cost., comma 7, a sua volta, si scontra, quanto alla direzione contro il “merito” della decisione di inammissibilita’ con un ostacolo insormontabile rappresento dalla circostanza che l’ordinanza ex articolo 348 ter, se indubbiamente ha carattere “decisorio” e, dunque, uno dei requisiti di accesso al ricorso straordinario, dato che e’ emessa nel processo civile iniziato a cognizione piena, che e’ la tipica sede della “cognizione decisoria”, cioe’ su situazioni di diritto o comunque su situazioni giuridiche che in senso stretto non abbiano natura di diritto soggettivo ma delle quali e’ prevista la piena giustiziabilita’, non ha l’altro necessario carattere per l’accesso al ricorso straordinario, cioe’ non ha il carattere della definitivita’ riguardo alla tutela che compete alla situazione giuridica dedotta nel processo.
E’ sufficiente osservare che, infatti, che tale situazione e’ ridiscutibile impugnando in cassazione la sentenza di primo grado e, pertanto, la decisione espressa nell’ordinanza non “definisce” la sua tutela.
p.5.4. D’altro canto, un carattere di definitivita’ idoneo a giustificare l’accesso in cassazione con il ricorso straordinario non lo si puo’ ravvisare nemmeno in tutte quelle ipotesi che parte della dottrina che ha commentato la riforma ha variamente individuato e nelle quali in definitiva e’ accaduto che sull’appello: a) si sia deciso a torto ai sensi dell’articolo 348 ter, cioe’ al di fuori delle ipotesi consentite e, quindi, mentre si doveva decidere con il procedimento di trattazione e di decisione normale (emergente dall’articolo 350 e ss.), cosi’ negandosi il c.d. diritto (processuale) ad avere la giusta forma di decisione; b) si sia deciso ai sensi dell’articolo 348 ter, senza il rispetto di regole processuali, cioe’ in violazione di norme sul procedimento interne al procedimento di appello, pur sommarizzato come quando si decide ai sensi dell’articolo 348 bis c.p.c..
In queste ipotesi, infatti, la definitivita’ dell’ordinanza non e’ quella ritenuta dalla giurisprudenza delle Sezioni Unite della Corte idonea a giustificare, in una con il requisito della decisorieta’, l’accesso al ricorso straordinario. Cio’ che e’ definito dall’ordinanza e’ solo il diritto processuale, cioe’ la modalita’ di svolgimento dell’azione in giudizio, quanto ai presupposti della pronuncia ai sensi dell’articolo 348 ter. Viceversa, la definitivita’ richiesta per il ricorso straordinario e’ quella sulla situazione giuridica sostanziale dedotta nel processo, per cui, se essa e’ ridiscutibile e lo e’ tramite il ricorso per cassazione contro la sentenza di primo grado, non si tratta di definitivita’ idonea a giustificare il ricorso straordinario.
E’ da rilevare, in proposito, che, con sentenza n. 11026 del 2003, le Sezioni Unite della Corte, risolvendo una risalente situazione di contrasto, statuirono, con arresto che a tutt’oggi non risulta rimesso in discussione da decisioni successive di Esse (anche se sovente la giurisprudenza delle sezioni semplici non sempre vi si ispira), quanto segue: Quando il provvedimento impugnato sia privo dei caratteri della decisorieta’ e definitivita’ in senso sostanziale (come nel caso dei provvedimenti, emessi in sede di volontaria giurisdizione, che limitino o escludano la potesta’ dei genitori naturali ai sensi dell’articolo 317 bis c.c., che pronuncino la decadenza dalla potesta’ sui figli o la reintegrazione in essa, ai sensi degli articoli 330 e 332 c.c., che dettino disposizioni per ovviare ad una condotta dei genitori pregiudizievole ai figli, ai sensi dell’articolo 333 c.c., o che dispongano l’affidamento contemplato dalla Legge 4 maggio 1983, n. 184, articolo 4, comma 2), il ricorso straordinario per cassazione di cui all’articolo 111 Cost., comma 7, non e’ ammissibile neppure se il ricorrente lamenti la lesione di situazioni aventi rilievo processuale, quali espressione del diritto di azione, ed in particolare del diritto al riesame da parte di un giudice diverso, in quanto la pronunzia sull’osservanza delle norme che regolano il processo, disciplinando i presupposti, i modi e i tempi con i quali la domanda puo’ essere portata all’esame del giudice, ha necessariamente la medesima natura dell’atto giurisdizionale cui il processo e’ preordinato e, pertanto, non puo’ avere autonoma valenza di provvedimento decisorio e definitivo, se di tali caratteri quell’atto sia privo, stante la natura strumentale della problematica processuale e la sua idoneita’ a costituire oggetto di dibattito soltanto nella sede, e nei limiti, in cui sia aperta o possa essere riaperta la discussione sul merito.
La definitivita’ sulle modalita’ di svolgimento dell’azione in giudizio (cioe’ su un c.d. diritto processuale) e, quindi, anche di un grado di giudizio, ma non sulla situazione sostanziale dedotta in giudizio, e’ stata, dunque, ritenuta del tutto inidonea a giustificare il ricorso straordinario.
p.5.5. Va ancora precisato che e’ sempre sul versante della mera definitivita’ del modo di esercitare l’azione e, quindi, del diritto processuale con essa esercitato, che rileva il fatto che l’eventuale pronuncia dell’ordinanza ai sensi del quarto comma dell’articolo 348 ter, preclude l’utilizzo dell’articolo 360, n. 5, nel ricorso contro la sentenza di primo grado. Cio’ che e’ negato in questo caso e’ la possibilita’ di ricorrere con un certo motivo (ammesso che di vera e propria negazione si tratti, ma il dubbio emergera’ da quanto si dira’ dire di seguito sul detto n. 5) e, dunque, e’ negato il sottodiritto processuale di impugnare la sentenza di primo grado ai sensi del detto n. 5, cioe’ con un particolare motivo, ma cio’ lascia ancora intatta la possibilita’ di ridiscutere per gli altri motivi la situazione giuridica dedotta nel giudizio, il che evidenzia che non v’e’ definitivita’ di tutela di essa, ma solo su uno dei modi per tutelarla, e, dunque, gli estremi per il ricorso straordinario non sussistono.
E, d’altro canto, vertendosi in tema di vizio di motivazione, nemmeno si configura alcuna lesione dell’articolo 111 Cost. comma 7, atteso che il precetto costituzionale impone l’esperibilita’ del ricorso per cassazione contro le sentenze (sia pure in senso anche sostanziale) solo per violazione di legge.
p.5.7. Considerazioni non dissimili si debbono fare se si considera che per il litigante che si vede dichiarare inammissibile l’appello, la prospettiva di poter ancora tutelare la situazione giuridica sostanziale con il ricorso per cassazione, essendo quest’ultimo mezzo di impugnazione a critica limitata, risulta ridimensionata rispetto a quella che sarebbe stata con l’appello. Infatti, si dee rilevare che il ridimensionamento concerne in definitiva il dover articolare l’impugnazione appunto con la deduzione di vizi specifici riconducibili al paradigma dell’articolo 360 c.p.c., e, quindi, la tecnica di esercizio del diritto di impugnazione, ma non certo il possibile oggetto dei vizi deducibili, salvo per i vizi motivazionali concernenti la ricostruzione della quaestio facti. Infatti, i vizi tipizzati di cui all’articolo 360, nn. 1, 2, 3 e 4, non sono dissimili da quelli corrispondenti che si possono dedurre con l’appello. Mentre, il doversi il vizio ai sensi del n. 5 della norma incasellare necessariamente nella figura del difetto di motivazione “circa” un fatto controverso, indipendentemente dalle controverse letture che la dottrina ne ha dato ed in disparte l’eventualita’, sostenuta da taluno, che cio’ che ne venga espunto possa rientrare dalla “finestra” dei vizi dei nn. 3 e 4 (quest’ultimo sotto il versante dell’articolo 132 c.p.c., n. 4), determinerebbe – a tutto voler concedere – pur sempre una “definitivita’” dell’accertamento risalente alla sentenza di primo grado, che fosse impugnabile solo per vizio di motivazione al di fuori di cio’ che all’articolo 360 c.p.c., n. 5 o ai nn. 3 o 4, la quale sfuggirebbe a qualsiasi censura di incostituzionalita’, nuovamente perche’ l’articolo 111 Cost., comma 7, non contempla il vizio di motivazione.
Di modo che agli effetti della norma costituzionale si sarebbe al di fuori della definitivita’ che esige l’accesso al giudizio di legittimita’ per il tramite del ricorso straordinario, atteso che detta norma lo garantisce solo allorquando un provvedimento giurisdizionale abbia attitudine a sancire in via definitiva, cioe’ non ridiscutibile, la situazione giuridica sostanziale, si’ da “coprire” violazioni della legge sostanziale o processuale.
p.5.7. E’, poi, necessario un ulteriore rilievo: si e’ paventato un orror vacui per il caso di deduzione di errori revocatori contro la sentenza di primo grado, perche’ essi non si saprebbe come potrebbero essere recuperati. L’assunto non pare avere fondamento: l’errore revocatorio e’ errore che ha determinato necessariamente un errore sull’applicazione di norme del procedimento nella sentenza di primo grado e, dunque, in questo caso sara’ recuperabile con l’impugnazione ai sensi dell’articolo 360 c.p.c., n. 4, della sentenza di primo grado.
p.5.8. Si deve, dunque, concludere che in nessun caso l’ordinanza ex articolo 348 bis c.p.c., appare suscettibile di ricorso per cassazione quanto alla statuizione di dichiarazione dell’inammissibilita’ dell’appello.
5.9. Tanto sembra giustificare la declaratoria di inammissibilita’ dell’ordinanza qui impugnata, riguardo alla quale e’ stato dedotto come motivo di ricorso per cassazione un motivo di violazione di norma del procedimento (violazione dell’articolo 168 c.p.c., articolo 347 c.p.c., comma 3, articolo 369 c.p.c., comma 4; articoli 36 e 123 bis disp. att. c.p.c.; articoli 24 e 111 Cost., in relazione all’articolo 360 c.p.c., n. 3 – Omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio, che e’ stato oggetto di discussione tra le parti), come tale, in realta’ riconducibile al paradigma dell’articolo 360 c.p.c., n. 4, sotto il profilo dell’avere il giudice d’appello deciso senza che fosse stato acquisito il fascicolo d’ufficio del giudizio di primo grado.
p.5.10. Per completezza e’ opportuno domandarsi – ancorche’ il ricorso non sia stato proposto sotto tale profilo – se l’ordinanza ex articolo 348 ter sia da ritenere almeno impugnabile, come opina la dottrina, riguardo alla statuizione sulle spese.
p.5.10.1. La gran parte dei commentatori ha ritenuto che l’ordinanza sarebbe certamente ricorribile per cassazione in via straordinaria almeno quanto alla statuizione sulle spese, ove – in mancanza di proposizione del ricorso per cassazione contro la sentenza di primo grado, la statuizione sulle spese non diventi dipendente dalla decisione sul ricorso e, quindi, potenzialmente caducabile o non caducabile a seconda del suo esito – ci si voglia dolere solo, da parte del soccombente in sede di 348 ter, dell’eccesso della condanna alle spese rispetto alla tariffa.
p.5.10.2. Anche tale assunto non sembra giustificabile.
