Cassazione 4

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONE VI

SENTENZA 30 gennaio 2015, n. 4584

Ritenuto in fatto

 
1. Con la sentenza impugnata il Tribunale di Novara ha dichiarato non doversi procedere nei confronti di I.F. in ordine al reato di lesioni personali aggravate (artt. 582, 61 n. 9 cod. pen.) perché estinto per intervenuta remissione della querela, dichiarando ivi assorbito il concorrente reato di abuso d’ufficio (art. 323 cod. pen.), parimenti contestato all’imputato nella sua qualità di Agente della Polizia di Stato, per avere sottoposto a maltrattamenti e violenze tre ragazzi, tratti in arresto in flagranza di reato in occasione di incidenti di piazza e poi condotti presso la Questura di Novara.
Previa analitica disamina del compendio probatorio, poggiante in parte preponderante, ancorché non esclusiva, sulle dichiarazioni delle parti offese, il Tribunale ha però preso atto della volontà di quest’ultime di rimettere le querele proposte, adottando le conseguenti determinazioni in ordine al reato di lesioni, pur qualificato aggravato ai sensi dell’art. 61 n. 9 cod. pen..
Quanto all’abuso d’ufficio, il Tribunale ha osservato che, in forza del suo carattere residuale ed in applicazione del principio di specialità di cui all’art. 15 cod. pen., deve escludersi la possibilità di un concorso formale con i più gravi reati di lesione personale e violenza privata, entrambi aggravati ai sensi dell’art. 61 n. 9 cod. pen., dal momento che la condotta del pubblico ufficiale attuata in violazione di una norma penale non integra il reato de quo ma quello previsto dalla specifica norma, mentre l’abuso dei poteri o la violazione dei doveri inerenti alla pubblica funzione, con cui quella condotta è attuata, configurano la citata aggravante.
Detto altrimenti, in tali casi (es. lesioni o percosse) l’evento della condotta antigiuridica non costituisce nulla di diverso rispetto alla fattispecie tipica realizzata, così che il comportamento di abuso d’ufficio viene interamente assorbito ed esaurito in quelle fattispecie, che si pongono come lex specialis rispetto all’art. 323 cod. pen..
2. Avverso la sentenza ha proposto ricorso immediato per cassazione il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Novara deducendo violazione della legge penale sotto due profili:
a) dato atto delle pronunzie di legittimità nei termini indicati dal Tribunale, la clausola di sus-sidiarietà contenuta nell’art. 323 cod. pen. (“salvo che il fatto non costituisca più grave reato”) rappresenta in realtà una limitazione del principio di specialità, il quale non opererebbe non solo nel concorso di reati meno gravi o di pari gravità come nel caso delle lesioni aggravate ex art. 61 n. 9 cod. pen., bensì in tutti i casi in cui la tutela penale fornita da detta previsione normativa si rivela più adeguata di quella assicurata da altre ipotesi di reato, poiché espressamente posta a salvaguardia del bene giuridico protetto (correttezza dell’operato del pubblico agente);
b) in tutti i casi in cui il reato di cui agli artt. 582, 61 n. 9 cod. pen. assorbe quello di abuso d’ufficio, la condotta attuata dal pubblico ufficiale che se ne renda responsabile è in realtà finalisticamente orientata ad eludere norme volte a garantire la correttezza del suo operato, integrando l’ulteriore aggravante del nesso teleologia) di cui all’art. 61 n. 2 cod. pen., che in forza del combinato disposto degli art. 582, 585 e 576 n.l cod. pen. rende quello di lesioni procedibile d’ufficio.
 

