assegno divorzile

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONE VI

SENTENZA 8 gennaio 2016, n. 535

Ritenuto in fatto

Con provvedimento del 25 settembre 2014, in parziale riforma dell’impugnata sentenza del Tribunale di Udine del 20 aprile 2011, la Corte d’appello di Trieste, concesse le circostanze attenuanti generiche, ha rideterminato la pena inflitta a M.A. in quella di mesi due di reclusione ed Euro 200 di multa, in ordine al reato di cui all’art. 570, comma 2, cod. pen. (in detti termini riqualificata già dal primo giudice l’originaria contestazione ex art. 12-sexies L. n.898/1970, sub capo 1) della rubrica), nel contempo sostituendo la pena detentiva inflitta per detto reato con quella pecuniaria di Euro 2280, e la pena detentiva per i reati di ingiuria e lesioni sub capi 2) e 3) con la pena pecuniaria di Euro 500 di multa.

1.1. Dopo avere fato atto delle doglianze mosso nell’appello, la Corte territoriale ha posto in evidenza, quanto al capo 1), che la corresponsione una tantum di Euro 400, l’erogazione di somme direttamente ai figli a titolo di liberalità ed il consenso prestato a che moglie e figli abitassero nella casa intestata ad entrambi non possono supplire alla corresponsione sistematica delle somme cui il genitore è tenuto; che lo stato di bisogno dei minori è presunto e non è superato dalla circostanza che i figli siano affidati al servizio sociale o assistiti da istituti; che, quanto al capo 2), è integrato il dolo dell’ingiuria, almeno nella forma eventuale; che, quanto al capo 3), non è ravvisabile nella specie la legittima difesa; che, nondimeno, sono applicabili le circostanze attenuanti generiche e sostituibile la pena detentiva con la pena pecuniaria.

Avverso la sentenza ha presentato ricorso l’Avv. Denisa Pitton, difensore di fiducia del M. , e ne ha chiesto l’annullamento per i seguenti motivi:

2.1. violazione di legge e vizio di motivazione in relazione all’art. 12-sexies L. n. 898/1970, per avere il giudice di primo grado, esclusa la valenza della sentenza straniera nell’ordinamento italiano, riqualificato il fatto ai sensi dell’art. 570, secondo, cod. pen., in assenza di una specifica contestazione in tale senso;

2.2. violazione di legge e vizio di motivazione in relazione all’art. 570, secondo comma, cod. pen., per avere la Corte omesso di considerare, per un verso, come, nonostante la parziale mancata corresponsione dell’assegno di mantenimento, non siano mai mancati ai figli i mezzi di sussistenza, avendo la stessa coniuge riconosciuto nel corso della deposizione che l’imputato aveva provveduto alle spese scolastiche, mediche e sportive dei figli nonché alle ricariche dei loro telefoni cellulari, con ciò soddisfacendo le loro esigenze primarie; per altro verso, come, nel periodo in contestazione, l’imputato avesse subito un grave infortunio sul lavoro, che – come documentato – gli aveva impedito di lavorare;

2.3. vizio di motivazione in relazione all’elemento soggettivo del reato di cui all’art. 570, secondo comma, cod. pen., per avere il Collegio d’appello ritenuto provato il dolo del reato, pur a fronte del parziale adempimento dell’obbligo di mantenimento verso i figli;

2.4. violazione di legge e vizio di motivazione in relazione all’art. 594 cod. pen., per avere la Corte ritenuto integrato il reato sebbene l’imputato avesse apostrofato la moglie con l’epiteto offensivo (‘stupida’) allorché ella era chiusa in bagno per fare la doccia e non aveva pertanto potuto percepire l’offesa;

2.5. violazione di legge e vizio di motivazione in relazione all’art. 582 cod. pen., per avere il Giudice di secondo grado escluso gli estremi della legittima difesa putativa, avendo M. agito nell’intento di difendersi anziché di impedire alla moglie di riappropriarsi della collana che egli teneva al collo;

2.6. vizio di motivazione in relazione alla quantificazione della pena, per avere il Collegio d’appello trascurato di considerare che l’inottemperanza agli obblighi si era protratta per soli due mesi, nei quali l’imputato aveva comunque fatto fronte al pagamento di alcune spese dei minori.