E’ vero che la statuizione sulle spese in tal caso assume carattere anche definitivo ed e’ decisoria sotto il profilo dell’incidenza sul patrimonio del soccombente, ma, ai fini dell’accesso al rimedio del ricorso straordinario, o meglio della negazione di esso, assume rilievo un dato: si tratta di una condanna emessa a seguito di un procedimento di appello che, pur innestandosi in un processo sorto a cognizione piena e, quindi regolato dalla disciplina dei diritti delle parti espressa nelle relative regole normali, tuttavia, in appello, per valutazione insindacabile (secondo noi) del giudice si e’ svolto con una cognizione sommaria, cioe’ non assicurante l’osservanza delle regole normali. Sotto tale profilo il provvedimento di condanna nelle spese eccessivo, pur essendosi formato come titolo giudiziale, si puo’ vedere riconosciuta una forza non dissimile e, dunque, non maggiore, rispetto a quella propria dei titoli esecutivi stragiudiziali e, dunque, si puo’ ritenere – conforme a quanto ritenuto da Cass. n. 11370 del 2011 per le spese del cautelare – che una discussione sull’eccessivita’ delle spese possa farsi in sede di opposizione ai sensi dell’articolo 615 c.p.c., al precetto intimato sulla base dell’ordinanza o all’esecuzione sulla base di essa iniziata.
Nel caso di condanna per difetto a favore della parte vittoriosa sembra doversi ritenere che la sommarieta’ della decisione, sempre una volta che si sia definita la vicenda per mancato esercizio dell’impugnazione contro la sentenza in primo grado o per effetto della sua reiezione (in caso di accoglimento tutto torna in discussione), giustifichi l’eventuale esercizio di un’azione a cognizione piena volta ad ottenere la condanna nella misura giusta.
Comunque, cio’ che impedisce l’accesso al ricorso straordinario e’ il carattere sommario della decisione sulle spese e, dunque, l’idea che il rimedio dell’articolo 111 Cost., comma 7, non sia necessario, perche’ il carattere pur definitivo e decisorio del provvedimento non assume la rilevanza di sentenza agli effetti di esso.
Conclusivamente l’ordinanza ai sensi dell’articolo 348 ter, non appare neppure riguardo alle spese eccessive o liquidate per difetto impugnabile in cassazione.
p.6. Passando all’esame dell’impugnazione proposta contro la sentenza di primo grado, si deve rilevare quanto segue.
p.6.1. Non sembra prospettarsi un problema di ammissibilita’ dell’impugnazione ai sensi dell’articolo 360 c.p.c., comma 3, perche’ la sentenza di primo grado, avendo affermato la responsabilita’ nell’an ha definito parzialmente il merito. Ove, invece, quella sentenza fosse stata decisoria di una questione senza definire il merito, ragioni di coerenza avrebbero imposto di escludere che l’impugnazione in cassazione – allo stesso modo di come non sarebbe stata esercitabile contro la sentenza di appello che avesse confermato la sentenza di primo grado (in ragione dell’operare dell’articolo 360, comma 3, che ne avrebbe rimandato l’impugnazione in sede di legittimita’ unitamente alla sentenza definitiva del merito) – fosse possibile contro di essa.
p.6.2. Con il primo motivo di ricorso si denuncia violazione e/o falsa applicazione degli articoli 1218, 1228, 2043 e 2697 c.c., con riguardo all’articolo 360 c.p.c., n. 3.
Tale motivo impinge nell’inammissibilita’ di cui all’articolo 360 bis c.p.c., perche’ prospetta consapevolmente una censura alla sentenza di primo grado per avere, sulla scorta della consolidata giurisprudenza di questa Corte, ritenuto esistente la responsabilita’ della ricorrente come struttura sanitaria ai sensi degli articoli 1218 e 1128 c.c., e, dunque, su base contrattuale e lo fa sollecitando un ripensamento di tale orientamento sulla base di un argomento desunto dal Decreto Legge n. 158 del 2012, articolo 3, comma 1, convertito, con modificazioni, dalla Legge n. 189 del 2012.
L’assunto e’ che tale norma avrebbe disposto per il futuro la obbligatoria qualificazione sul piano civilistico della responsabilita’ del medico e, di riflesso, della struttura sanitaria di cui e’ dipendente o per cui agisce, sub specie del paradigma della legge Aquilia.
Da tanto si dovrebbe inferire che il legislatore avrebbe anche inteso smentire per il passato la qualificazione contrattuale di detta responsabilita’, secondo la figura della c.d. responsabilita’ da “contatto sociale”. A sostegno viene invocata una sentenza del Tribunale di Torino del febbraio del 2013.
L’assunto – che ancorandosi ad una sopravvenienza normativa rispetto alla sentenza di primo grado e prospettando una quaestio iuris scevra dalla necessita’ di accertamenti di fatto, non integra la proposizione di un motivo di ricorso per cassazione su una questione che si sarebbe dovuta svolgere davanti al primo giudice e che semmai avrebbe potuto introdursi nel giudizio di appello per quella ragione durante il suo svolgimento, ma che, stante gli effetti attribuiti all’ordinanza ex articolo 348 ter, non risulta preclusa come lo sarebbe stato se si fosse trattato di questione deducibile con l’appello, che venne notificato prima dell’entrata in vigore della norma – e’ del tutto inidoneo a far superare al motivo la soglia dell’ammissibilita’ ai sensi dell’articolo 360 bis c.p.c., n. 1.
Queste le ragioni.
La norma invocata cosi’ dispone: 1. L’esercente la professione sanitaria che nello svolgimento della propria attivita’ si attiene a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunita’ scientifica non risponde penalmente per colpa lieve. In tali casi resta comunque fermo l’obbligo di cui all’articolo 2043 del codice civile. Il giudice, anche nella determinazione del risarcimento del danno, tiene debitamente conto della condotta di cui al primo periodo.
Ora, la fattura della norma, la’ dove omette di precisare in che termini si riferisca all’esercente la professione sanitaria e concerne nel suo primo inciso la responsabilita’ penale, comporta che la norma dell’inciso successivo, quando dice che resta comunque fermo l’obbligo di cui all’articolo 2043 c.c., poiche’ in lege aquilia et levissima culpa venit, vuole solo significare che il legislatore si e’ soltanto preoccupato di escludere l’irrilevanza della colpa lieve in ambito di responsabilita’ extracontrattuale, ma non ha inteso certamente prendere alcuna posizione sulla qualificazione della responsabilita’ medica necessariamente come responsabilita’ di quella natura.
Tanto evidenzia che la norma non sembra avere a regime l’esegesi sostenuta dalla ricorrente e che, quindi, non puo’ avere le ricadute sulle vicende pregresse da essa supposte, sulla falsariga del precedente di merito invocato.
Non sembra ricorrere, dunque, alcunche’ che induca il superamento dell’orientamento tradizionale sulla responsabilita’ da contatto e sulle sue implicazioni (da ultimo riaffermate da Cass. n. 4792 del 2013).
p.6.3. Con il secondo motivo si fa valere “violazione e/o falsa applicazione degli articoli 1218, 1228 e 2697 c.c., con riguardo all’articolo 360 c.p.c., n. 3″.
Il motivo appare assorbito, dato che e’ dipendente dall’accoglimento del primo.
Comunque, esso sarebbe stato inammissibile per violazione dell’articolo 366 c.p.c., n. 6, atteso che si fonda sulle risultanze di una c.t.u., riguardo alla quale non si indica se e dove sarebbe esaminabile, ove prodotta in questa sede di legittimita’ dalla ricorrente e nemmeno si dice se il ricorrente abbia inteso, agli effetti dell’articolo 369 c.p.c., comma 2, n. 4, far leva sulla sua eventuale presenza nel fascicolo d’ufficio (cosa possibile secondo Cass. sez. un. n. 22726 del 2011, ma che imponeva di precisarlo, in ottemperanza all’articolo 366 n. 6 citato).
p.8. Il ricorso contro la sentenza di primo grado dovrebbe, dunque, conclusivamente, rigettarsi, dato che la formula decisoria del ricorso inammissibile ex articolo 360 bis, n. 1 e’ il rigetto, giusta Cass. sez. un. n. 19051 del 2010”.
p.2. Il Collegio condivide le argomentazioni e le conclusioni della relazione in ordine ad entrambi i provvedimenti impugnati.
p.2.1. Con riferimento alla valutazione di inammissibilita’ del ricorso contro l’ordinanza ai sensi dell’articolo 348 ter c.p.c., il Collegio, in relazione alle considerazioni svolte da parte ricorrente nella memoria, nonche’ alla sopravvenienza di Cass. (ord.) n. 7273 del 2014 (resa dalla Sesta Sezione – 2, nonche’ di Cass. sez. un. nn. nn. 8053 e 8054 del 2014), ritiene necessario aggiungere quanto segue.
p.3. Nella memoria si muovono alla relazione le seguenti critiche.
In primo luogo, si sostiene che, escludere l’impugnabilita’ dell’ordinanza comporterebbe che il giudizio conseguente alla cassazione della sentenza di primo grado non assicurerebbe alla parte il giudizio di appello negato dall’ordinanza di inammissibilita’, ma solo un “normale giudizio di rinvio”, con conseguente compressione del diritto di difesa costituzionalmente garantitola, mentre la cassazione dell’ordinanza determinerebbe lo svolgimento dell’appello secondo le regole ordinarie.
In secondo luogo, si lamenta che negare l’impugnabilita’ dell’ordinanza precluderebbe alla parte la possibilita’ di avere il doppio grado di merito.
In terzo luogo, la limitazione che l’impugnazione in Cassazione della sentenza di primo grado risentirebbe in relazione all’ipotesi dell’articolo 348 ter c.p.c., comma 4, determinerebbe la perdita della possibilita’ di avere un giudizio sull’omesso esame di un fatto decisivo e tanto comporterebbe un’incidenza non gia’ sul solo diritto processuale della parte, ma anche sul suo diritto sostanziale, come sarebbe accaduto nel caso di specie.
La risposta a tali obiezioni e’ opportuno posporla alla considerazione delle sopravvenienze giurisprudenziali sopra indicate.
p.4. Con ordinanza n. 7273 del 2014 la Sesta Sezione – 2 della Corte ha, con ampia ed approfondita argomentazione, ritenuto che l’ordinanza pronunciata ai sensi dell’articolo 348 ter, al di fuori dei casi in cui l’ordinamento consentirebbe con essa la definizione dell’appello dovrebbe considerarsi impugnabile in cassazione ed ha anche, preliminarmente, individuato quali sarebbero questi casi.
L’assunto e’ stato prospettato con riferimento ad un caso nel quale il giudice d’appello aveva ritenuto di dichiarare inammissibile l’appello per inosservanza dell’articolo 342 c.p.c., cioe’ sostanzialmente per difetto di specificita’ del suo tenore, sia pure riferita alle ora – apparentemente, dato che a ragione si e’ detto da parte della dottrina che esse nulla di piu’ esprimono – piu’ puntuali e stringenti prescrizioni della norma rispetto a quello che esprimeva il suo tenore precedente quando si riferiva al dover essere i suoi motivi specifici (in termini si veda Cass. n. 25751 del 2013).