Considerato in diritto

 
1. Il ricorso è fondato e merita accoglimento.
2. Il tema dei rapporti tra il reato di abuso d’ufficio e quello di lesioni personali ha già costituto oggetto di diverse decisioni da parte di questa Corte regolatrice.
Esso è stato, in genere, risolto nel senso dell’assorbimento del delitto di cui all’art. 323 cod. pen. in quello di cui all’art. 582 cod. pen., il quale, ove sussista funzionalizzazione dell’una violazione rispetto alla verificazione dell’altra e ricorrenza del nesso teleologia) di cui all’art. 61 n. 2 cod. pen., risulta aggravato ai sensi dell’art. 61 n. 9 cod. pen. (Sez. 3, sent. n. 25709 del 14/02/2011, Battaglia e altri, Rv. 250597; Sez. 6, sent. n. 42801 del 07/10/2008, Zaranto-nello, Rv. 42801; Sez. 6, sent. n. 49536 dell’01/10/2003, Donno, Rv. 228859; Sez. 6 sent. n. 2974 del 13/12/2007, Guerriero, Rv. 238410).
Si è anche ritenuto che l’assorbimento del reato di abuso d’ufficio in quello di lesioni, se impedisce la possibilità di valutarlo ai fini sanzionatori, non esclude l’esistenza della violazione del valore protetto dalla norma costituito dal buon andamento della P.A. e non ne elide, pertanto, la connessione (teleologica) con reato il perseguibile a querela, che diviene perciò perseguibile d’ufficio (Sez. 3, sent. n. 25709/11, Battaglia cit.; Sez. 3 sent. n. 3897 del 12/06/1975, Matrone, Rv. 132886 e in tema di perseguibilità di delitti di violenza sessuale ove connessi con reati procedibili d’ufficio, Sez. 3 sent. n. 11263 del 29/01/ 2008, B., Rv. 238523).
3. Rispetto a tale punto della decisione impugnata, oggetto di specifica doglianza formulata dal PM ricorrente, occorre allora registrare – anche solo in base alla giurisprudenza citata – la contraddittorietà della statuizione del Tribunale che ha ritenuto perseguibile a querela il reato di lesioni personali aggravate ai sensi dell’art. 61 n. 9 cod. pen., dal momento che la sussistenza di tale aggravante è stata affermata proprio a motivo del ritenuto assorbimento in esso di quello di abuso d’ufficio e quindi in ragione della funzionalizzazione dell’una violazione rispetto alla verificazione della altra, come tale integrante la sussistenza del nesso teleologia) di cui all’art. 61 n.2 cod. pen. che ne determina a sua volta la perseguibilità d’ufficio ai sensi del combinato disposto degli artt. 582 comma 2, 585 comma 1 seconda ipotesi e 576 n. 1 cod. pen..
4. Questo Collegio ritiene, tuttavia, suscettibile di revisione critica anche la tesi dell’assorbimento del delitto di abuso d’ufficio in quello di lesioni personali e ciò in consapevole dissenso rispetto agli approdi interpretativi di cui alla giurisprudenza sopra richiamata.
È stato, infatti, affermato che “il delitto di abuso di ufficio si caratterizza per essere un reato il cui oggetto giuridico va individuato nell’interesse a che la persona investita di una pubblica funzione o di un servizio pubblico, nel compimento di atti o di comportamenti relativi al proprio servizio o funzione, assicuri il normale funzionamento dell’amministrazione, esercitando le proprie funzioni nel rispetto delle norme di legge o di regolamento; con la conseguenza che è proprio l’ingiustizia dell’evento danno o vantaggio patrimoniale – intenzionalmente cagionato mediante violazione di norme di legge o di regolamento – ad attribuire rilevanza penale alla condotta dell’agente. Qualora, invece, il comportamento del pubblico ufficiale si concretizzi nella violazione di una norma penale generale diretta a sanzionare chiunque commetta il fatto da essa previsto (es. percosse, lesioni, minacce, ingiuria), si configura unicamente tale ipotesi di reato, eventualmente aggravata dall’art. 61 c.p., n. 