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Suprema Corte di Cassazione 

sezione V

sentenza n. 16697 del 3 luglio 2013

Svolgimento del processo

1. L’Agenzia delle Entrate di Viterbo notificava alla società Ital.Ge.Su. s.r.l. due avvisi di rettifica per le dichiarazioni annuali 1996 e 1997 sulla base delle risultanze di un p.v.c. del 5.7.2001, dal quale era emersa l’inesistenza giuridica della società, costituita al solo scopo di ottenere indebiti rimborsi IVA ed un credito erariale di L. 1.541.854.000 pari all’IVA indebitamente detratta dalla società nel periodo.
2. Precisava che la società si era impegnata a prendere in locazione un complesso immobiliare, a fronte del pagamento di imponenti canoni di locazione, che non avrebbe più potuto ottenere dalle successive sublocazioni, e di notevoli costi di ristrutturazione.
3. La società contribuente proponeva ricorso avverso i due avvisi innanzi alla CTP di Viterbo che li accoglieva.

4. L’Agenzia delle Entrate proponeva appello innanzi alla CTR del Lazio che, con sentenza depositata il 14 settembre 2006, confermava la sentenza di primo grado.
4.1 Evidenziava, in particolare, che l’amministrazione non aveva contestato l’inesistenza delle operazioni commerciali intraprese dalle parti, piuttosto sostenendo che la situazione giuridica della Nuova Immobiliare s.r.l. impediva alla stessa di effettuare attività commerciale, con evidenti conseguenze sull’annotazione delle fatture operata dalla Ital.Ge.Su..
4.2 Precisava, tuttavia, che tale tesi era infondata. Era infatti emerso che la società contribuente era stata costituita il 14 aprile 1995 mentre il contratto di subaffitto concluso con la Nuova Immobiliare s.r.l. – la quale aveva preso in locazione il complesso dalla Leasing Roma s.p.a. il 17.12.1993 – era datato 19 maggio 1995, aggiungendo che la società proprietaria non risultava dal pvc essere riferibile alla famiglia S..
4.3 Aggiungeva che, a parere del Collegio, non poteva essere contestata l’esistenza fisica della società, risultando l’esistenza di delibera sociale che aveva disposto il trasferimento della sede della società in luogo diverso da quello indicato negli avvisi di rettifica, risultando ancora la società, regolarmente iscritta nel registro delle imprese e titolare di partita IVA. 4.4 Aggiungeva che il diritto a detrazione per le fatture emesse nei confronti della Ital.Ge.Su non poteva essere escluso, ad onta di quanto affermato dall’amministrazione in relazione alle perdite della Nuova Immobiliare subite nell’anno 1993, che avevano azzerato il capitale sociale senza che la stessa avesse provveduto a quanto disposto dagli artt. 2747 e 2748 c.c., non prevedendo l’art. 2449 c.c., conseguenze fiscali in caso di operazioni compiute da società sciolta per riduzione di capitale.
5. L’Agenzia delle Entrate ha proposto ricorso per Cassazione affidato a tre motivi, al quale ha resistito la curatela del fallimento della Ital.Ge.su con controricorso. L’Agenzia ha depositato memoria.