Nella suddetta decisione preliminarmente si e’ aderito alla tesi dottrinale, del tutto prevalente, che ha letto la previsione dell’articolo 34 bis c.p.c., siccome individuatrice dell’ambito di applicabilita’ dell’ordinanza ai sensi dell’articolo 348 ter c.p.., (a parte la definizione di esso anche in base alle ipotesi espressamente escluse di cui al secondo comma della norma ed all’articolo 348 ter, comma 2), per il tramite dell’espressione “fuori dei casi i cui deve essere dichiarata con sentenza l’inammissibilita’ o l’improcedibilita’…”, nel senso che essa varrebbe ad escludere da quell’ambito (oltre quella di improcedibilita’) le ipotesi di inammissibilita’ dell’appello tradizionali, che sarebbero diverse da quella “nuova” della inesistenza nell’appello della “ragionevole probabilita’ di essere accolto”, la quale, proprio per l’incidenza dell’inciso eccettuativo che inizia con il “fuori” resterebbe confinata nel caso in cui l’appello non abbia ragionevole possibilita’ di essere accolto per ragioni inerenti il merito. Il campo di applicazione dell’ordinanza ex articolo 348 ter, sarebbe, dunque, quello dell’appello manifestamente infondato nel merito. Esclusa resterebbe anche qualsiasi altra ipotesi di inammissibilita’ dell’appello conseguente alla constatazione di una questione di rito impediente l’esame del merito dell’appello.
Secondo la tesi seguita dalla citata decisione si dovrebbe, dunque, negare la praticabilita’ del procedimento di definizione sommaria dell’appello in un caso “classico” di inammissibilita’, come la violazione dell’articolo 342 c.p.c., ed analogamente – e’ stato detto, per esemplificare – per il caso della tardivita’, per quello della prescrizione di un altro mezzo di impugnazione da proporsi contro la decisione (esempio, ricorso per cassazione), nonche’ nel caso di improcedibilita’ e – parrebbe consequenziale data la restrizione dell’espressione mancanza della ragionevole probabilita’ – in ogni altro caso in cui l’appello sarebbe nella condizione di poter essere definito in rito (si pensi, prima della novellazione, dell’articolo 182 c.p.c., vigente il quale l’ipotesi andrebbe discussa, nel caso dell’appello senza procura o con procura nulla).
La tesi e’ stata seguita da numerosi giudici di merito di appello e ne e’ derivato il convincimento, da piu’ parti manifestato e riecheggiato anche nei dibattiti organizzativi (taluni sfociati in protocolli interni) in seno agli uffici giudiziari – che il procedimento di cui agli articoli 348 bis e 348 ter, sarebbe, in definitiva, poco funzionale, perche’, pur concorrendo con quello dell’articolo 281 sexies c.p.c. non risulterebbe (irragionevolmente) applicabile nelle ipotesi “classiche” e di facile riscontro di inammissibilita’ dell’appello. Tant’e’ che ne e’ derivata la conseguenza che in molti uffici l’applicazione dell’articolo 348 ter, parrebbe essere rimasta lettera morta o quasi, preferendosi l’uso del procedimento di cui all’articolo 281 sexies c.p.c. (ora ammesso expressis verbis dall’articolo 352 u.c., anche dinanzi a giudice d’appello collegiale).
p.4.1. Il Collegio ritiene che questa lettura limitativa dell’ambito di applicazione dell’articolo 348 ter, tuttavia, sia frutto di un equivoco, che risiede nel rifiuto di apprezzare l’espressione “fuori dei casi…” per quello che essa puo’ valere e comunque per quello che ragionevolmente deve valere, non solo per ragioni meramente esegetiche, ma anche, sebbene gradatamente, per ragioni di rispetto della volonta’ del legislatore di assicurare effettivita’ all’idea che sta alla base della riforma, che e’ quella di ridurre i tempi del processo evitando le lungaggini del procedimento di decisione e trattazione normale dell’appello quando l’impugnazione e’ priva di prospettive di successo in modo manifesto.
Entrambe queste ragioni cospirano a suggerire che si debba evitare che il procedimento dell’articolo 348 bis, del tutto irragionevolmente, non sia utilizzabile per le ipotesi piu’ eclatanti in cui l’appello non ha la ragionevole prospettiva di essere accolto per ragioni di rito, come nei casi sopra indicati.
Con riferimento alla prima ragione, si rileva che e’ dato innegabile che il legislatore non dice in alcuna norma del codice “quando l’inammissibilita’ o l’improcedibilita’ dev’essere dichiarata con sentenza”, cioe’ non specifica espressamente ipotesi in cui l’una o l’altra debbono essere dichiarate con quella forma decisionale. Il Codice, anche in relazione alla declaratoria di inammissibilita’ o improcedibilita’, si limita soltanto a disciplinare la normale modalita’ di decisione con sentenza (con le diverse eventualita’ ora emergenti dalla generalizzazione della previsione, da parte dell’articolo 352 c.p.c., u.c., della decidibilita’ ai sensi dell’articolo 281 sexies c.p.c.). Essa appare semplicemente come alternativa a quella degli articoli 348 bis e 348 ter.
Ne segue che la formulazione in questione vuole solo evocare, con riferimento all’inammissibilita’ o improcedibilita’, soltanto il caso in cui l’appello, come di norma e, dunque, per ogni altra ipotesi, ivi compresa quella di infondatezza nel merito, si deve decidere con le modalita’ ordinarie: il caso in questione e’ quello in cui l’appello ha seguito il corso di trattazione e decisione normale.
L’equivoco si deve, in sostanza, rinvenire nel non avere inteso la norma dell’articolo 348-bis nel senso che, quando vi si allude al dover decidere l’inammissibilita’ o l’improcedibilita’ con sentenza, poiche’ la sentenza costituisce l’approdo della decisione “normale” ai sensi dell’articolo 352, l’inciso “fuori dei casi” abbia voluto, in realta’, solo alludere all’ipotesi in cui si deve decidere con sentenza. E, siccome si deve decidere sull’inammissibilita’ o sulla improcedibilita’ con sentenza allorquando la trattazione ha seguito l’iter normale dell’appello ai sensi dell’articolo 350 c.p.c.e ss., e segnatamente perche’ ha avuto luogo l’invito a precisare le conclusioni ai sensi dell’articolo 352 c.p.c., magari preceduta da attivita’ di istruzione o di trattazione, e’ questa l’ipotesi cui si e’ voluto alludere.
In pratica, la norma ha voluto dire che, se il giudice d’appello non si accorge in limine litis, come esige l’articolo 348 ter c.p.c. della causa di inammissibilita’ (anche di quella discendente dalla mancanza di ragionevole prospettiva di accoglimento nel merito) o di improcedibilita’ e segue il procedimento normale e se ne accorge solo dopo, sia a seguito di una trattazione articolata in piu’ udienze ai sensi dell’articolo 350 c.p.c., o addirittura dopo l’invito a precisare le conclusioni, cosi’ avviando il procedimento alla decisione in via normale, e’ esclusa l’adozione a posteriori del procedimento di cui all’articolo 348 bis e segg., cioe’ la regressione alla decisione sommarizzata. E cio’ perche’ il legislatore ha immaginato il procedimento decisorio sommarizzato come da adottarsi in limine litis, id est quando e’ manifesta l’infondatezza in rito o in merito dell’appello. Lo fa manifesto l’incipit dell’articolo 348 ter, quando ancora la decisione con l’ordinanza “all’udienza di cui all’articolo 350…. prima di provvedere alla trattazione”, con la sola previa formalita’ del “sentite le parti” (se, naturalmente, siano comparse).
Il legislatore, in definitiva, nel prevedere una generale causa di inammissibilita’ ricollegata alla ragionevole mancanza di probabilita’ dell’appello di essere accolto, si e’ preoccupato, in considerazione del fatto che sussistevano ipotesi tipiche di inammissibilita’ nel rito ordinario dell’appello ed inoltre l’ipotesi, pure tipica, della improcedibilita’, di coordinare le dette fattispecie con quella generale ex novo introdotta. Lo ha fatto facendo rifluire le prime in quella nuova, allorquando il processo di appello non abbia seguito, per difetto di rilevazione in limine, l’iter normale. La preoccupazione era legittima, perche’, di norma, le cause di inammissibilita’ tipiche e quella di improcedibilita’ erano e sono rilevabili appunto in limine litis, cioe’ proprio nella fase processuale cui e’ ancorata la nuova generale causa di inammissibilita’ a decisione sommarizzata.
Inoltre, per la declaratoria di improcedibilita’, il suo rifluire nella fattispecie generale di inammissibilita’ nuova, quale caso di mancanza di ragionevole probabilita’ dell’appello di esser accolto, implicava ed implica anche la conseguenza che la declaratoria ai sensi dell’articolo 348 ter, pur rilevandosi l’improcedibilita’, dovesse e debba avvenire con la generale formula della norma, che e’ nel senso dell’inammissibilita’. Onde anche per questo si palesava opportuno il riferimento alla decisione con sentenza della improcedibilita’, che, invece, continuera’ a dichiarare l’appello improcedibile.
L’esegesi dell’inciso iniziale dell’articolo 348-bis appena prospettata ha il pregio di evitare che il procedimento abbia un utilizzo residuale e del tutto illogico, tenuto conto che nel concetto di mancanza di ragionevole probabilita’ di essere accolto rientrano a ben vedere anche le ragioni di infondatezza manifesta per ragioni in rito, come ad esempio, a parte l’inammissibilita’ per specificita’ e per tardivita’ e l’improcedibilita’, il fatto che la sentenza di primo grado avesse due rationes decidendi e se ne sia impugnata solo una oppure il fatto che la motivazione dell’appello non si parametri a quella della sentenza impugnata, nonche’ altre di possibile emersione in via immediata.
p.4.2. Si aggiunga che la stessa espressione secondo cui l’impugnazione “non ha ragionevole probabilita’ di essere accolta” e’ essa stessa idonea – per l’assoluta sua genericita’ e mancanza di riferimento alla ragione per cui difetta la probabilita’ dell’accoglimento – a comprendere sia la mancanza di probabilita’ per ragioni inerenti il merito sia la mancanza di probabilita’ per ragioni inerenti il rito e segnatamente per quelle che sono riconducibili alla inammissibilita’ o improcedibilita’: e’ sufficiente osservare che un appello inammissibile, improcedibile o affetto da nullita’ in rito e’ certamente un appello che non ha ragionevole probabilita’ di essere accolto in non diversa guisa di come non l’abbia un appello manifestamente privo di fondatezza nel merito.
Per l’appello improcedibile, posto che l’improcedibilita’ emerge come causa di definizione in rito, solo dopo il rinvio della prima udienza, l’udienza ex articolo 350 c.p.c., ai sensi dell’articolo 348 ter, sara’, evidentemente, quella di rinvio dell’articolo 348 c.p.c., comma 2, posto che in essa ancora non sara’ avvenuta alcuna attivita’ di trattazione effettiva.
A ben vedere, la scelta con cui la prevalente dottrina ha ristretto l’ambito dell’applicabilita’ del procedimento ex articoli 348 bis e 348 ter, sembra allora tutt’altro che giustificata dal tenore letterale di essa e semmai appare surrettiziamente mossa dall’intento – pienamente legittimo sul piano dell’espressione di auctoritas dottrinale in base ad una scelta di valore, ma non su quello dell’esegesi dovuta dall’interprete – giudice, che deve tendere ad assicurare e valorizzare l’intentio legis – di ridurre al minimo l’applicabilita’ della riforma, effettivamente articolatasi con una rilevante novita’ nell’ormai estesa e ricorrente sequela di interventi sul processo civile.
p.4.3. E’ stato per la verita’ obiettato che l’esegesi qui proposta avrebbe la conseguenza di rimettere l’appellante in giuoco, con la possibilita’ di impugnare la sentenza di primo grado, anche quando il suo appello fosse stato dichiarato inammissibile in rito per inammissibilita’ tradizionali o improcedibilita’ nei sensi indicati.