9, quando il fatto è stato commesso anche con l’abuso dei poteri o con violazione dei doveri inerenti alla funzione pubblica esercitata. In tal caso, infatti, l’evento della condotta contra ius non costituisce alcunché di ulteriore rispetto alla fattispecie tipica realizzata e il comportamento di abuso è assorbito ed esaurito in questa ultima fattispecie, che si pone come lex specialis rispetto a quella di cui all’art. 323 c.p.” (Sez. 6 sent. n. 42801/08, Zarantonello cit. e Sez. 6 sent. n. 3413 del 18/01/1996, Geracetano, Rv. 204497 in tema di rapporti con il delitto di perquisizione arbitraria di cui all’art. 609 cod. pen.).
Tuttavia, la tesi dell’esistenza di un rapporto di specialità tra il delitto di abuso d’ufficio e quelli sopra considerati, non convince poiché non tiene nel dovuto conto che uno dei criteri utilizzati dalla giurisprudenza di legittimità ai fini della risoluzione dei casi di concorso apparente di norme rispetto alla medesima fattispecie concreta consiste nell’individuazione dell’oggettività giuridica ovvero del bene protetto dalle norme potenzialmente applicabili, la cui identità (“stessa materia” di cui all’art. 15 cod. pen.) viene in genere ritenuta condizione ulteriore per il dispiegarsi del principio di specialità tra norme astrattamente concorrenti.
Secondo una recente pronunzia di questa stessa Corte di Cassazione, infatti, è proprio l’og-gettività giuridica dei reati considerati a fungere da criterio guida per stabilire la natura dei rapporti tra loro intercorrenti e quando essa sia diversa sussiste il concorso materiale e non già l’assorbimento tra gli illeciti poiché offendono beni giuridici distinti (Sez. 2 sent. n. 5546 dello 11/12/2013, Cuppari, RV. 258205 in tema di falso ideologico in atto pubblico e abuso di ufficio), tesi affermata in contrasto rispetto a più risalenti decisioni di segno opposto (Sez. 2 sent. n. 1417 dell’11/10/2012, PC in proc. Platamone e al., Rv. 254304; Sez. 6 sent. n. 42577 del 22/09/2009, Fanuli, Rv. 244944; Sez. 5 sent. n. 45225 del 09/11/2005, Bernardi, Rv. 232724).
Non è, tuttavia, soltanto in base al criterio della differente oggettività giuridica che questo Collegio ritiene debba escludersi l’applicazione di un rapporto di specialità tra i delitti di abuso d’ufficio e quello di lesioni personali o l’assorbimento del primo nel secondo.
Infatti, il presupposto assunto, ancorché non esplicitato, dalla giurisprudenza sopra richiamata per affermare la tesi dell’assorbimento dell’abuso d’ufficio nel reato di lesioni personali è che il parametro di legalità necessario a stabilire la sussistenza del reato di cui all’art. 323 cod. pen. non possa individuarsi in una norma penale generale “diretta a sanzionare chiunque commetta il fatto da essa previsto” quali nel caso considerato percosse, lesioni, minacce, ingiuria, etc. (Sez. 6 n. 42801/08, Zarantonello cit.).
La tesi non è condivisibile.
Come, invece, affermato in altra decisione assunta da questa Corte regolatrice, non sussiste alcun ostacolo di carattere letterale né di ordine logico a che possa fungere da parametro normativo di riferimento dell’art. 323 cod. pen. – al fine di stabilirne la violazione e l’illegittimità dell’operato del pubblico agente – una norma di legge di per sé integrante illecito di carattere penale (Sez. 6 sent. n. 20025 del 13/02/2014, Castello ed altro non mass., in fattispecie di abuso di ufficio integrato dalla violazione dell’art. 361 cod. pen.), ipotesi che implica unicamente l’evenienza che, in caso di successiva abrogazione o modifica in senso più favorevole al reo della norma di riferimento, trova evidentemente applicazione l’art. 2, comma 4 cod. pen. (v. a contrario Sez. 6 n. 10656 del 15/01/2003, Villani e altro, Rv. 224017 che ha per contro escluso l’applicazione di tale previsione nel caso di norme extrapenali, costituenti il presupposto di fatto per l’integrazione del delitto, da valutare esclusivamente con riferimento al relativo contenuto al tempo della commissione del reato).