Motivi della decisione

6. Con il primo motivo l’Agenzia lamenta la violazione dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4. Evidenzia che la decisione impugnata, nella parte in diritto, era priva di reale motivazione, avendo il giudice di appello riprodotto la motivazione della sentenza di primo grado senza esprimere le ragioni della conferma, peraltro esaminando argomentazioni difensive che l’Agenzia aveva abbandonato in grado di appello.
7. Con il secondo motivo l’Agenzia ha dedotto il vizio di omessa motivazione su un fatto controverso e decisivo per il giudizio, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.
7.1 Lamenta che il giudice di appello aveva omesso di esaminare la doglianza esposta in sede di appello secondo la quale la soggettività ai fini IVA non presupponeva solo l’iscrizione del soggetto nel registro delle imprese o la titolarità della partita IVA, ma il concreto svolgimento di un’attività di impresa.
7.2 In sostanza, il giudice di appello aveva tralasciato di esaminare la questione relativa al carattere elusivo dell’operazione economica svolta dal contribuente, avendo l’Ufficio prospettato che la gestione effettiva della società era orientata al tracollo economico piuttosto che al profitto, tenuto conto dell’enorme carico economico che la società contribuente si era accollato; ciò che elideva il presupposto essenziale contemplato dal D.P.R. n. 633 del 1972, art. 4, per l’attribuzione della qualità di soggetto IVA. 8. Con il terzo motivo l’Agenzia deduce la violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 633 del 1972, artt. 4 e 19, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. Evidenzia la CTR aveva fondato il proprio giudizio su elementi formali – iscrizione nel registro delle imprese e titolarità della partita IVA – senza considerare che il presupposto per il riconoscimento della detrazione IVA era costituito dall’esistenza di un’effettiva attività economica di natura imprenditoriale da parte del contribuente, tenuto conto della giurisprudenza – comunitaria e di questa Corte – formatasi in punto di abuso del diritto, in forza del quale ultimo doveva ritenersi esistente il principio dell’indetraibilità dell’IVA assolta in corrispondenza di comportamenti abusivi, volti a conseguire il solo risultato del beneficio fiscale, senza una reale autonoma regione economica giustificatrice delle operazioni svolte. Ragioni per cui l’analisi compiuta dalla CTR, incentrata sull’esistenza di indici formali, non poteva ritenersi soddisfacente.

9. La curatela del fallimento della Ital.Ge.su. ha dedotto, nel controricorso, l’infondatezza delle censure sottolineando, quanto alla prima, che il giudice di appello aveva compiutamente esposto le ragioni della decisione, confutando le tesi difensive espresse dall’amministrazione.
9.1 Aggiungeva, quanto alle restanti censure, che la CTR aveva preso posizione sul tema esposto dall’Agenzia nell’atto di appello, ritenendo che la società contribuente era a pieno titolo da considerare come soggetto passivo di imposta.
9.2 Evidenziava, ancora, quanto al tema del prospettato abuso del diritto, che lo stesso era rimasto sfornito di prova, avendo documentato tanto l’esistenza dei contratti di locazione con terzi dei locali commerciali posseduti che il trasferimento della sede della società in altro luogo, comunicato nei termini all’amministrazione finanziaria.
9.3 Aggiungeva che già gli avvisi di rettifica erano risultati privi di elementi idonei ad asseverare l’affermazione dell’amministrazione circa la finalità perseguita dalla società di salvaguardare la proprietà dai rischi fallimentari. Peraltro, della stessa lettura degli avvisi era emerso che la società proprietaria del complesso immobiliare era la Leasing Roma per averle acquistata dalla Cosmofin, società quest’ultima riconducibile alla famiglia del Signor S. S. che aveva effettuato una regolare attività speculativa.
Pertanto, la volontà di acquistare, con le forme del contratto di leasing, un importante complesso immobiliare, l’avvio di importanti opere di ristrutturazione e la stipulazione di contratti di locazione dell’immobile prodotti nel giudizio di primo grado denotavano il fine utilitaristico perseguito dalla società, confermando pienamente la presunzione di imprenditorialità contemplata dal D.P.R. n. 633 del 1972, art. 4.
9.4 Del resto, l’introduzione nell’ordinamento di una specifica norma antielusiva – D.Lgs. n. 313 del 1997, aveva escluso detta presunzione solo per talune operazioni commerciali poste in essere da società di comodo, non potendo contestarsi, in assenza di tale disposizione, entrata in vigore l’1.1.1998, la soggettività IVA. 10. Il primo motivo di ricorso è infondato.
10.1 Questa Corte ha più volte avuto modo di ritenere che il vizio di omessa motivazione della sentenza, denunziabile in sede di legittimità ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, quando il giudice di merito ometta di indicare gli elementi da cui ha tratto il proprio convincimento ovvero indica tali elementi senza una approfondita disamina logica e giuridica, rendendo in tal modo impossibile ogni controllo sull’esattezza e sulla logicità del suo ragionamento – cfr. Cass. n. 9113/2012 -.
10.2 Del resto, la conformità della sentenza al modello di cui all’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, non richiede l’esplicita confutazione delle tesi non accolte o la particolareggiata disamina degli elementi di giudizio posti a base della decisione o di quelli non ritenuti significativi, essendo sufficiente, al fine di soddisfare l’esigenza di un’adeguata motivazione, che il raggiunto convincimento risulti da un riferimento logico e coerente a quelle, tra le prospettazioni delle parti e le emergenze istruttorie vagliate nel loro complesso, che siano state ritenute di per sè sole idonee e sufficienti a giustificarlo, in modo da evidenziare l’iter seguito per pervenire alle assunte conclusioni, disattendendo anche per implicito quelle logicamente incompatibili con la decisione adottata.
10.3 E proprio con specifico riferimento al rinvio alla motivazione della sentenza di primo grado, questa Corte ha ritenuto sufficiente che il rinvio venga operato in modo tale da rendere possibile ed agevole il controllo della motivazione, essendo necessario che si dia conto delle argomentazioni delle parti e dell’identità di tali argomentazioni con quelle esaminate nella pronuncia oggetto del rinvio – cfr. Cass. n. 7347/2012 -.
10.4 Ragion per cui, ferma la legittimità della motivazione in cui il giudice d’appello, facendo proprie le argomentazioni del primo giudice esprima, sia pure in modo sintetico, le ragioni della conferma della pronuncia in relazione ai motivi di impugnazione proposti, in modo che il percorso argomentativo desumibile attraverso la parte motiva delle due sentenze risulti appagante e corretto, ricorre la violazione dell’art. 132 c.p.c., solo quando la laconicità della motivazione adottata, formulata in termini di mera adesione, non consenta in alcun modo di ritenere che all’affermazione di condivisione del giudizio di primo grado il giudice di appello sia pervenuto attraverso l’esame e la valutazione di infondatezza dei motivi di gravame.