E si e’ paventato che sarebbe del tutto strano che la parte che ha fatto un appello inammissibile o improcedibile sia poi ammessa, come se le si dessero dei tempi supplementari, ad impugnare la sentenza di primo grado. L’irragionevolezza sussisterebbe, in particolare, massimamente nel caso in cui l’inammissibilita’ sia stata dichiarata ai sensi dell’articolo 348 ter per tardivita’ dell’appello oppure perche’ doveva essere proposta un’impugnazione diversa dall’appello. Ma sarebbe non meno evidente negli altri casi di declaratoria di inammissibilita’ in rito.
Il problema prospettato, pero’, e’ un falso problema per i casi in cui l’appello sia stato dichiarato inammissibile per tardivita’ o perche’ doveva proporsi altro mezzo di impugnazione: in tal caso la Corte di cassazione potra’ e dovra’ rilevare la formazione della cosa giudicata e lo potra’ fare per l’assorbente ragione che tale esame non suppone nemmeno indirettamente quello della correttezza della motivazione dell’ordinanza ai sensi dell’articolo 348 ter, e, dunque, una valutazione dell’attivita’ del giudice d’appello.
Infatti, l’inammissibilita’ dell’appello nei due casi in discorso deriva da una circostanza che e’ riferibile al decorso del termine di impugnazione contro la sentenza di primo grado in forza di quanto determinato dalla sua mera decorrenza e, dunque, ad una causa esterna allo svolgimento del giudizio di appello. La stessa cosa dicasi per la questione del mezzo esperibile. Non si tratta di cause di inammissibilita’ che derivino da errori inerenti la tecnica di esercizio del diritto di impugnazione con l’appello dipendenti dall’applicazione delle norme che regolano il procedimento di appello e che, quindi, allorche’ esaminate dalla Corte di cassazione, adita con il ricorso contro la sentenza di primo grado, supporrebbero necessariamente una valutazione da parte di essa di norme del procedimento relative al giudizio di appello e, dunque, dell’operato del giudice d’appello nella gestione della loro applicazione e, pertanto, del “suo” procedimento.
Invero, apprezzare se l’appello era stato proposto tardivamente, come lo ha dichiarato il giudice d’appello con l’ordinanza ai sensi dell’articolo 348 ter c.p.c., suppone l’applicazione da parte della Corte di cassazione, investita dell’impugnazione della sentenza di primo grado, un giudizio sull’esistenza di un giudicato per tardivo esercizio dell’appello che implica l’applicazione delle norme generali sulle impugnazioni, di cui agli articoli 325, 326 e 327 c.p.c., e dal quale emerge l’individuazione dell’esistenza di un giudicato formatosi a prescindere dalla valutazione e decisione espressa dal giudice d’appello con l’applicazione delle norme del procedimento di cui era investito, avendo anche il giudice d’appello applicato quelle norme generali.
Analogamente per il caso di declaratoria di inammissibilita’ dell’appello ai sensi dell’articolo 348 bis c.p.., perche’ doveva proporsi altro mezzo di impugnazione (si pensi al caso in cui sia stata dichiarato inammissibile un appello contro sentenza ai sensi dell’articolo 617 c.p.c.): in questa ipotesi la causa di inammissibilita’ verrebbe apprezzata in funzione della constatazione dell’esistenza del passaggio in giudicato della sentenza di primo grado impugnata davanti alla Corte attraverso un giudizio basato non sulle norme che regolano lo svolgimento del giudizio di appello, bensi’ di quelle che individuano il mezzo di impugnazione esperibile ed a suo tempo non esperito, sicche’ la cognizione della Corte non e’ in contraddizione con l’inimpugnabilita’ dell’ordinanza ma anzi e’ in coerenza con essa.
In tutte le altre ipotesi di inammissibilita’ ed in quella di improcedibilita’, viceversa, poiche’ i vizi relativi, in quanto inerenti la disciplina dello svolgimento del giudizio di appello e, dunque, derivanti da fattispecie che facevano parte della cognizione devoluta al giudice d’appello secondo il procedimento di cui era investito, da norme del suo procedimento, la salvezza dell’impugnabilita’ della sentenza di primo grado allorche’ tali vizi siano stati rilevati e l’esclusione della possibilita’ che la Corte di cassazione, investita dell’impugnazione della sentenza di primo grado, possa rilevarli e condividerli anch’essa, desumendone il passaggio in cosa giudicata della sentenza di primo grado, perche’ l’appello era stato effettivamente mal proposto, non rappresenta una stonatura, non diversamente da come non lo rappresenta l’impugnazione della sentenza di primo grado dopo declaratoria di inammissibilita’ per inesistenza di ragionevole probabilita’ di accoglimento nel merito dell’appello (come per le altre ragioni di rito), che anch’essa e’ ipotesi di appello mal proposto.
p.4.3.1. L’impossibilita’ per la Corte di cassazione di riconoscere che la sentenza di primo grado era passata in cosa giudicata per effetto del cattivo esercizio del diritto di appello secondo le norme regolatrici del procedimento di appello rappresenta, infatti, il prezzo da pagare alla garanzia costituzionale dell’accesso in Cassazione riconosciuta dall’articolo 111 Cost., comma 7, in coerenza con l’esclusione della impugnabilita’ dell’ordinanza ex articolo 348 ter, e quale contrappeso dell’affidamento al giudice d’appello del potere di decidere l’appello sommarizzando il suo procedimento e la sua decisione senza la prospettiva di un controllo della sua valutazione. Per esemplificare: se l’appello era aspecifico oppure improcedibile e tali vizi sono stati dichiarati con l’ordinanza ai sensi dell’articolo 348 ter, si puo’ tollerare che la partita si rigiochi con il ricorso per cassazione contro la sentenza di primo grado. E la ragione e’ che l’appello e’ stato definito in via sommaria con il procedimento ai sensi di quella norma e non con le garanzie connesse alle sue regole normali. Sicche’ la preclusione di una impugnazione della decisione sommaria giustifica che la parte sia rimessa in giuoco rispetto alla sentenza di primo grado, dovendosi comunque garantire ed assicurare la tutela ai sensi dell’articolo 111 Cost., comma 7.
In questi casi, cosi’ come non e’ possibile che la Corte di cassazione, investita dell’impugnazione della sentenza di primo grado, controlli la valutazione del giudice d’appello di inammissibilita’ per la ricorrenza della mancanza di ragionevole probabilita’ di accoglimento nel merito, allo stesso modo non e’ possibile che controlli la valutazione espressa circa la mancanza di ragionevole probabilita’ di accoglimento effettuata per l’inammissibilita’ al di fuori delle dette due ipotesi, come, nel caso di difetto di specificita’ dei motivi (inosservanza dell’articolo 342 c.p.c.), o quella di improcedibilita’ o di esistenza di altra causa in rito impediente. La suggestione che in questo secondo gruppo di casi, se veramente la causa di inammissibilita’ o improcedibilita’ o l’infondatezza in rito esisteva, si finisce, ove si escluda come si deve escludere che la Corte possa constatare tale esistenza, per rimettere in termini l’appellante che aveva male esercitato il suo diritto di impugnazione con l’appello per ragioni di rito, e’ meramente tale, perche’ il legislatore ha voluto che il controllo sull’operato del giudice d’appello fosse precluso e come contraltare, in ragione della circostanza che esso e’ frutto di sommarizzazione, ha attribuito alla parte il diritto d impugnare la sentenza di primo grado.
p.4.3.2. Non coglie questa particolarita’ Cass. n. 7273 del 2014, la’ dove parrebbe non condividere la ricostruzione qui prospettata osservando, proprio per il caso di appello aspecifico, che, consentire il ricorso contro la sentenza di primo grado significherebbe rimettere in giuoco la parte che si e’ vista dichiarare l’appello inammissibile per specificita’ nonostante il “consolidamento del giudicato e della preclusione di ogni ulteriore mezzo di impugnazione”, che, par di capire, sarebbe da ravvisare nel fatto che l’appello era viziato da specificita’.
L’assunto non e’ condivisibile perche’ trascura che, a differenza dell’ipotesi di tardivita’ dell’appello o di proposizione di esso quando doveva essere proposta altra impugnazione, la rilevazione del giudicato, postula – come s’e’ detto – la valutazione dell’atto introduttivo di appello nella sua inidoneita’ a determinare un appello ammissibile e, dunque, l’assunzione dei poteri del giudice dell’appello con la conseguenza che si risolve in una sorta di sindacato sulla giustezza della valutazione espressa dal giudice d’appello nell’apprezzamento delle norme del suo procedimento.
Ora, e’ vero che e’ stato ritenuto che “Il difetto di specificita’ dei motivi di appello ai sensi dell’articolo 342 c.p.c.(nel testo anteriore alla modifica di cui al Decreto Legge 22 giugno 2012, n. 83, articolo 54, convertito, con modificazioni, dalla Legge 7 agosto 2012, n. 134), non rilevato d’ufficio dal giudice del gravame, puo’ essere proposto come motivo di ricorso per cassazione dalla parte appellata, ancorche’ essa non abbia sollevato la relativa eccezione nel giudizio di appello, poiche’ si tratta di questione che, afferendo alla stessa ammissibilita’ dell’impugnazione e, quindi, alla formazione del giudicato, e’ rilevabile anche d’ufficio dalla Corte di cassazione”. (Cass. n. 19223 del 2013) ed e’ vero che, dunque, la Corte di cassazione puo’ rilevare il difetto di specificita’ anche in mancanza di motivo proposto dalla parte, ma cio’ – si badi – nell’ipotesi in cui sia comunque investita dell’impugnazione della sentenza di appello.
Nel caso dell’articolo 348 ter, la Corte e’ investita invece dell’impugnazione della sentenza di primo grado e non di quella della pronuncia di inammissibilita’. Ed e’, dunque, il legislatore che vuole che la decisione sul ricorso contro la sentenza di primo grado avvenga prescindendo dalla valutazione sul se l’appello era stato idoneo ad impedire la formazione della cosa giudicata secondo la sua disciplina, perche’ la Corte di cassazione non e’ investita dei poteri ufficiosi di controllo sulla idoneita’ dell’appello secondo essa, dato che cio’ suppone che la decisione impugnata sia quella resa dal giudice d’appello.