Né rappresenta ostacolo alla tesi propugnata, la presenza della clausola di sussidiarietà di cui al comma 1 dell’art. 323 cod. pen. (“salvo che il fatto non costituisca più grave reato”), atteso che, per la sua collocazione anche topografica, essa riguarda chiaramente i soli reati di cui al Titolo II del Libro II del Codice Penale e quindi quelle condotte comunque attuate in violazione di legge, regolamento o dei principi generali di imparzialità e buon andamento dell’attività amministrativa (art. 97 Cost.), tuttavia già sanzionabili in forza di altre e più gravi figure di delitto contro la pubblica amministrazione.
Si è forse persa memoria storica del fatto – offuscata talora dall’omessa massimazione e talaltra dal tenore di massime che nella formulazione necessariamente sintetica non riescono a dare conto dell’intera gamma delle questioni coinvolte – che tale principio è stato chiaramente affermato dalla giurisprudenza di questa Corte, ancorché in pronunce non recentissime.
In particolare, è stato ripetutamente affermato che la clausola di consunzione contenuta nella proposizione iniziale dell’art. 323 c.p. vale non solo in quanto vi sia una completa riproduzione degli elementi costitutivi del reato di abuso in quelli di altra fattispecie penale più grave (Sez. 6 sent. del 03/04/2000, Pianese; Sez. 5 sent. del 01/02/2000, Palmegiani; Sez. 5 sent. del 05/05/1999, Graci, entrambe relative ai rapporti tra abuso e reati di falso), ma anche a condizione che il reato più grave leda la sfera di interessi della pubblica amministrazione, come si desume dal carattere residuale che, nonostante le modifiche intervenute con la legge n. 86 del 1990 e poi con la legge n. 234 del 1997 (e in particolare la trasformazione della clausola di sussidiarietà in clausola di consunzione), riveste ancora il reato di abuso di ufficio nell’ambito dei delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione (Sez. 6 sent. n. 30109 del 30/01/2001, Pusino; Sez. 6 sent. dell’11/04/2000, Righi; Sez. 6 sent. del 20/12/ 1999, Tamburino; Sez. 6 sent. del 03/11/1999, Possamai; Sez. 6 sent. del 07/05/1998, Casiccia).
In altri termini, la funzione residuale storicamente assegnata dal legislatore al reato di cui all’art. 323 c.p. nel panorama delle condotte di abuso dei poteri pubblici, deve ritenersi essere stata mantenuta, sia pure circoscritta al rapporto con i più gravi reati, dalle riforme del 1990 e del 1997 (in esatti termini, Sez. 6 n. 30109 del 30/01/2001 cit.).
5. Deve, per tutto quanto sopra esposto, essere enucleato il seguente principio di diritto: “non si da assorbimento o consunzione del delitto di abuso d’ufficio di cui all’art. 323 cod. pen. in quello di cui all’art. 582 cod. pen., quandoché la condotta del pubblico agente si esaurisca nella mera produzione delle lesioni personali e ricorra tra l due illeciti il nesso teleologico di cui allo art. 61 n. 2 cod. pen., configurandosi invece un rapporto di concorso formale tra i reati, i quali offendono beni giuridici distinti”.
6. All’annullamento della decisione impugnata per saltum consegue, ai sensi dell’art. 569, comma 4 cod. proc. pen., il rinvio alla Corte d’Appello territorialmente competente per il giudizio di secondo grado.
 

P.Q.M.

 
annulla la sentenza impugnata e rinvia alla Corte d’Appello di Torino per il giudizio

 

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