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Suprema Corte di Cassazione 

sezione V

sentenza n. 14287 del 26 marzo 2013

 

FATTO E DIRITTO

Propone ricorso per cassazione S. M. -quale terza intestataria dei beni- avverso il decreto in data 16 dicembre 2011 con il quale la Corte d’appello di Salerno ha -per quanto qui di interesse- confermato la misura di prevenzione patrimoniale della confisca, che era stata applicata nei confronti di P. F. mediante apposizione del vincolo reale, tra l’altro, a beni mobili (titoli e fondi comuni di investimento per un valore complessivo di circa € 132.000, esistenti presso la banca C. ritenuti ad esso appartenenti, pur essendo formalmente intestati alla S., sua madre.
Evidenziava, al riguardo, la Corte territoriale che la estensione della confisca a beni intestati alla madre del P. – soggetto condannato per la appartenenza alla associazione camorristica “clan D.” ma non più sottoposto alla misura di prevenzione personale per la rilevata cessazione della pericolosità, connessa alla cessazione dell’attività dell`associazione camorristica menzionata, a partire del 2005- si giustificava in ragione del fatto che la donna non risultava avere avuto la lecita disponibilità di somme di danaro da investire (diverse da quelle ottenute a seguito della morte del marito e utilizzate per l’acquisto di due appartamenti in favore dei figli) e che la manifesta sproporzione del valore dei beni ad essa intestati, rispetto alla situazione economica che la riguardava, faceva ricondurre quei beni direttamente alla attività criminosa svolta, nel settore dei videopoker, dal figlio.

Deduce il vizio della motivazione nella forma della manifesta illogicità e del travisamento della prova e, altresì della motivazione apparente, nella prospettiva, dunque, anche della violazione dell’articolo 125 cpp..
Invero la Corte territoriale aveva apoditticamente affermato che i capitali utilizzati per l’acquisto dei titoli confiscati dovessero ritenersi provenienti dalla illecita attività di P. F: perché sproporzionati rispetto alle capacità di reddito della S. senza pero tenere in alcun conte le prove addotte dalla difesa per evidenziare il contrario.
Era stato infatti dimostrato che la ricorrente, a seguito della morte dei marito avvenuta nel 1987 per un incidente sul lavoro – avendo quello ricoperto il ruolo di console del porto di Salerno- aveva percepito la complessiva somma di 305 milioni di lire, per liquidazione e risarcimento del danno, e due pensioni per un importo mensile complessivo di 4 milioni di lire.
Ebbene la prima somma, seppure utilizzata, come rilevato dai giudici del merito, per l’acquisto di due appartamenti intestati ai figli V. e F. era poi tornata in suo possesso quando, tra il 1991 e il 1997, gli appartamenti erano stati venduti, consentendo un incasso di circa 230 milioni di lire che era rientrato nella disponibilità della ricorrente.
Tale realtà era stata dei tutto omessa nella valutazione del provvedimento impugnato.
Allo stesso modo era stata del tutto omessa la valutazione della capacità reddituale della ricorrente, derivante dalla documentata percezione di una pensione mensile pari a € 2000: una pensione che, considerato che la ricorrente è proprietaria dell’appartamento in cui vive, le permetteva un risparmio di € 1000 al mese. E questo, protratto per il periodo di 15 anni intercorso dal momento di iniziale percezione del trattamento pensionistico (1987) a quello dell’investimento (2002), avrebbe permesso l’accumulo di una somma di circa € 200.000, ancora una volta idonea a giustificare l’investimento nei titoli poi confiscati.
In terzo luogo la difesa deduce anche la violazione dell’articolo 28 del decreto legislativo numero 159 del 2011.
Tale norma prevede un’ipotesi di revocazione della decisione adottata con riferimento alla confisca di beni quando l’esistenza dei presupposti per l’applicazione della misura di prevenzione siano stati esclusi dai fatti accertati con sentenza penale irrevocabile.
E, nel caso di specie, era stato lo stesso Tribunale, in sede di applicazione della confisca, a riconoscere che i proventi dell’attività illecita del P. erano stati tutti utilizzati per le necessità degli affiliati detenuti e per incrementare le macchine videopoker, nell’interesse della organizzazione: con la conseguenza della loro già avvenuta confisca.
Se ne sarebbe dovuto dedurre che i beni della ricorrente erano di diversa provenienza, non potendo il giudice della prevenzione contrastare un accertamento di fatto compiuto nella sede della cognizione, e dovendo, altresì, tenere in considerazione i concreti elementi che la parte interessata, gravata da un mero onere di allegazione, aveva dedotto.
Il Procuratore generale presso questa Corte ha chiesto l’accoglimento del ricorso, rilevando la mancanza assoluta di motivazione a proposito della riferibilità, delle somme confiscate alla ricorrente, direttamente al soggetto destinatario in via principale della misura di prevenzione patrimoniale, P. F.
Il ricorso è fondato e deve essere accolto.
È del tutto condivisibile l’osservazione fondamentale della requisitoria il Procuratore generale nella parte in cui segnala la costante giurisprudenza di questa Corte in tema di applicazione di misure di prevenzione patrimoniale a beni formalmente intestati a congiunti del proposto, con esso pero non conviventi, come sembra nel caso di specie.