10.5 Orbene, nel caso di specie, non pare essersi in presenza nè di una motivazione apparente, nè di una mera riproposizione integrale ed acritica della sentenza di primo grado, risultando anzi testualmente che il giudice di appello, nel fare proprie le conclusioni espresse dal giudice di prime cure, anche usando formule linguistiche inequivoche – osserva questa Commissione regionale, … a parere di questo collegio … aggiungasi altresì … – non si è affatto limitato ad acriticamente riprodurre il contenuto decisorio del provvedimento impugnato innanzi a sè, ma ha non solo ricostruito la fattispecie concreta ai fini della sussunzione in quella astratta, ma ha altresì dato conto delle ragioni posta a base della decisione di conferma della sentenza di primo grado confutando espressamente, sulla base delle medesime argomentazioni esposta dal primo giudice, le tesi difensive prospettate dall’Agenzia delle Entrate.
10.6 Ed a nulla ovviamente rileva, ai fini dell’esistenza del vizio per come prospettato dall’Agenzia, che la CTR abbia parimenti confutato una argomentazione non riproposta dall’appellante. Nè appare rilevante la circostanza, enfatizzata nel quesito di diritto proposto, che il giudice di appello non abbia esposto i motivi posti a fondamento della decisione da parte del giudice di primo grado.
11. Passando all’esame del secondo ed al terzo motivo di ricorso, che vanno esaminati congiuntamente in relazione alla loro stretta connessione, gli stessi sono fondati.
11.1 Ed invero, l’Agenzia ha contestato la insufficienza del corredo motivazionale della sentenza impugnata la quale, fermandosi al rilievo formale rappresentato dall’esistenza della società conclamata dalla dichiarazione di insolvenza pronunziata dal tribunale fallimentare, dalla sua iscrizione nel registro delle imprese e dalla titolarità della partita IVA, non aveva esaminato le circostanze di fatto accertate dai verificatori – pagamento di canoni di locazione di L. 112.500.000 mensili per sei anni, realizzazione di opere di modifica strutturale del complesso immobiliare pari a circa L. 3.000.000.000 senza diritto di rivalsa sulle opere eseguite -, dalle quali si sarebbe dovuto inferire l’assenza del requisito della soggettività ai fini IVA della Ital.Ge.SU. s.r.l., correlati all’assunzione di un impegno finanziario estremamente oneroso e sproporzionato rispetto ai proventi realizzabili dalle future locazioni frazionate dell’immobile.
11.2 Prosegue l’Agenzia nel senso che la CTR, preoccupandosi di questioni ormai abbandonate ed incentrando l’analisi su requisiti formali, non aveva esaminato la questione di diritto, correlata all’insussistenza del presupposto per l’applicazione del regime IVA individuato dalla stessa Agenzia nello svolgimento di una effettiva attività economica imprenditoriale” – v. pag. 15 2^ periodo e pag. 16 2^ periodo -. Questione che involgeva, del resto anche la figura dell’abuso del diritto.
11.3 Orbene, le doglianze prospettano la questione della necessità, o meno, dell’effettivo e concreto esercizio di un’attività imprenditoriale da parte di società commerciali, ai fini della detraibilità dell’Iva assolta sulle operazioni passive e della sufficienza, o meno, a questo stesso riguardo della presunzione assoluta di commercialità di cui al D.P.R. n. 633 del 1972, art. 4, comma 2, per legittimare la detrazione dell’imposta assolta a monte rispetto ad atti (o a operazioni) prodromici all’effettivo svolgimento di un’attività d’impresa.
11.4 Questa Corte è ferma nel ritenere che, con riguardo alle operazioni passive, la qualifica di impresa, che compete ex lege alle società commerciali con riguardo alle operazioni attive essendo le cessioni di beni, da parte di dette società, dalla legge considerate “in ogni caso”, cioè senza eccezioni, effettuate nell’esercizio d’impresa, non è sufficiente per dare vita al diritto alla detrazione dell’Iva, essendo per contro necessario che l’acquisto di beni risulti necessario per l’esercizio vero e proprio dell’impresa e sia effettivamente destinato dall’imprenditore alla realizzazione degli scopi produttivi programmati. Con ciò dunque richiedendosi che il requisito della “inerenza” dell’acquisto all’esercizio d’impresa venga identificata sulla base del raffronto tra l’operazione passiva e quelle attive, dovendo risultare assolta la prova della strumentalità della prima rispetto alle seconde, che siano state già compiute o anche soltanto programmate – cfr. Cass. n. 7344/11 e n. 5599/03.