Lo stesso ragionamento puo’ ripetersi per l’ipotesi di improcedibilita’ e di definizione per ragioni di rito del’appello diverse dalle due ipotesi eccettuate sopra.
p.4.3.3. D’altro canto, se l’appello e’ stato dichiarato inammissibile per ragioni di rito, dalla valutazione espressa dall’ordinanza ex articolo 348 ter emerge che, secondo il giudice d’appello la sentenza di primo grado e’ giusta non diversamente di come la cosa, per usare le parole di Cass. n. 7273 del 2014 lo e’ la sentenza di primo grado il cui appello sia stato dichiarato inammissibile per ragioni di merito. Nel’uno come nell’altro caso, poiche’ l’impugnazione della sentenza di primo grado non e’ condizionata all’ingiustizia della ordinanza, si ha che essa e’ ammessa in presenza di una decisione del giudice d’appello che allo stato renderebbe oggettivamente giusta la sentenza di primo grado.
p.4.3.4. Un’ultima notazione e’ necessaria: e’ stato paventato che ammettere che il giudice d’appello possa utilizzare il procedimento sommario di decisione nel senso lato qui sostenuto, aumenterebbe l’ampiezza dell’area in cui la gestione dell’appello da parte del giudice d’appello sarebbe divenuta incontrollabile, con il rischi che quel giudice usi il procedimento abusandone. L’obiezione e’ sensata, ma riguarda anche il caso della limitazione del procedimento all’infondatezza nel merito. Ad essa, in disparte che il rilievo suppone una non giustificata e preconcetta sfiducia nell’operare del giudice d’appello, si puo’ replicare che gli abusi sarebbero censurabili e rilevanti sul piano disciplinare.
p.4.4. Conclusivamente il Collegio ritiene che debba affermarsi il seguente principio di diritto: “L’articolo 348 bis, quando allude all’ipotesi in cui l’appello non ha ragionevole probabilita’ di essere accolto intende comprendervi sia il caso in cui esso sia tale per manifesta infondatezza nel merito, sia il caso in cui esso sia manifestamente infondato per una qualsiasi ragioni di rito, ivi comprese cause di inammissibilita’ o improcedibilita’ espressamente previste dalla legge aliunde. L’inciso fuori dei casi in cui deve essere dichiarata con sentenza l’inammissibilita’ o l’improcedibilita’ dell’appello, infatti, allude all’ipotesi in cui il giudice dell’appello abbia dato corso alla trattazione dell’appello in via normale e non abbia rilevato la mancanza di ragionevole probabilita’ dell’appello di essere accolto in limine litis all’udienza di cui all’articolo 350 c.p.c., come gli impone l’articolo 348 ter c.p.c.. In tal caso detto inciso impone al giudice dell’appello di decidere con il procedimento di decisione normale e, dunque, con le garanzie connesse alla pronuncia della sentenza, impedendo una regressione del procedimento all’ipotesi degli articoli 348 bis e 348 ter c.p.c.”.
Ne segue che la declaratoria di inammissibilita’ ai sensi dell’articolo 348 ter c.p.c., e’ possibile anche ove l’appello non sia rispettoso dell’articolo 342 c.p.c..
p.5. Ferma l’affermazione appena effettuata, si osserva che, come argomentato dalla relazione, l’assoluta inimpugnabilita’ dell’ordinanza ai sensi dell’articolo 348 ter, dev’essere ribadita, conforme a quanto ipotizzato in generale dalla relazione per i seguenti casi: a) quando abbia luogo la pronuncia dell’ordinanza nelle due ipotesi in cui e’ la legge ad escluderlo nel secondo comma dell’articolo 348 bis; b) quando abbia luogo la pronuncia dell’inammissibilita’ o improcedibilita’ dell’appello per le cause previste dalla legge altrove, o per la ricorrenza di altre ragioni di rito; c) quando la pronuncia dell’ordinanza avvenga in violazione dell’articolo 348 ter c.p.c., comma 2; d) quando detta pronuncia abbia luogo dopo la trattazione del procedimento di appello e, dunque, in violazione dell’articolo 348 ter c.p.c., comma 1, od anche senza sentire le parti.
In pratica per tutte le ipotesi – siano esse da intendere nel senso limitativo sopra sostenuto, siano esse da intendere nel senso sostenuto da Cass. n. 7273 del 2014 – nelle quali non sarebbe stata consentita l’emissione dell’ordinanza o essa e’ avvenuta con violazione di norme del procedimento di decisione con essa.
p.5.1. Si deve a questo punto osservare che le argomentazioni con cui Cass. n. 7273 del 2014 ha sostenuto il contrario per il caso di aspecificita’ ed ha, non ponendosi l’alternativa fra ricorso ordinario e ricorso straordinario, ipotizzato che avverso l’ordinanza ai sensi dell’articolo 348-ter pronunciata fuori dei casi in cui l’ordinamento ne consente l’emissione, abbracciato l’idea che il ricorso per cassazione sarebbe dovuto ai sensi dell’articolo 111 Cost., comma 7, sarebbero, infatti, estensibili, a volerle seguire, e detta decisione le ha estese, non solo a tutti gli altri casi di pronuncia dell’ordinanza fuori dei casi i cui sarebbe ammessa, ma anche, nonostante il contrario avviso della stessa decisione, a tutte le ipotesi di adozione dell’ordinanza in violazione delle norme che regolano le condizioni procedimentali per la sua emanazione.
p.5.2. Le argomentazioni svolte dalla citata decisione, sebbene con restrizione alla sola ipotesi di emissione dell’ordinanza per ragioni di infondatezza in rito dell’appello non appaiono, tuttavia, condivisibili, perche’ si muovono assumendo una dimensione dei presupposti del ricorso straordinario che, pur muovendo dalla proclamata assunzione dei principi affermati dalla fondamentale Cass. sez. un. n. 11026 del 2003, li contraddicono in modo palese.
Ed anzi sono tali da incrinare lo stesso ragionamento con cui la decisione da cui si dissente ha invece affermato che non e’ suscettibile di impugnazione con il ricorso straordinario l’ordinanza ai sensi dell’articolo 348 ter, pronunciata nel caso dell’appello manifestamente infondato per ragioni di merito.
E’ per tale ragione che occorre prendere posizione su detta decisione, ancorche’ nel caso di cui al ricorso che si decide l’ordinanza, peraltro dopo una breve valutazione di rispetto dell’articolo 342 c.p.c., sia stata emessa per ragioni di infondatezza di merito.
Queste le ragioni.
p.5.3. In tanto e’ da registrare che la stessa assunzione dei principi espressi in quell’arresto, allorquando la decisione in questione deve spiegare le ragioni per cui l’ordinanza ai sensi dell’articolo 348 ter, pronunciata nei casi consentiti, cioe’ per l’ipotesi dell’appello manifestamente infondato per ragioni di merito, non potrebbe essere suscettibile di ricorso straordinario, avviene in modo non convincente, perche’ (paragrafo 2.2. della motivazione) essa cita Cass. sez. un. n. 11026 del 2003, accodandola alla precedente Cass. sez. un. n. 3073 del 2003, evocata nella motivazione della prima, solo in quanto essa ebbe a riaffermare, peraltro con opportune precisazioni specificative del carattere della c.d. incidenza, il tradizionale requisito di ammissibilita’ del rimedio dell’articolo 111 Cost., comma 7, espresso dalla necessaria decisorieta’ del provvedimento, inteso come sua attitudine a decidere o ad incidere su diritti.
Viceversa, nell’enunciare, dopo avere rilevato – condivisibilmente – che la decisione ai sensi dell’articolo 348 ter, ha carattere decisorio, la spiegazione del perche’ secondo la giurisprudenza evocata difetterebbero gli estremi per l’accesso al ricorso straordinario e’ addotta con l’affermazione della mancanza del carattere della definitivita’, cioe’ dell’attitudine a determinare la formazione della cosa giudicata sul diritto controverso. Tale mancanza viene fatta correttamente discendere dalla circostanza che il ricorso per cassazione e’ proponibile contro la sentenza di primo grado.
Senonche’, quando poi si affronta la questione della sottoponibilita’ a ricorso straordinario dell’ordinanza ai sensi dell’articolo 348 ter c.p.c., pronunciata dal giudice dell’appello al di fuori dei casi consentiti (l’argomentazione e’ svolta con riferimento al caso di aspecificita’ dei motivi, ma, nell’ottica condivisa, e’ generale per tutti quei casi), si prospettano due ragioni a sostegno della ammissibilita’ del ricorso straordinario.
La prima e’ che ricorrerebbe il carattere della definitivita’ della pronuncia di inammissibilita’ adottata con l’ordinanza dichiarativa della mancanza di specificita’, perche’ l’eventuale errore del giudice d’appello nell’apprezzamento della specificita’, non essendo un vizio della sentenza di primo grado, non potrebbe essere controllato con il ricorso contro la sentenza di primo grado, onde l’unico mezzo per conseguire tale controllo sarebbe il ricorso straordinario. E si dice che per tale ragione “manca la possibilita’ di rimettere in discussione la tutela che compete alla situazione giuridica dedotta nel processo impugnando la pronuncia di primo grado”.
La seconda ragione viene enunciata sostenendo che l’ordinanza di inammissibilita’ fondata su una questione di rito, come la mancanza di specificita’ del gravame ai sensi dell’articolo 342 c.p.c., in quanto decisione che avrebbe richiesto la forma della sentenza sarebbe “i ragione del suo contenuto effettivo, una sentenza in senso sostanziale”. Di modo che dovrebbero valere, si dice, i principi affermati da Cass. sez. un. n. 16727 del 2012 con riguardo all’individuazione del mezzo di tutela esperibile avverso l’ordinanza dichiarativa dell’esecutivita’ del progetto divisionale emessa in assenza di presupposti legittimanti, cioe’ nonostante la presenza di contestazioni fra i condividenti.
p.5.4. La prima ragione sembra porsi in netto contrasto con il concetto di definitivita’ assunto da Cass. sez. un. n. 11026 del 2003.
Infatti, quando la decisione da cui si dissente si riferisce alla preclusione della possibilita’ di rimettere in discussione la situazione giuridica a seguito di un’ordinanza ai sensi dell’articolo 348 bis, adottata fuori dai casi consentiti, non si avvede che la situazione giuridica che non puo’ essere messa in discussione e’ soltanto il diritto di natura processuale alla decisione con l’appello nelle forme ordinarie anziche’ con quella speciale. La situazione sostanziale oggetto del giudizio, se si ammette l’impugnazione con il ricorso per cassazione della sentenza di primo grado resta ridiscutibile, come e’ stato detto nella relazione.
Onde non si comprende come possa ragionarsi di definitivita’, se non ritenendo che si sia voluto abbandonare senza, pero’, dirlo l’insegnamento di Cass. sez. un. n. 11026 del 2003, la quale, nella motivazione si era cosi’ chiaramente espressa:
“Infatti il diritto processuale di azione, individuato dall’orientamento qui non condiviso, non ha carattere proprio e fine a se stesso, ma ha natura strumentale, in quanto e’ espressione di un sistema di norme che disciplina meccanismi ed istituti diretti a garantire che la norma sostanziale sia attuata anche nell’ipotesi di mancata cooperazione spontanea da parte di chi vi e’ tenuto. Questo carattere strumentale, nel quale si esprime anche il nesso di interdipendenza esistente tra diritto sostanziale e processo, postula che al diritto processuale di azione non puo’ essere attribuita una tutela diversa e speciale rispetto a quella che la normativa (costituzionale e ordinaria) contempla in relazione all’atto destinato a provvedere sulla situazione sostanziale. Si vuoi dire che, se un atto non e’ impugnabile con ricorso straordinario per cassazione perche’ privo di carattere decisorio e definitivo (nei significati suddetti), quando contiene una pronuncia di merito, non lo e’ neppure quando esso si esaurisca in una pronuncia di rito, dal momento che la natura (processuale) della pronuncia non vale ad attribuirle la qualificazione decisoria e definitiva di cui come pronuncia di merito sarebbe stata priva…… In sostanza, come questa Corte ha di recente osservato (Cass., sez. un., n. 3073/2003 cit.), il diritto processuale all’impugnazione, in quanto funzionale alla tutela di situazioni di diritto sostanziale, non puo’ godere di una tutela astratta, fine a se stessa, ma deve essere considerato in relazione alla materia e all’oggetto della controversia. Le considerazioni che precedono consentono anche di escludere la pertinenza del richiamo all’articolo 24 Cost.. Infatti, se il diritto processuale non gode di una tutela astratta fine a se stessa, e se la situazione giuridica sostanziale implicata nel procedimento non e’ incisa con carattere decisorio e definitivo dall’atto terminale (ancorche’ esso contenga una declaratoria d’inammissibilita’ del gravame), la tutela giurisdizionale non subisce pregiudizio, in quanto la parte puo’ sempre chiedere la modifica o la revoca dei provvedimenti in precedenza adottati”.
p.5.5. Per avallare la prospettazione della tesi che si critica sarebbe, a ben vedere (anche se in essa non si allude a questa esegesi), necessario rinvenire nella norma dell’articolo 348 ter, un qualche elemento che esprima una volonta’ di legge per cui la proclamazione del terzo comma della norma, la’ dove ammette l’impugnazione contro la sentenza di primo grado, riferendola al caso che individua con l’espressione “quando e’ pronunciata l’inammissibilita’”, dovrebbe essere intesa nel senso che l’impugnazione della sentenza di primo grado sarebbe possibile solo nel caso in cui l’ordinanza fosse stata pronunciata nei casi previsti, individuati come quelli di manifesta infondatezza nel merito. Mentre, nel caso di pronuncia fuori di tali casi, resterebbe esperibile il ricorso per cassazione, nella sua figura di ricorso straordinario.
