cassazione 9

Suprema Corte di Cassazione

sezione V

sentenza 6 agosto 2015, n. 34318

Ritenuto in fatto

1.Con sentenza in data 30.10.2013 la Corte di Appello di Palermo, in parziale riforma della sentenza del G.i.p.del Tribunale di Trapani- con la quale Z.M. era stato condannato alla pena di anni uno di reclusione ed euro 300,00 di multa, per il delitto di cui agli artt. 56 e 611 c.p. al capo a) di tentata violenza o minaccia, per costringere a commettere un reato (annullamento dei preavviso di contravvenzione per mancato pagamento del parcheggio della autovettura in zona blu) e per il delitto di cui agli artt. 624 bis e 61 n.10 c.p. al capo b), di furto con strappo, aggravato dalla qualità di pubblico ufficiale della persona offesa – riduceva la pena inflitta all’imputato a mesi sei di reclusione ed euro 220,00 di multa.
2.Avverso tale sentenza l’imputato, a mezzo del suo difensore di fiducia, ha proposto ricorso per cassazione, con il quale lamenta la ricorrenza dei vizi di cui all’art. 606, comma primo, lett. b) ed e) c.p.p., in relazione agli artt. 56, 611 c.p. (capo A), 624 bis e 61 n. 10 c.p. (capo B); in particolare, la sentenza impugnata opera una equiparazione dell’ausiliario del traffico ad un pubblico ufficiale, senza approfondire la ricorrenza degli elementi costitutivi dei reato di cui all’articolo 611 c.p., oggetto di contestazione capo A); invero, la commissione dei fatto cui l’agente mira deve essere possibile: l’impossibilità di esso escluderebbe infatti, insieme con la punibilità di un eventuale tentativo del medesimo (art. 49 cpv. c.p.), anche il delitto di cui all’art. 611 c.p., rendendo infatti possibile al soggetto passivo il compimento dei proprio atto e, pertanto, impossibile la commissione di quello dell’agente; più congrua si presenta, invece, la qualificazione giuridica della condotta, quale quella di cui di cui all’articolo 337 c.p. e ciò discende dalla considerazione che il vizio di inosservanza o erronea applicazione della legge penale – quale censura da farsi valere nell’ambito del giudizio di legittimità – implica per l’appunto la violazione della norma, ovvero la applicazione della medesima in senso non conforme alla previsione propria dei legislatore; nell’ambito dell’ ipotesi delittuosa suindicata – la condotta, quale elemento costitutivo indefettibile dei reato, si articola nella violenza o minaccia volte, per converso, ad opporsi al compimento di un atto di ufficio o di servizio del soggetto passivo, e non anche alla commissione di alcuna fattispecie- di reato; inoltre, la stessa esistenza di un permesso per portatori di handicap, nella disponibilità dell’impugnante, costituisce una evidenza tale da sorreggere fondatamente I’ ulteriore censura, secondo cui il giudice di merito non ha considerato che, ai sensi dell’art. 53 bis della Legge 1 agosto 2003 n. 214, che ha novellato l’articolo 3 del Codice della strada, i soggetti disabili sono da considerare utenti deboli della strada, come tali meritevoli di una particolare tutela perché maggiormente esposti ai pericoli derivanti dalla circolazione stradale; inoltre, ai sensi dell’articolo 188 del Codice della strada “per la circolazione e la sosta dei veicoli al servizio delle persone invalide, gli enti proprietari della strada sono tenuti ad allestire e mantenere apposite strutture, nonché la segnaletica necessaria, per consentire ed agevolare la mobilità di esse; nel caso di specie opera la causa di non punibilità di cui all’articolo 393 bis c.p., che ricorre quando il comportamento del soggetto passivo – pur nello svolgimento- di attività legittima ed eseguita per fini propri dell’ufficio, costituisce, però, un comportamento scorretto, incivile, inurbano, o comunque quando le condotte di violenza o minaccia rivolte nei suoi confronti, non rivelino alcuna volontà di opporsi allo svolgimento dell’atto d’ufficio, ma rappresentino piuttosto una forma di contestazione della pregressa attività svolta dal pubblico ufficiale, da inquadrare nell’ambito della diversa ipotesi delittuosa di cui all’art. 612, o 581 c.p.; inoltre, è meritevole dì censura la sentenza impugnata sotto il profilo della erronea applicazione della legge penale in relazione all’articolo 624-bis c.p., atteso che è difficile comprendere la possibile configurazione di un delitto contro il patrimonio nell’ipotesi in cui sia ingiusto il mezzo adoperato, ma non il profitto perseguito: da considerarsi giusto quando sia fondato su una pretesa legittima in quanto riconosciuta dal diritto.