11.5 Nell’alveo del richiamato orientamento, si colloca quanto da questa Corte affermato giustappunto alla luce della sesta direttiva n. 77/388/CEE, come interpretata dalla giurisprudenza della Corte di giustizia (ivi compresa la sentenza 29.2.1996 in proc. C – 110/94).
Che cioè “in tema di Iva, il D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 19, comma 1, consentendo al compratore di portare in detrazione l’imposta addebitatagli a titolo di rivalsa dal venditore quando si tratti di acquisto effettuato nell’esercizio dell’impresa, richiede, oltre alla qualità d’imprenditore dell’acquirente, l’inerenza del bene acquistato all’attività imprenditoriale, intesa come strumentalità del bene stesso rispetto a detta specifica attività, ed inoltre, non introducendo una deroga ai comuni criteri in tema di onere della prova, lascia la dimostrazione di detta inerenza o strumentalità a carico dell’interessato” (v. Cass. n. 3706/2010; n. 16730/2008; n. 11765/2008).
11.6 La norma citata, infatti, consente al compratore di portare in detrazione l’Iva addebitatagli a titolo di rivalsa dal venditore quando si tratti di acquisto effettuato nell’esercizio di impresa, e richiede – pertanto – un quid pluris rispetto alla qualità di imprenditore dell’acquirente, e cioè l’inerenza o strumentalità del bene comprato rispetto all’attività imprenditoriale.
11.7 Nè può presumersi la sussistenza dei requisiti dell’inerenza e della strumentalità in ragione della qualità di società commerciale dell’acquirente, in quanto, in base alla disciplina dettata dalle due citate disposizioni (D.P.R. n. 633 del 1972, art. 4, comma 2, n. 1 e art. 19, comma 1), mentre le cessioni di beni da parte di società commerciali sono da considerare in ogni caso effettuate nell’esercizio d’impresa, viceversa, in ordine agli acquisti delle stesse società, l’inerenza all’esercizio dell’impresa di tali operazioni passive non può essere ritenuta, ai fini della detraibilità dell’imposta, in virtù della semplice qualità di imprenditore societario dell’acquirente, ma va accertata su un piano di effettività, in stretta connessione con le finalità imprenditoriali, e con onere della prova a carico di colui che la detrazione invochi.
11.8 Tale principio, d’altra parte va declinato insieme a quello che, sulla scia della giurisprudenza comunitaria della Corte di Giustizia – sentenza Halifax (Covte giust. 21 febbraio 2006, causa C-255/02), ha determinato l’affermazione del principio del divieto di abuso del diritto che, applicato alla disciplina in tema di IVA, determina l’indetraibilità del detto tributo in caso di suo assolvimento in corrispondenza di comportamenti abusivi, volti cioè a conseguire il solo risultato del beneficio fiscale, senza una reale ed autonoma ragione economica giustificatrice delle operazioni economiche che, perciò, risultano eseguite in forza solo apparentemente corretta ma, in realtà, sostanzialmente elusiva – Cass. n. 10353/2006 -.
11.9 Orbene, il perno sul quale la decisione impugnata ha basato il suo argomentare per ritenere illegittimo l’accertamento dell’Ufficio già sancito dal giudice di primo grado è stata la ritenuta esistenza della società contribuente, desunta dall’iscrizione nel registro delle imprese e dalla titolarità della partita IVA. 11.20 Ma così facendo il giudice di appello ha sostanzialmente tralasciato di considerare e ponderare tutti gli elementi prospettati dall’Agenzia, certamente dotati del carattere della decisività, volti non solo a sostenere che la società era stata costituita, fin dal suo inizio, con la finalità di determinare il tracollo economico della stessa, a cause di impegni finanziari che la stessa non avrebbe potuto in alcun modo sostenere – v. pagg. 16 e 17 ricorso -.
11.21 Così facendo, l’Agenzia, aveva sollecitato al giudicante l’esame della questione dell’antieconomicità delle operazioni di acquisto poste in essere dal sodalizio che, per converso, la CTR ha totalmente tralasciato di esaminare trincerandosi sull’elemento, ritenuto fondante e decisivo, dell’esistenza fisica della società, che pure la CTR ha desunto dal trasferimento della sede legale – avvenuta anteriormente alla notifica degli avvisi – e dalla stessa dichiarazione di fallimento della società.