Considerato in diritto

Il ricorso è fondato per le ragioni che seguono.

È destituito di fondamento il primo motivo, con il quale il ricorrente si duole del fatto che la Corte d’appello abbia ritenuto legittima la riqualificazione giuridica, ad opera del primo giudice, del fatto di cui al capo 1) dall’ipotesi originariamente contestata di cui all’art. 12-sexies L. n. 898/1970 a quella di cui all’art. 570, secondo comma, cod. pen..

Ed invero, secondo l’insegnamento di questo Supremo Collegio, ai fini della valutazione della corrispondenza tra pronuncia e contestazione di cui all’art. 521 cod. proc. pen. si deve tenere conto, non solo del fatto descritto in imputazione, ma anche di tutte le ulteriori risultanze probatorie portate a conoscenza dell’imputato e che hanno formato oggetto di sostanziale contestazione, sicché questi abbia avuto modo di esercitare le proprie difese sull’intero materiale probatorio, posto a fondamento della decisione (Cass. Sez. 3, 27/2/2008, Fontanesi, Rv. 239866; Sez. 6, n. 47527 del 13/11/2013 – dep. 29/11/2013, Di Guglielmi Rv. 257278). Se il ‘fatto’ va definito come l’accadimento di ordine naturale, dalle cui connotazioni e circostanze soggettive ed oggettive, di luogo e di tempo, poste in correlazione fra loro, vengono tratti gli elementi caratterizzanti la sua qualificazione giuridica, la violazione del principio di correlazione si realizza e si manifesta solo attraverso un’alterazione consistente ed una trasformazione radicale della fattispecie concreta, nei suoi elementi essenziali, che non consenta di rinvenire un nucleo comune, identificativo della condotta, con il risultato di un rapporto di incompatibilità ed eterogeneità, tra il fatto contestato e quello accertato, capace di creare un vero e proprio stravolgimento dei termini dell’accusa, a fronte del quale si verifica un pregiudizio, concreto e reale, dei diritti della difesa (Cass., Sez. 2, 45993/2007, Cuccia, Rv. 239320).

A fronte della riqualificazione giuridica del fatto, con la sentenza di primo grado, e della specifica contestazione mossa al riguardo nell’atto d’appello, la Corte territoriale ha escluso la violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza, evidenziando come l’imputato, assistito dal difensore fiduciario, avesse accettato il contraddittorio instauratosi a seguito della escussione dibattimentale della moglie, nel corso della quale ella aveva appunto riferito che il marito aveva fatto mancare i mezzi di sussistenza ai figli, all’epoca, rispettivamente di 16 e 12 anni d’età.

La motivazione svolta sul punto dal Collegio di merito risulta congrua e scevra da illogicità manifesta, là dove pone in luce le ragioni per le quali il Giudice distrettuale abbia ritenuto che l’imputato avesse una compiuta conoscenza di tutti i termini della contestazione, sia formale sia ‘sostanziale’, così da poter esercitare appieno la difesa in relazione all’intero themaprobandum, con particolare riguardo alla circostanza di fatto – ulteriore rispetto a quella oggetto di originaria contestazione – rappresentata dall’avere fatto mancare ai figli i mezzi di sussistenza, su cui appunto si è incentrata la condanna ex art. 570, secondo comma n. 2, cod. pen..

A ciò si aggiunga che proprio su tale circostanza – id est ‘l’aver fatto mancare i mezzi di sussistenza’ – si è incentrato uno dei motivi d’appello (e poi di ricorso per cassazione), il che dimostra per tabulas come l’imputato fosse in concreto edotto anche di tale aspetto della contestazione, tanto da promuovere sul punto il vaglio dei giudici dell’impugnazione di merito.

