Suprema Corte di Cassazione

sezione V

Sentenza del 09 novembre 2012, n. 43732

Ritenuto in fatto

Con sentenza pronunciata il primo dicembre 2011, la corte di appello di Brescia, in parziale riforma della sentenza con cui il tribunale di Cremona, in data 30.11.2010 aveva condannato L.A. alla pena di mesi otto di reclusione per i reati di cui agli artt. 610, c.p. (capo a); 582, c.p. (capo b) e 594, c.p. (capo c), commessi in (…) in danno di Le.Li. , oltre al risarcimento dei danni derivanti da reato in favore della costituita parte civile, assolveva l’imputata, ai sensi dell’art. 530, co. 2, c.p.p., dai reati di cui ai capi a) e b), con la formula perché il fatto non sussiste e riduceva la pena inflitta per il reato sub c) ad Euro 300,00 di multa, confermando nel resto l’impugnata sentenza, con riferimento alle statuizioni civili.
Ha proposto ricorso personalmente l’imputata, articolando due motivi di ricorso.
Con il primo deduce la contraddittorietà ovvero la manifesta illogicità della motivazione in quanto la corte territoriale avrebbe ritenuto inattendibile la narrazione della persona offesa in ordine ai fatti di violenza privata e di lesioni e, contraddittoriamente, attendibile con riferimento all’ingiuria. Con il secondo motivo deduce l’inosservanza o l’erronea applicazione della legge penale in relazione al delitto di cui all’art. 594, c.p., non potendosi attribuire alcun carattere offensivo alle parole che si assumono pronunciate dall’imputata all’indirizzo della persona offesa.

Considerato in diritto

Il ricorso va rigettato, essendo infondati i motivi che ne sono posti a fondamento.
Quanto al primo motivo va rilevato che la corte territoriale, con motivazione adeguata ed esente da vizi, ha fondato la sua decisione su di un’accurata e prudente valutazione delle dichiarazioni della persona offesa Le.Li. , inserendole in un contesto di rapporti di vicinato tra quest’ultima e la ricorrente, contraddistinti da una reciproca avversione, nell’ambito dei quali appariva assolutamente credibile che la L. avesse attribuito alla persona offesa di essere l’autrice dell’abbandono delle feci sulle scale della sua abitazione, episodio scatenante della lite insorta tra le due donne, mentre analogo giudizio non poteva essere effettuato in relazione al denunciato episodio delle lesioni che la persona offesa affermava di avere subito dall’imputata, perché, sul punto le dichiarazioni della Le. venivano contraddette da una serie di elementi oggettivi, tra cui assumeva un ruolo decisivo la tardività, in relazione alla gravità asserita e certificata delle lesioni, dell’accertamento medico cui la persona offesa si sottoponeva solo due giorni dopo il verificarsi della lite (cfr. pagg. 4-5 dell’impugnata sentenza).
Tale modo di procedere della corte territoriale appare assolutamente conforme ai risultati elaborati dalla giurisprudenza di legittimità a proposito del valore che, all’interno del processo penale, assumono le dichiarazioni della persona offesa costituita parte civile, pacificamente considerate valutabili ed utilizzabili ai fini della tesi di accusa, poiché, a differenza di quanto previsto nel processo civile, circa l’incapacità a deporre del teste che abbia la veste di parte, il processo penale risponde all’interesse pubblicistico di accertare la responsabilità dell’imputato, e non può essere condizionato dall’interesse individuale rispetto ai profili privatistici, connessi al risarcimento del danno provocato dal reato, nonché da inconcepibili limiti al libero convincimento del giudice (cfr. Cass., sez. V, 23.11.2011, n. 8558, Ce; Cass., sez. V, 19.9.2011, n. 46542, M.M.; Cass., sez. V, 8.4.2008, n. 16780, C; Cass., sez. V, 27.3.2008, n. 16769 S.).
Tali dichiarazioni, pertanto, possono essere assunte anche da sole come prova della responsabilità dell’imputato, purché siano sottoposte a vaglio positivo circa la loro attendibilità e senza necessità di applicare le regole probatorie di cui all’art. 192, terzo e comma 4, c.p.p., che richiedono la presenza di riscontri esterni, anche se, essendo la parte civile portatrice di pretese economiche, il controllo di attendibilità deve essere più rigoroso rispetto a quello generico cui si sottopongono le dichiarazioni di qualsiasi testimone e può rendere opportuno procedere al riscontro di tali dichiarazioni con altri elementi; riscontro, peraltro, non indefettibilmente ed in ogni caso dovuto, fermo restando l’obbligo del giudice di rigorosamente valutare, come ha fatto la corte di appello di Brescia, le dichiarazioni della persona offesa, dovendo la sua eventuale necessità essere ragguagliata alle connotazioni della fattispecie, alle emergenze probatorie e procedimentali che sia dato cogliere nella vicenda esaminata, alle acquisizioni e modalità ricostruttive della stessa (cfr. Cass., sez. IV, 1.2.2011, n. 19668, N.M. ed altri, nonché in senso conforme, Cass., sez. II, 20.9.2011, n. 43307, C.S.; Cass., sez. VI, 23.3.2011, n. 22281, G.F.A.; Cass., sez. VI, 20.12.2010, n. 4443, P.), che, in presenza di una pluralità di dichiarazioni accusatorie della persona offesa, possono condurre, in relazione a ciascuna di esse, ad esiti diversi, che, tuttavia, di per sé, non consentono di ravvisare una motivazione contraddittoria.
Parimente infondato è anche il secondo motivo di ricorso, apparendo evidente la natura offensiva delle espressioni rivolte dalla L. all’indirizzo della Le. (”zozzona, sporcacciona”).
In esse, invero si ravvisano gli estremi dell’offesa all’onore ed al decoro della persona della Le. , aggredita attraverso espressioni gratuitamente volgari. Pur nel profondo mutamento intervenuto nel linguaggio comune, con l’uso diffuso di espressioni volgari, che in determinato contesti possono ritenersi “depurate” del loro significato oltraggioso, infatti, evidenziare, attraverso le espressioni innanzi indicate, un assoluto disinteresse del destinatario dell’offesa per le regole igieniche vigenti nel consesso civile e, quindi, per il rispetto delle esigenze di vita altrui, è certamente locuzione che, per quanto possa essersi degradato il codice comunicativo, conserva intatta la sua valenza ingiuriosa, in quanto volta a ferire la dignità altrui ed il senso di appartenenza alla comunità in cui si vive.
Sulla base delle svolte considerazioni il ricorso proposto nell’interesse di L.A. va, dunque, rigettato, ai sensi dell’art. 615, co. 2, c.p.p., con condanna della ricorrente, giusto il disposto dell’art. 616, c.p.p., al pagamento delle spese del procedimento.

P.Q.M.

rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Depositata in Cancelleria il 09.11.2012

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