Ha osservato la giurisprudenza della Cassazione che, in tema di sequestro e confisca di beni intestati a terzi correlati all’applicazione di misure di prevenzione, incombe sull’accusa l’onere di dimostrare rigorosamente, sulla base di elementi fattuali, connotati dai requisiti della gravità, precisione e concordanza, l’esistenza di situazioni che avallino concretamente l’ipotesi del carattere puramente formale di detta intestazione, e, corrispondentemente, del permanere della disponibilità dei beni nella effettiva ed autonoma disponibilità di fatto del proposto (Rv. 249364; conformi: N. 43046 del 2003 Rv. 226610, N. 35628 del 2004 Rv. 229726).
In particolare va anche riproposto l’argomento già espresso dalla sentenza Sez. 2, n. 6977 del 09.02.2011 Cc. (dep. 23/02/2011) Rv. 049364, nella quale si pone ben in evidenza come soltanto nel caso in cui i beni dei quali si intendo dimostrare la disponibilità in capo al proposto, siano nella formale titolarità del coniuge, dei figli o dei conviventi del medesimo proposto, la disponibilità di tali beni deve intendersi presunta in capo all’indiziato di appartenenza all’associazione mofiosa, in quanto tali soggetti (coniuge e figli e conviventi) sono considerati separatamente dagli altri terzi (L. n. 575 dei 1965, art. 2 bis, comino 3}, nei cui confronti, invece devono risultare elementi di prova circa la disponibilità concreta dei beni da parte dell’indiziato.
Ed in vero, con riferimento a tali stretti familiari, asseritamente fittizi intestatari di beni, questo Corte ha più volte affermato che nei confronti dei soggetti, rientranti nel novero di quelli considerati dalla L. n. 575 del 1965, art. 2 bis, comma 3, separatamente da tutti gli altri terzi “opera una fondata presunzione di essere solo “prestanomi” circa l’effettiva disponibilità dei beni in testa al proposto, salvo rigorosa e fondata prova contraria posta a carico dei predetti soggetti legati da vincoli parenterali “aut similia” (convivenze) con detto proposto, essendo intuibilmente più accentuato, in caso di titolarità dei beni in capo a costoro, il pericolo di una intestazione meramente fittizia “a copertura” di quella concreta e reale in testa al detto proposto raggiunto dalla misura di prevenzione personale”. (Cass. Sez. 6 sent. 18047 del 10.3.2005 dep. 13.5.2005, Mollica).
Nella stessa prospettiva è stato anche sostenuto, da altra giurisprudenza, che nella materia della prevenzione non è prevista una inversione dell’onere della prova a carico del proposto o dell’interessato (Rv. 238871).
Tanto premesso, deve evidenziarsi come l’intera motivazione esibita dalla Corte territoriale non dia conto di prove rigorose ma soltanto di una astratta presunzione -tale, dunque, da integrare effettivamente la motivazione apparente denunciata dalla difesa- a proposito della ipotesi che i beni confiscati alla ricorrente non potessero realmente appartenere ad essa, con provenienza lecita, dovendo, viceversa, essere riferiti, sulla base di un procedimento logico di tipo solo apparentemente inferenziale, a null’altro che all’attività illecita del figlio della ricorrente.
Ed invero risulta del tutto carente e dunque in violazione dell’articolo 125 cpp, la motivazione esibita nel provvedimento impugnato, avendo al difesa, nei motivi di appello depositati il 10 dicembre 2008 a firma dell’avv. De Caro, dedotto, a pag. 3 , il terna della pensione di reversibilità per un importo di oltre 2000 euro mensili, percepiti dal 1987 dalla S.
Si era trattato, invero, di un tema già sottoposto con prove (documentazione bancaria) alla attenzione del Tribunale, alla udienza del 22 settembre 2008 (f. 160) e non ritenuto conferente con l’affermazione, di pag. 51 del decreto di primo grado, secondo cui si trattava di compensi “ritenuti leciti” e “non oggetto di sequestro”.
Nell’atto di appello sopra menzionato, a pag. 3, si era dunque tornati sull’argomento, ad opera della difesa, sostenendo che i compensi da pensione non erano stati valutati, nella prospettiva corretta, dal 1° giudice, aggiungendosi anche l’argomento del recupero, ad opera della ricorrente, delle somme investite negli appartamenti intestati ai figli e poi rivenduti quando questi erano ancora in giovane età.
La Corte di appello non ha replicato a tali rilevanti osservazioni, così dando luogo alla lacuna argomentativa che in questa sede si censura e che riguarda direttamente la possibilità della formulazione della presunzione di fittizia intestazione dei beni intestati alla S.

P.Q.M.

Annulla il provvedimento impugnato con rinvio alla Corte di appello di Salerno per nuovo esame.
Roma 23 gennaio 2013

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