Ma la legge non contiene alcun elemento che limiti l’impugnazione della sentenza di primo grado al presupposto che sia stata pronunciata nei casi consentiti. Presupposto, la cui ricorrenza, evidentemente, dovrebbe essere controllata dalla Corte di cassazione, la quale, dunque, di fronte alla constatazione che l’ordinanza e’ stata emessa fuori del solo preteso caso consentito (infondatezza manifesta nel merito), dovrebbe dichiarare inammissibile l’impugnazione. Ne’ potrebbe convenirla in impugnazione contro l’ordinanza stessa. A meno che non sia stata impugnata anche l’ordinanza.
E’ palese, pero’, che, se il legislatore avesse voluto limitare nel senso ipotizzato il diritto di impugnazione della sentenza di primo grado, lo avrebbe detto ed avrebbe detto anche che, nel caso di pronuncia dell’ordinanza fuori dei casi consentiti, era ammesso contro di essa l’ordinario mezzo di impugnazione, cioe’ il ricorso per cassazione, evitando di affidare all’interprete di individuare, specie in tempi in cui si paventa l’eccesso di accesso alla Corte di cassazione per il tramite dell’articolo 111 Cost., comma 7, un’ennesima, certo problematica, ipotesi in cui l’accesso sarebbe consentito.
p.5.6. E’ anzi palese che il legislatore, secondo un principio di ragionevolezza e consapevolezza di buona tecnica legislativa, avrebbe dovuto anche prevedere che contro l’impugnazione rivolta avverso la sentenza di primo grado nell’ipotesi in cui il giudice d’appello avesse pronunciato l’inammissibilita’ per ragioni di merito, la parte vittoriosa sul punto e, quindi, sull’esito finale dell’appello, ma soccombente sull’eventuale questione di inammissibilita’ “classica” o di infondatezza in rito dell’appello, potesse a sua volta reagire impugnando in via incidentale l’ordinanza dichiarativa della mancanza di ragionevole probabilita’ dell’appello di essere accolto nel merito sul punto in cui avesse prima negato l’esistenza di un vizio o di una ragione di infondatezza in rito dell’appello.
E’ appena il caso di rilevare che, per ammettere tale possibilita’, uno sforzo creativo dell’interprete di fronte al silenzio del legislatore sarebbe, pero’, inimmaginabile: cio’, per l’assorbente ragione che si risolverebbe nella creazione di un istituto del tutto nuovo e sui generis rappresentato dall’inserimento di una impugnazione incidentale contro un distinto provvedimento nell’ambito di una principale rivolta contro altro provvedimento.
Non sembra in alcun modo che l’interprete si possa spingere in una simile direzione.
E soprattutto uno sforzo di “inventiva” di questo genere parrebbe porsi in manifesto contrasto con l’intento del legislatore – corretto o meno che sia sotto il profilo dogmatico e funzionale – di assicurare rapida definizione degli appelli senza prospettiva d’essere accolti preservando la dovuta garanzia dell’accesso alla Cassazione per il tramite dell’impugnazione della sentenza di primo grado.
E’ evidente che, all’affidamento al giudice d’appello del potere di sommarizzare la decisione dell’appello, a questo punto sarebbe stato allora piu’ logico far seguire, nonostante la decisione sommarizzata, la strada normale dell’ordinario ricorso per cassazione, con obbligo del ricorrente prima di dimostrare, per la via dell’articolo 360 c.p.c., n. 4, l’erroneita’ della scelta della decisione sommarizzata (che avrebbe potuto riguardare anche la stessa inidoneita’ della motivazione sulla sommarizzazione, anche in ordine alla mancanza della ragionevole probabilita’ dell’appello di essere accolto nel merito, specie quando esercitata riguardo ad uno dei motivi senza esame degli altri) e, quindi, di svolgere dinanzi al giudice di legittimita’, secondo il modello dell’articolo 360 c.p.c., i vizi fatti valere con l’appello incasellandoli nel paradigma dell’articolo 360 c.p.c..
p.5.7. E’ da rilevare, poi, che, naturalmente, una volta che ci si ponga nella logica della attitudine dell’ordinanza ex articolo 348 ter, pronunciata fuori dei casi consentiti – siano essi solo – come il Collegio opina – quelli di pronuncia dell’ordinanza nei casi di cui all’articolo 348 bis c.p.c., comma 2, e quelli di cui all’articolo 348 ter c.p.c., comma 2, siano essi anche quelli di definizione in rito dell’appello (secondo la prospettazione qui criticata), siano essi anche quelli di pronuncia senza le forme prescritte dall’articolo 348 ter – ad assumere il carattere della definitivita’ alla stregua dell’articolo 111 Cost., comma 7, e’ consequenziale quanto segue: all’appellato che abbia visto rigettare con l’ordinanza l’appello per ragioni di merito dopo che sia stata espressamene disattesa la sua stessa eccezione di ricorrenza di una inammissibilita’ o di altra infondatezza in rito, essendo il provvedimento idoneo a definire la questione ed essendo la pronuncia, ove altrimenti non impugnabile, idonea a definirla con effetto di giudicato interno, sarebbe giocoforza riconoscere il diritto di impugnarla, perche’ altrimenti la Corte di cassazione, investita dell’impugnazione della sentenza di primo grado, non potrebbe rilevarla d’ufficio e cio’ non solo quando si trattasse di inammissibilita’ inerente – per come si e’ prima esemplificato – lo svolgimento del procedimento di appello (come l’aspecificita’ o l’improcedibilita’, o altra ragione di rito inerente la tecnica dell’appello), ma anche ove si trattasse di inammissibilita’ per tardivita’ o per esistenza di mezzo diverso dall’appello.
La costruzione operata da Cass. n. 7273 del 2014 non potrebbe non avere tale implicazione.
Detto altrimenti: se si riconosce all’appellante il diritto di accesso all’impugnazione con il ricorso straordinario contro l’ordinanza dichiarativa dell’inammissibilita’ fuori dei casi consentiti, il principio della parita’ delle armi e prima ancora e prima ancora quello che se una questione e’ suscettibile di discussione con un mezzo di impugnazione se decisa in un certo modo, deve esserlo anche se decisa nel modo opposto, il riconoscere all’appellante il diritto di ricorrere per cassazione in via straordinaria contro detta ordinanza esige che, quando l’ordinanza viene emessa nei casi consentiti dopo che si e’ disattesa la questione di rito che avrebbe richiesto la decisione con il rito ordinario, all’appellato, pur vittorioso, sia consentito di ridiscutere in qualche modo la decisione sul punto, se viene impugnata la decisione di primo grado in ragione dell’esito di inammissibilita’ dell’appello nel merito.
p.5.8. La tesi da cui si dissente, inoltre, e’ in contraddizione la’ dove non pare ammettere che l’ordinanza emessa in casi consentiti senza l’osservanza delle regole dell’articolo 350 c.p.c., come quella del sentire le parti e dell’emanazione nell’udienza ai sensi dell’articolo 350 c.p.c., senza trattazione, possa essere impugnata a sua volta con il ricorso straordinario, sebbene emessa per infondatezza manifesta nel merito: anche in tal caso e’ impossibile per l’appellante lamentarsi della violazione di quelle regole impugnando la sentenza di primo grado e, dunque, il relativo diritto processuale alla loro osservanza risulta definitivamente negato.
p.5.9. Diventa a questo punto quasi superfluo discutere la seconda delle ragioni evidenziate dalla citate decisione, ma, per completezza, il Collegio ritiene che anch’essa non sia condivisibile, la’ dove individua nell’ordinanza dichiarativa dell’inammissibilita’ dell’appello emessa fuori dei casi consentiti (quali che essi siano) una sentenza in senso sostanziale, evocando Cass. sez. un. n. 16727 del 2012.
Con tale decisione le Sezioni Unite, com’e’ noto, hanno – risolvendo un contrasto, ma sostanzialmente immutando l’orientamento prevalente che, in tema di scioglimento di comunioni, considerava l’ordinanza con cui il giudice istruttore ai sensi dell’articolo 789 c.p.c., comma 3, avesse dichiarato esecutivo il progetto di divisione, pur in presenza di contestazioni, come sentenza in senso sostanziale ricorribile ai sensi dell’articolo 111 Cost. comma 7, – affermato che viceversa essa e’ suscettibile, proprio per tale natura, di impugnazione con l’appello, come lo sarebbe stata la decisione emessa per il contrasto fra le parti con la forma dovuta, cioe’ la sentenza.
Ora, in tal caso, le Sezioni Unite hanno escluso il rimedio del ricorso straordinario con un ragionamento non dissimile da quello che la giurisprudenza della Corte compie in altri casi nei quali il provvedimento emesso dal giudice lo e’ con un certo contenuto, quando doveva assumere i contenuti della sentenza ed essa sarebbe stata sottoponibile ad un certo mezzo di impugnazione (si pensi al caso dell’ordinanza di convalida di sfratto o licenza emessa fuori dai suoi presupposti, cioe’ quando si doveva dar corso alla cognizione piena e decidete con sentenza di primo grado impugnabile con appello). Nel caso dell’articolo 789 c.p.c. comma 3, il dover dar corso il giudice della divisione ad un giudizio da definirsi con sentenza di primo grado impugnabile con l’appello e l’avere invece ravvisato erroneamente le condizioni per provvedere con l’ordinanza detta inimpugnabile, trasforma la decisione in una sentenza che, negando l’esistenza della situazione di contesa, l’ha sostanzialmente decisa. E, poiche’ l’ordinamento prevede che la sentenza che decide sulle contestazioni sia assoggettabile all’appello, la prevalenza della sostanza sulla forma non esige il ricorso straordinario ma quel mezzo di impugnazione che sarebbe stato dovuto se la decisione fosse avvenuta con la forma corretta.
p.5.9.1. Ebbene, se il legislatore avesse detto non impugnabile l’ordinanza ai sensi dell’articolo 348 ter c.p.c., o si fosse limitato a nulla prevedere circa la sa impugnabilita’, l’applicazione del principio della dovutezza del rimedio del ricorso in cassazione per violazione di legge, avrebbe richiesto il riconoscimento dell’ammissibilita’ di tale rimedio.