Colgono di contro nel segno le censure con le quali il ricorrente deduce la violazione di legge ed il vizio di motivazione in ordine alla ritenuta integrazione del reato di cui all’art. 570, comma secondo n. 2, cod. pen. Lamenta, in particolare, il ricorrente la mancata valutazione da parte della Corte territoriale delle circostanze dedotte in sede di appello concernenti la corresponsione alla coniuge di alcune rate dell’assegno e di diverse somme ai fini della copertura di parte delle spese per il mantenimento dei figli nonché la messa a disposizione dell’alloggio coniugale, facendo fronte al pagamento delle rate del mutuo ipotecario.

Mette conto porre in rilievo che, mentre ai fini della integrazione fattispecie di cui all’art. 12-sexies L. n. 898/1970 è sufficiente dimostrare la volontaria sottrazione all’obbligo di corresponsione dell’assegno determinato dal tribunale e non occorre, quindi (come riconosciuto dalla Corte costituzionale con sentenza n. 472 del 1989), che dall’inadempimento consegua anche il ‘far mancare i mezzi di sussistenza’, tale elemento risulta invece necessario ed ineludibile ai fini della integrazione della figura criminosa prevista dall’art. 570 comma secondo, n. 2, cod. pen..

Ne discende che la riqualificazione giuridica del fatto dal delitto originariamente contestato di cui al citato art. 12-sexies a quello dell’art. 570, secondo comma, cod. pen. – pur legittima in quanto compiuta senza alcuna violazione del principio sancito nell’art. 521 cod. proc. pen. – avrebbe nondimeno imposto un’accurata verifica dei giudici di merito circa la sussistenza dei presupposti fattuali della nuova fattispecie ravvisata.

Ed invero, il reato previsto dall’art. 570, secondo comma n. 2, cod. pen. ha come presupposto necessario l’esistenza di un’obbligazione alimentare ai sensi del codice civile, ma non assume carattere meramente sanzionatorio del provvedimento del giudice civile nel senso che l’inosservanza anche parziale di questo importi automaticamente l’insorgere del reato, di tal che, per configurare l’ipotesi delittuosa in esame, occorre che gli aventi diritto all’assegno alimentare versino in stato di bisogno, che l’obbligato ne sia a conoscenza e che lo stesso sia in grado di fornire i mezzi di sussistenza.

Difatti, come questa Corte ha avuto modo anche di recente di ribadire, ai fini della configurabilità del reato previsto dall’art. 570, comma secondo, n. 2, cod. pen., nell’ipotesi di corresponsione parziale dell’assegno stabilito in sede civile per il mantenimento, il giudice penale deve accertare se tale condotta abbia inciso apprezzabilmente sulla disponibilità dei mezzi economici che il soggetto obbligato è tenuto a fornire ai beneficiari, tenendo inoltre conto di tutte le altre circostanze del caso concreto, ivi compresa la oggettiva rilevanza del mutamento di capacità economica intervenuta, in relazione alla persona del debitore, mentre deve escludersi ogni automatica equiparazione dell’inadempimento dell’obbligo stabilito dal giudice civile alla violazione della legge penale (Sez. 6, n. 159898 del 04/02/2014 – dep. 09/04/2014, S. Rv. 259895).

Di tali principi non ha adeguatamente tenuto conto il Collegio di merito, che ha omesso esplicitare, giusta le specifiche deduzioni difensive, le ragioni obbiettive sulla scorta delle quali abbia ritenuto provato che M. facesse mancare i ‘mezzi di sussistenza’ ai figli, da valutare in rapporto alle reali capacità economiche e al regime di vita personale del soggetto obbligato, ai fini del – sia pur contenuto – soddisfacimento del ‘minimo vitale’ e delle altre complementari esigenze della vita quotidiana (quali, ad es., abbigliamento, libri di istruzione per i figli minori, mezzi di trasporto, mezzi di comunicazione).

La motivazione del provvedimento è insoddisfacente anche sotto il profilo dell’elemento soggettivo, sul quale si era incentrato uno specifico motivo d’appello.