11.22 Le carenze motivazionali della sentenza si presentano, dunque, palesi, se solo si considera che l’amministrazione può desumere dall’antieconomicità indizi di non verità della fattura, nel senso di non verità dell’operazione, oppure di non verità del prezzo o, ancora, di non esistenza dell’inerenza e cioè della destinazione del bene o del servizio acquistati ad essere utilizzati per operazioni assoggettate ad IVA o, ancora di abuso del diritto che, come detto, presuppone un uso “artificioso” di una forma giuridica e cioè l’uso concreto di essa non per l’affare per il quale essa è tipicamente prevista, ma per uno scopo diverso, univocamente ed esclusivamente rivolto a perseguire un indebito risparmio fiscale.
11.23 In conclusione, la sentenza impugnata ha per un verso errato nel ritenere che la qualità d’imprenditore societario risultante da elementi meramente formali fosse sufficiente per rendere detraibile l’IVA sulle operazioni passive, tralasciando, per altro verso, di considerare gli elementi dedotti dall’Agenzia e dalla società contribuente – v. pag. 11 del controricorso – al fine di valutare, anche avvalendosi dei poteri riconosciuti dal D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 7, se, nel caso concreto, l’attività della società potesse considerarsi realmente improntata all’esercizio degli scopi sociali ovvero fosse destinata a dare vita ad operazioni commerciali assolutamente sproporzionate rispetto ai proventi astrattamente realizzabili dalle attività intraprese dalla stessa società e, dunque, costituisse veicolo per condotte sussumibili nell’alveo dell’abuso del diritto.
11.24 La sentenza impugnata, incentrata invece sul rilievo della sufficienza, al riguardo, del semplice status desumibile dal riconoscimento della qualità di soggetto passivo d’Iva alla società commerciale in relazione all’iscrizione nel registro delle imprese ed alla titolarità della partita IVA, va dunque cassata con rinvio ad altra sezione della medesima commissione regionale, la quale prowederà a compiere il richiesto accertamento in ordine all’effettiva esistenza ed operatività della società contribuente nell’ambito dell’attività imprenditoriale svolta in relazione all’oggetto sociale determinato negli atti costitutivi del sodalizio, oltre che a statuire anche sulle spese del giudizio svoltosi in sede di legittimità.

P.Q.M.

rigetta il primo motivo ed accoglie i restanti. Cassa l’impugnata sentenza e rinvia alla commissione tributaria regionale del Lazio (anche per le spese del giudizio di cassazione) in diversa composizione sezionale.
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Sezione Quinta Civile, il 21 maggio 2013.

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