Nel caso di specie il legislatore non ha previsto alcun mezzo di impugnazione, ma, con una novita’ assoluta di tecnica legislativa, ha ammesso la parte ad esercitare il diritto di accesso in Cassazione contro la sentenza di primo grado. L’espressa ammissione di tale mezzo toglie qualsiasi possibilita’ di parallelismo fra l’ipotesi della pronuncia dell’ordinanza ex articolo 348 ter, irrituale (perche’ avvenuta fuori dei casi consentiti o senza le forme prescritte, e’ da aggiungere) e quella dell’ordinanza ex articolo 789 c.p.c., comma 3, pronunciata in situazione di contrasto.
D’altro canto, il parallelismo e’ anche infondato perche’ non considera che l’appello contro l’ordinanza irrituale ai sensi dell’articolo 789, comma 3, deve dedurre non solo la sua irritualita’, ma anche le ragioni di merito relative alla vicenda, dato che l’appello ha effetto devolutivo. Dunque, l’appello si esperisce non per censurare l’error in procedendo commesso dal giudice del procedimento divisionale, ma considerando che il risultato di tale errore e’ una sentenza sostanziale di risoluzione della contesa sulla divisione e perche’, se non fosse consentito l’appello (e nella vecchia logica il ricorso straordinario) come tale resterebbe indiscutibile e definitoria dell’assetto di interessi sulle situazioni sostanziali coinvolte.
p.5.9.2. Nel caso dell’ordinanza ai sensi dell’articolo 348 ter, la presenza di un mezzo di impugnazione esperibile contro la sentenza di primo grado, poiche’ consente di ridiscutere sulla situazione sostanziale e, quindi, sul merito, dovrebbe non solo giustificare l’irrilevanza della decisione con l’ordinanza in un caso in cui non la si poteva rendere con quella forma (e s’e’ gia’ veduto che sono assolutamente prevalenti le ragioni perche’ lo sia nell’intendo legis) per mancanza di definitivita’ della decisione riguardo alla situazione sostanziale oggetto del processo, ma, inoltre, comporterebbe che l’ammissione del ricorso straordinario per cassazione finirebbe per giustificarsi soltanto perche’ e’ stato leso il diritto allo svolgimento del processo di appello ed alla sua decisione con la forma dovuta.
Escludere il ricorso straordinario ed ammettere quello contro la sentenza di primo grado rende invece solo irrilevante e non censurabile la lesione del diritto processuale allo svolgimento e alla decisione dell’appello con la forma che sarebbe stata dovuta e, dunque, definisce, quella modalita’ del diritto di azione e nient’altro.
Ne segue che la costruzione operata da Cass. n. 7273 del 2014 si pone in insanabile contrasto con i principi di Cass. sez. un. n. 11026 del 2003 che giustificano pienamente quella esclusione trattandosi solo di definitivita’ sul diritto processuale ad una certa forma, mentre, la’ dove evoca quelli di Cass. n. 16727 del 2012, li invoca in modo che non pare pertinente.
Non solo: il ricorso alla figura del ricorso straordinario risulta non pertinente, perche’, una volta considerata l’ordinanza ex articolo 348 ter, emessa fuori dei casi consentiti, quali che essi siano, come una sentenza sostanziale sull’appello, la figura del ricorso per cassazione dovrebbe essere quella del ricorso ordinario, ammesso contro la decisione che si sarebbe dovuta adottare con sentenza.
p.5.9.3. Perplessita’ desta, poi, il constatare che, avendo Cass. n. 7273 del 2014 cassato con rinvio senza esaminare – come sembra che avrebbe potuto, trattandosi di violazione di norma del procedimento e non occorrendo, deve ipotizzarsi, accertamenti di fatto – se veramente l’aspecificita’ dell’appello ricorreva oppure no, parrebbe che l’idea sottesa a detta decisione (come parrebbe leggesi nel paragrafo 3) sia nel senso che la Corte di cassazione, quando viene investita del ricorso contro l’ordinanza ex articolo 348 ter, irrituale, debba limitarsi a sindacare se l’irritualita’ ricorra oppure no e, in caso positivo, debba rinviare al giudice d’appello perche’ decida con il rito dell’appello in via normale.
In disparte che questa idea evidenzia ancora piu’, ove fosse necessario, come il ricorso per cassazione servirebbe solo a tutelare il diritto al modo del processo e, in disparte ogni conseguenza che ne deriverebbe in altri settori, nei quali viene esclusa la definitivita’ della decisione nonostante la sua decisorieta’ (incidenza su diritti) per negare l’accesso al ricorso straordinario (si pensi alla decisione sul reclamo cautelare, che definisce la tutela secondo il procedimento cautela uniforme), si osserva che essa comporterebbe una singolare dilatazione dei gradi di giudizio: e’ sufficiente osservare che il giudice d’appello di rinvio potrebbe nuovamente ravvisare la mancanza di specificita’ dell’appello e nuovamente dichiararla con sentenza e cosi’ la causa potrebbe dover ritornare in Cassazione e, quindi, essere oggetto di nuova cassazione. Non solo: non si comprende se il giudice di rinvio potrebbe eventualmente dire l’appello privo di possibilita’ di essere accolto nel merito e pronunciarne l’inammissibilita’ ai sensi dell’articolo 348 ter c.p.c.. Il caso si darebbe anche se la Corte di cassazione affermasse la specificita’ dei motivi e cassasse per il loro esame. Il rinvio restituirebbe le parti sempre nella situazione in cui si trovavano in limine della lite in appello.
p.6. A questo punto la prima delle osservazioni critiche rivolte alla relazione dalla memoria ha trovato ampia risposta nelle su estese considerazioni: che la cassazione della sentenza di primo grado dia luogo ad un rinvio davanti al giudice d’appello non ripristinando il diritto allo svolgimento dell’appello nella forma ordinaria e’ conseguenza della esclusione della impugnazione dell’ordinanza che ha deciso l’appello con il rito sommarizzato, che, come si e’ ampiamente argomentato nella relazione e in questa motivazione non offende in alcun modo la Costituzione.
La seconda critica, la’ dove lamenta la perdita del doppio grado di merito, in disparte il rilievo che un secondo grado sebbene sommarizzato v’e’ stato, e’ priva di prospettiva, dato che il doppio grado non solo non e’ costituzionalmente garantito, ma, ove, come nella specie sia previsto, non e’ costituzionalmente dovuto che debba avere luogo sempre con le stesse modalita’ di svolgimento.
Resta da dire della terza critica, quella inerente la preclusione della deducibilita’ del vizio ai sensi dell’articolo 360, n. 5, nuovo testo se l’inammissibilita’ “e’ fondata sulle stesse ragioni, inerenti alle questioni di fatto, poste a base della decisione impugnata”.
Ebbene, la lettura data recentissimamente da Cass. sez un. nn. 8053 e 8054 del 2014 al nuovo articolo 360 c.p.c., n. 5, – nel senso che “L’articolo 360 c.p.c., n. 5, novellato dal Decreto Legge n. 83 del 2012, articolo 54, conv. in Legge n. 134 del 2012, prevede, quale specifico vizio denunciabile per cassazione, l’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che sia stato discusso tra le parti e abbia carattere decisivo, sicche’ il ricorrente deve indicare tale fatto storico, il dato da cui risulti esistente, il come e il quando esso sia stato discusso e la sua decisivita’, fermo che non rileva l’omesso esame di elementi istruttori, se il fatto storico sia stato comunque valutato dal giudice”. – in disparte la necessita’ che tanto dovrebbe risultare expressis verbis dall’ordinanza ex articolo 348 ter c.p.c., rende problematico intendere che il motivo ai sensi del n. 5, non sarebbe ammesso contro la sentenza di primo grado se l’ordinanza abbia detto inammissibile l’appello dicendo priva di ragionevole possibilita’ di accoglimento la prospettazione dell’appellante secondo cui il primo giudice aveva omesso l’esame del fatto principale o secondario.
In tal caso, infatti, non sembra possibile ritenere che l’ordinanza, ma il rilievo sembra valere anche per l’ordinaria decisione con sentenza, sia “fondata sulle stesse ragioni, inerenti alle questioni di fatto, poste a base della decisione impugnata”. Invero, se si era denunciato che il primo giudice aveva omesso di considerare il fatto principale o quello secondario con i caratteri indicati dalle Sezioni Unite, la sentenza da esso emessa non era e non poteva essere fondata su di esso. L’ordinanza o la sentenza di appello che neghi la fondatezza nel merito dell’appello escludendo che l’omissione vi sia stata a ben vedere risulta fondata invece anche sulla constatazione che l’omissione non vi e’ stata o che comunque non e’ stata decisiva o che comunque non e’ stata dedotta ritualmente e, dunque, non sembra radicare la fattispecie di cui all’articolo 348 ter, commi 4 e 5, che, dunque, sembrerebbe di dubbia se non impossibile realizzazione.
Comunque sarebbero esaustive le notazioni del punto 5.7. della relazione.
p.7. Nel solco della relazione e tirando le fila di quanto osservato in questa motivazione, il Collegio ritiene, conclusivamente, di affermare i seguenti principi di diritto:
a) L’ordinanza ai sensi dell’articolo 348 ter c.p.c., sia quando e’ stata emessa in un caso consentito, sia quando e’ stata emessa al di fuori dei casi in cui l’ordinamento ne consente l’emissione (che si individuano in quelli esclusi dall’articolo 348 bis, comma 2, e in quello risultante a contrario dall’articolo 348 ter, comma 2), non e’ impugnabile con il ricorso per cassazione, ne’ in via ordinaria, ne’ in via straordinaria;
b) In entrambi i casi l’impugnazione possibile e’ solo quella della sentenza di primo grado;
c) Tale impugnazione e’ soggetta al controllo della Corte di cassazione sia sotto il profilo dell’articolo 329 c.p.c., in relazione all’appello a suo tempo esercitato, sia sotto quello dell’eventuale abbandono con lo stesso appello di questioni per difetto di riproposizione ai sensi dell’articolo 346 c.p.c.;
d) La Corte di cassazione, investita del ricorso contro la sentenza di primo grado non puo’ esaminare la ritualita’ della decisione del giudice di appello dichiarativa della sua inammissibilita’ per ragioni inerenti la tecnica e lo svolgimento del giudizio di appello, ma puo’ rilevare che, in ragione della tardivita’ dell’appello o per essere ammesso contro la sentenza di primo grado un mezzo di impugnazione diverso da quello dell’appello, la sentenza di primo grado era passata in cosa giudicata e cio’ anche quando lo stesso giudice d’appello con l’ordinanza ai sensi dell’articolo 348 ter, abbia detto inammissibile a sua volta l’appello per una di tali ragioni;
e) L’ordinanza ex articolo 348 bis c.p.c., non e’ impugnabile in Cassazione nemmeno quanto alla statuizione sulle spese.
Con riferimento all’ultimo principio affermato i rimedi debbono ricercarsi nei sensi di cui alla relazione.
p.8. Deve passarsi a questo punto all’esame delle critiche che la memoria rivolge alla relazione in ordine alla valutazione di rigetto del ricorso contro la sentenza di primo grado.
Esse prendono atto delle valutazioni della relazione in ordine al primo motivo e si dolgono solo delle valutazioni da essa fatte riguardo al secondo.
p.8.1. Il Collegio condivide il principio di diritto emergente dalle considerazioni della relazione in ordine, che va riaffermato nei seguenti termini.