Ed invero, ribadito che il reato de quo richiede il mero dolo generico e non un dolo specifico, il Giudice di secondo grado avrebbe dovuto indagare, lasciandone circostanziata traccia nella motivazione, se – nel momento in cui provvedeva ad un adempimento solo parziale dell’obbligazione alimentare, sosteneva talune spese dei figli e lasciava a loro ed alla ex coniuge la disponibilità dell’alloggio familiare – M. avesse coscienza e volontà di erogare ai propri figli mezzi di sussistenza insufficienti.

Sono fondate anche le censure che riguardano l’integrazione del reato di ingiuria.

Secondo la contestazione, l’offesa alla persona si sarebbe sostanziata nell’avere M. , nel corso di una conversazione telefonica con la nuova moglie, bollato l’ex coniuge con l’epiteto di ‘stupida’.

Secondo i principi affermati da questa Corte regolatrice, al fine dell’accertamento dell’idoneità dell’espressione utilizzata a ledere il bene protetto dalla fattispecie incriminatrice di cui all’art. 594 cod. pen., occorre fare riferimento ad un criterio di media convenzionale in rapporto alle personalità dell’offeso e dell’offensore nonché al contesto nel quale detta espressione sia pronunciata; nel contempo è necessario considerare che l’uso di un linguaggio meno corretto, più aggressivo e disinvolto di quello in uso in precedenza è accettato o sopportato dalla maggioranza dei cittadini determinando un mutamento della sensibilità e della coscienza sociale (Sez. 5, n. 50969 del 16/09/2014 – dep. 04/12/2014, F, Rv. 261310).

Sulla scorta dei principi appena esposti, ritiene il Collegio che l’espressione ‘stupida’, rivolta all’indirizzo della persona offesa, in un contesto di conflittualità tra coniugi, non possa ritenersi determinare automaticamente la lesione del bene tutelato dall’art. 594 cod. pen., non concretandosi necessariamente in un giudizio di disvalore sulle qualità personali del destinatario: si tratta invero di termine ormai frequentemente utilizzato nel linguaggio comune, anche dei minori, e che può ritenersi assumere valenza offensiva soltanto allorché sia inserito in un contesto che esprima, senza possibilità di equivoci, disprezzo e disistima verso a vittima. Contesto siffatto che non risulta essere stato adeguatamente rappresentato nel passaggio argomentativo della pronuncia dedicato a tale imputazione, là dove – secondo la ricostruzione dei fatti compiuta dai giudici della cognizione – l’espressione veniva utilizzata dal M. non in una comunicazione diretta con la persona offesa, bensì in una conversazione con una terza persona allorquando la presunta vittima si trovava chiusa nella stanza da bagno, dunque in una situazione nella quale la stessa non ha, ragionevolmente, potuto cogliere appieno il contesto complessivo del discorso nell’ambito del quale l’espressione veniva spesa e di apprezzarne l’effettiva valenza ingiuriosa.

Ad ogni modo, la Corte non ha adeguatamente argomentato la configurabilità del dolo, seppure nella forma eventuale.

Ricorre invero il dolo eventuale quando chi agisce si rappresenta come seriamente possibile, sebbene non certa, l’esistenza dei presupposti della condotta, ovvero il verificarsi dell’evento come conseguenza dell’azione e, pur di non rinunciare ad essa, accetta che il fatto possa verificarsi, decidendo di agire comunque. Parametri non tenuti in adeguata considerazione dal Giudice d’appello allorché ha ritenuto integrato il dolo quantomeno eventuale nella condotta dell’agente che spendeva l’espressione in ipotesi offensiva, nel corso di una conversazione telefonica intercorsa con altri, nel mentre nell’alloggio ‘non grande’ si trovava la persona attinta dalla parola ingiuriosa, avendo egli accettato il rischio che quest’ultima potesse cogliere l’epiteto offensivo, in quanto evento non ‘improbabile o del tutto inverosimile’. Tale ragionamento, nondimeno, non si confronta con la specifica deduzione difensiva secondo la quale, al momento, la persona offesa si trovava non – genericamente – in un’altra stanza, ma chiusa in bagno a fare la doccia, in una situazione nella quale non può dirsi rispondere ad una comune massima d’esperienza che sia ‘probabile’ o ‘verosimile’ che taluno possa cogliere il senso della conversazione telefonica che altri stia facendo al telefono, sì da poterne percepire i contenuti offensivi.