La norma del Decreto Legge n. 158 del 2012, articolo 3, comma 1, convertito, con modificazioni, dalla Legge n. 189 del 2012, quando dispone nel primo inciso che “l’esercente la professione sanitaria che nello svolgimento della propria attivita’ si attiene a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunita’ scientifica non risponde penalmente per colpa lieve” e, quindi, soggiunge che “in tali casi resta comunque fermo l’obbligo di cui all’articolo 2043 c.c.”, poiche’ omette di precisare in che termini si riferisca all’esercente la professione sanitaria e concerne nel suo primo inciso solo la responsabilita’ penale, comporta che la norma dell’inciso successivo, quando dice che resta comunque fermo l’obbligo di cui all’articolo 2043 c.c., dev’essere interpretata, conforme al principio per cui in lege aquilia et levissima culpa venit, nel senso che il legislatore si e’ soltanto preoccupato di escludere l’irrilevanza della colpa lieve anche in ambito di responsabilita’ extracontrattuale civilistica. Deve, viceversa, escludersi che con detto inciso il legislatore abbia inteso esprimere un’opzione a favore di una qualificazione della responsabilita’ medica necessariamente come responsabilita’ extracontrattuale.
Deve, dunque, confermarsi – ancorche’ la ricorrente non lo contesti con la memoria – che l’indicata norma non solo non ha e no puo’ avere a regime l’esegesi sostenuta nel ricorso dalla ricorrente, ma, a maggior ragione, no ha avuto le ricadute sulle vicende pregresse alla sua entrata in vigore da essa supposte, sulla falsariga del precedente di merito invocato nel ricorso stesso.
Deve, pertanto, ribadirsi che alla norma nessun rilievo puo’ attribuirsi che induca il superamento dell’orientamento tradizionale sulla responsabilita’ medica come responsabilita’ da contatto e sulle sue implicazioni (da ultimo riaffermate da Cass. n. 4792 del 2013).
Il primo motivo e’, pertanto rigettato, giusta la qualificazione della decisione che rilevi la causa di inammissibilita’ ex articolo 360 bis c.p.c., n. 1, voluta da Cass. sez. un. n. 19051 del 2010.
p.8.2. In ordine al secondo motivo la memoria contesta la valutazione di assorbimento di esso, in ragione del rigetto del primo.
L’assunto e’ condivisibile, in quanto a pagina 39 del ricorso effettivamente la pronuncia del Tribunale e’ contestata nella prospettiva che, disatteso il primo motivo e, dunque, mantenuta la qualificazione in senso contrattuale della responsabilita’ della ricorrente, risulterebbe che essa avrebbe addossato all’Azienda la prova che una condotta alternativa dei sanitari avrebbe scongiurato il grave pregiudizio sofferto dalla bambina e dai suoi congiunti.
Quindi l’assorbimento di cui ha detto la relazione effettivamente non sussiste ed il motivo dev’essere scrutinato.
p.8.3. A questo punto si deve esaminare se il motivo sia inammissibile ai sensi dell’articolo 366 c.p.c., n. 6, per come ritenuto gradatamente dalla relazione.
La memoria si duole della valutazione di inammissibilita’ in tal senso, ma lo fa pretendendo, senza farsi carico della giurisprudenza della Corte in tema di indicazione specifica degli atti processuali, che la norma dell’articolo 366 c.p.c., n. 6, sarebbe stata rispettata mediante l’indicazione nel fascicolo prodotto in questo giudizio di legittimita’ unitamente al ricorso.
Ora, effettivamente in chiusura del ricorso, dopo che nella sua esposizione, tanto relativa all’impugnazione dell’ordinanza, quanto della sentenza di primo grado, si e’ ragionato delle varie risultanze degli interventi dei consulenti tecnici, senza mai indicare se e dove i relativi atti fossero esaminabili, in quanto prodotti, in questo giudizio di legittimita’, si enuncia, dopo le conclusioni, che “si producono, anche ai sensi dell’articolo 366 c.p.c., n. 6, i documenti indicati nel corpo del ricorso come da relativo indice”.
Si rinvia in tal modo a tale indice e, quindi, ad un atto esterno al ricorso.
In tal modo, pero’, non si comprende come l’indicazione nel ricorso possa ritenersi specifica: essa rinvia ad altro atto proprio per consentire la percezione di dove gli atti sarebbero stati prodotti, ma, in tal modo, suppone che la Corte debba ricercare in esso e nell’indice la corrispondenza dell’atto per come oggetto dei motivi ad una delle indicazioni di detto elenco. Ne segue che dal ricorso, come prescrive l’articolo 366 c.p.c., n. 6, anche per gli atti processuali, come eventuali consulenze tecniche, se puo’ dirsi che emerga per effetto di tale formula di chiusura una indicazione di dove gli atti stessi sarebbero rinvenibili, si tratta di una indicazione non specifica, ma generica, che dunque non sembra rispettosa del requisito di cui alla norma in discorso.
Requisito che, si badi Cass. sez. un. n. 22726 del 2011, se, a proposito degli atti processuali e segnatamente di quelli che debbono stare nel fascicolo d’ufficio, ha ammesso che il requisito di cui all’articolo 369 c.p.c., comma 2, n. 4, sia adempiuto anche valendosi della presenza di essi nel fascicolo d’ufficio, ha sottolineato che resta fermo il requisito della indicazione specifica di cui all’articolo 366 c.p.c., n. 6.
p.8.4. Il Collegio, peraltro, rileva che, se anche il motivo superasse la causa di inammissibilita’ ex articolo 366 c.p.c., n. 6, l’esame delle argomentazioni con cui e’ svolto, ne paleserebbe l’inidoneita’ a giustificare la cassazione della sentenza di prime cure e, dunque, l’infondatezza.
Queste le ragioni.
Il motivo e’ prospettato in modo assolutamente ondivago, innanzitutto perche’ alla prospettazione, enunciata a pagina 39, che si sarebbe addossato alla ricorrente, pur nella cornice della responsabilita’ contrattuale, la prova dell’inesistenza del nesso causale, segue alla pagina 40 quella che sembrerebbe dolersi, evocando l’articolo 1218 c.c., che si sarebbe addossato alla ricorrente l’onere di fornire la prova dell’inadempimento e, quindi, tra la chiusura della stessa pagina e l’inizio della pagina seguente, l’evocazione di un principio di diritto – quello affermato da Cass. n. 10743 del 2009 – secondo cui graverebbe sul danneggiato la prova secondo un nesso di probabilita’ che se l’opera dei sanitari fosse stata correttamente prestata avrebbe evitato il danno: dunque il motivo oscilla tra l’addebitare alla sentenza di avere riconosciuto una responsabilita’ addossando alla ricorrente l’onere della prova della mancanza di nesso di causalita’ e l’addebitarle di avere riconosciuto una responsabilita’ senza prova da parte dei danneggiati dell’inadempimento.
Anche a voler dare prevalenza ai due punti nei quali si evoca il problema del nesso causale, si deve, poi, rilevare che l’illustrazione del motivo non si fa carico dell’intera motivazione enunciata dal Tribunale ai fini del riconoscimento della responsabilita’ e, quindi, del nesso causale, siccome esposta dalla meta’ della terza pagina sino ad un terzo della sesta, ma evoca cinque righe di essa alla quinta pagina e, quindi, sette righe della sesta pagina, senza preoccuparsi di quanto supporta il complessivo ragionamento del Tribunale di cui quelle righe fanno parte.
In particolare, nell’esplicitare la critica ai due brani di motivazione, si evocando due brani del “secondo elaborato peritale” che sono relativi esclusivamente al profilo di responsabilita’ dei sanitari sotto il profilo causale afferente alla mancata monitorizzazione continua del feto in funzione della scoperta dello stato di sua sofferenza fetale, ma ci si dimentica completamente che la sentenza del Tribunale: a) non solo ha osservato che, “pur volendo dare rilevanza alle incertezze rilevate dalla convenuta, cio’ non puo’ portare alla negazione del nesso di causalita’ tra l’omissione dedotta ed i danni lamentati” ed ha, quindi, evocando Cass. sez. un. n. 577 del 2008 in chiusura della pagina quattro e per oltre meta’ della pagina cinque, spiegato il perche’; b) ma ha anche osservato di seguito che: “le eccezioni che precedono cioe’ quella concernente la valutazione di incidenza causale del comportamento di mancato monitoraggio cosi’ come formulate dalla convenuta perdono rilievo sotto il profilo dell’accertamento della propria responsabilita’ nel momento in cui l’efficienza causale del contestuale omesso tracciato continuo si devaluta alla stregua dell’esame condotto dai c.t.u. che hanno rilevato l’ulteriore colpevole comportamento omissivo dei sanitari che ha concorso in maniera determinante a cagionare i danni a (OMISSIS). Trattasi del tempo intercorrente (rectius ritardo) tra la scoperta della sofferenza fetale, alle 13 e 51 e “l’espulsione” del feto per il quale si e’ inspiegabilmente e colposamente atteso fino alle 14 e 23. Non bastasse, le operazioni di intubazione della nascitura nata in stato di insufficienza respiratoria neppure sono state condotte nella immediatezza della nascita avendosi dovuto attendere l’arrivo del Dott. (OMISSIS) (specialista) chiamato di urgenza in sala parto. Su tale ulteriore comportamento in contrasto con le leges artes la convenuta non ha specificamente contro dedotto”.
E’ solo dopo tale articolata osservazione che il Tribunale ha concluso il giudizio sul nesso causale con le sette righe evocate nel motivo e risultanti alla pagina sei della sentenza.
Ne segue che il motivo, quand’ anche fosse giudicato ammissibile, sarebbe del tutto inidoneo a giustificare la cassazione perche’ pretende di ignorare l’effettivo complessivo ragionamento del Tribunale i ordine alla valutazione di sussistenza del nesso causale.
In pratica finisce per essere privo di correlazione alla effettiva motivazione della sentenza impugnata, tanto che lo si potrebbe dire inammissibile anche per tale ragione alla strega del principio di diritto di cui a Cass. n. 359 del 2005, seguita da numerose conformi.
E’, poi, appena il caso di rilevare che la considerazione del complessivo ragionamento non si rinviene nelle argomentazioni svolte con i primi due motivi di ricorso fatti valere contro l’ordinanza ai sensi dell’articolo 348 ter c.p.c., che a pagina 35, prima di esporre i due motivi contro la sentenza di primo grado, si sono dette identiche, sull’assunto della sovrapponibilita’ delle due motivazioni. Anche quei motivi e, i particolare il secondo, omettono quella considerazione, onde nemmeno per relationem il motivo in esame potrebbe superare i rilievi qui da ultimo svolti.
p.8.5. Il ricorso contro la sentenza di primo grado e’, conclusivamente, rigettato.
p.9. L’assoluta novita’ delle questioni esaminate integra le gravi ed eccezionali ragioni, di cui all’articolo 92 c.p.c., comma 2, per compensare le spese del giudizio di cassazione, il che assorbe l’istanza ai sensi dell’articolo 96 c.p.c., dei resistenti.
P.Q.M.
La Corte
dichiara inammissibile il ricorso contro l’ordinanza ai sensi dell’articolo 348 ter c.p.c. della Corte d’Appello di Torino. Rigetta il ricorso contro la sentenza del Tribunale di Novara. Compensa le spese del giudizio di cassazione. Ai sensi del Decreto del Presidente della Repubblica n. 115 del 2002, articolo 13 comma 1 quater, si da atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso articolo 3, comma 1 bis.

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