Sono fondati anche i motivi riguardanti la restante imputazione per il reato di lesioni.

In linea generale, deve essere premesso che, secondo il costante insegnamento di questo Supremo Collegio, l’accertamento relativo alla scriminante della legittima difesa reale o putativa e dell’eccesso colposo deve essere effettuato con un giudizio ex ante calato all’interno delle specifiche e peculiari circostanze concrete che connotano la fattispecie da esaminare, secondo una valutazione di carattere relativo e non assoluto ed astratto, rimessa al prudente apprezzamento del giudice di merito, cui spetta esaminare, oltre che le modalità del singolo episodio in se considerato, anche tutti gli elementi fattuali antecedenti all’azione che possano aver avuto concreta incidenza sull’insorgenza dell’erroneo convincimento di dover difendere sé o altri da un’ingiusta aggressione, senza tuttavia che possano considerarsi sufficienti gli stati d’animo e i timori personali (Sez. 1, n. 13370 del 05/03/2013 – dep. 21/03/2013, R., Rv. 255268).

Nell’escludere la ravvisabilità nella specie dell’esimente della legittima difesa, anche in via putativa, la Corte ha valorizzato lo squilibrio di forze fra l’imputato e la vittima, il valore affettivo dell’ornamento che la donna intendeva recuperare e la natura della lesione a lei inferta dall’imputato, sostanziatasi in un morso ad una mano, e tuttavia non ha dato conto del contesto complessivo dell’azione nel quale si inseriva la condotta aggressiva ed, in particolare, della condotta in concreto serbata dalla vittima, sì da poter apprezzare la ravvisabilità della invocata scriminante. Ed invero, la circostanza – valorizzata dalla Corte – che la ex – moglie intendesse riappropriarsi di una collana d’oro che M. portava al collo, in quanto avente implicazioni sentimentali, rende ragione del movente del comportamento serbato dalla donna prima di essere colpita, ma non chiarisce quale sia stato in concreto detto comportamento ed, in particolare, se ella – ferma detta finalità dell’agire – abbia o meno posto in essere un’aggressione fisica in danno del M. e, se sì, di quale entità, là dove l’azione di strappare una collana dal collo ha riverberi non solo di natura economica, ma – contrariamente a quanto argomentato dalla Corte territoriale (a pagina 6 della sentenza) – anche sul piano della lesione alla propria incolumità personale, vista la delicatezza della parte interessata e le abrasioni o i tagli da violento sfregamento provocabili nell’operazione di strappo.

Né la causa di giustificazione di cui all’art. 52 cod. pen. può ritenersi correttamente denegata sul presupposto che ‘l’intendimento del M. era semplicemente quello di impedire alla ex-moglie di riappropriarsi della collana e, dunque, di difendere un bene di natura patrimoniale’.

In considerazione dell’ampiezza dell’espressione un ‘diritto proprio’, la difesa legittima può infatti essere ravvisata anche a protezione dei diritti patrimoniali, che possono essere legittimamente difesi anche con atti violenti a condizione che sussista la proporzione e che quel comportamento costituisca l’unico mezzo per impedire l’aggressione al patrimonio e non rappresenti, invece, l’attuazione di una ritorsione (Cass. Sez. 1, n. 45407 del 10/11/2004 -dep. 23/11/2004, Podda Rv. 230392).

La sentenza impugnata deve pertanto essere annullata con rinvio ad altra sezione della Corte d’Appello di Trieste per nuovo giudizio.

P.Q.M.

annulla la sentenza impugnata e rinvia ad altra sezione della Corte d’Appello di Trieste per nuovo giudizio.

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