Considerato in diritto

Il ricorso non merita accoglimento.
1.I fatti vengono così descritti nella sentenza di primo grado, da leggersi in uno a quella impugnata, costituendo un unicum, quanto ad apparato motivazionale, nel senso che sull’autovettura di proprietà dall’imputato- parcheggiata all’interno della zona per la sosta a pagamento, con esposto un contrassegno rilasciato dal Comune di Reggio Calabria- veniva apposto un preavviso di constatata violazione, e Io Z. si dirigeva verso la postazione degli ausiliari del traffico per protestare in merito al suddetto preavviso, trattandosi di veicolo munito appunto del predetto permesso per le persone con disabilità, non soggetto al pagamento per la sosta; avvicinatasi all’imputato, l’ausiliaria dei traffico, G.A.M., autrice del preavviso, la contestazione trasmodava e l’imputato minacciava la predetta fargliela pagare ove non avesse provveduto ad annullare il preavviso, sottraendole, quindi, il blocco cartaceo sul quale la predetta compilava i preavvisi di violazione.
2.In base a tale ricostruzione degli accadimenti, il giudice di primo grado ha ritenuto che si configurassero a carico dell’imputato le ipotesi di cui agli artt. 56 e 611 c.p. e 624 bis c.p. a fronte di diverse e più gravi ipotesi di reato originariamente contestate al predetto.
2.1. Orbene, quanto al delitto tentato di minaccia per costringere a commettere un reato ex art. 611 c.p. , il giudice di primo grado ha evidenziato espressamente che questa Corte, in più pronunce, ha escluso la configurabilità del tentativo, in relazione a tale delitto di cui all’art. 611 c.p., discostandosene in virtù del fatto che la condotta dell’imputato non ha provocato in concreto un segnale di determinazione dell’ausiliaria. Tale valutazione non pare condivisibile dovendo ribadirsi, in proposito, che la fattispecie di cui all’art. 611 cod. pen. non ammette la figura dei tentativo, giacché, con l’uso della violenza o della minaccia, si verifica già la consumazione, indipendentemente dalla realizzazione dei reato fine (Sez. 2, n. 42789 del 22/10/2003;Sez. 1, n. 4555 del 01/07/1997). Per la sussistenza del delitto previsto dall’art. 611 cod. pen., invero, ciò che conta è che la violenza o la minaccia sia idonea, nel momento in cui viene esercitata, a determinare altri a commettere un fatto costituente reato, mentre non è richiesto che il reato-fine sia consumato o tentato (Sez. 2, n. 9931 del 01/12/2014).
2.2.Ciò posto, tuttavia, in questa sede, non è possibile procedere alla corretta qualificazione del fatto, implicando essa l’ipotesi più grave del delitto consumato e non risultando essere stata proposta impugnazione da parte del Pubblico Ministero avverso la ritenuta qualificazione dell’ipotesi di reato individuata dal primo giudice.
Ai fini della sussistenza del reato previsto dall’art. 611 cod. pen., la minaccia è configurabile in qualsiasi comportamento suscettibile di incutere timore e di far sorgere la preoccupazione di poter soffrire un male o un danno ingiusti, ancorché non oggettivi, ma semplicemente percepiti, tale da compromettere o diminuire la libertà morale del minacciato (Sez. 6, n. 9921 del 13/10/2011).
Ora le frasi pronunciate dall’imputato, tra cui “ve la farò pagare”, nel contesto di riferimento, ove l’imputato si era , peraltro, qualificato (falsamente) come un carabiniere, sono state ritenute dai giudici di merito idonee ad influire sulla libertà di autodeterminazione dell’ausiliaria del traffico ,G., avendo oggettiva portata intimidatoria, tali da essere idonee ad indurre la p.o. a “strappare” il preavviso già elevato e, quindi, a commettere un reato, non rilevando al fine della configurabilità del delitto in contestazione- come correttamente evidenziato dal primo giudice- se la contravvenzione fosse o meno legittima in relazione al possesso da parte dell’imputato del contrassegno per i portatori di handicap.
2.3.Non si presenta in proposito pertinente la questione relativa alla ricorrenza nella fattispecie in questione di un reato impossibile, atteso che, come più volte rilevato da questa Corte, l’impossibilità del reato per inidoneità dell’azione va guardata in relazione al reato di cui all’art. 611 c.p. e non al reato fine, non essendo, infatti, richiesto che quest’ultimo sia consumato e neppure tentato; non si pone, in particolare, un problema di un’ azione idonea del reato commesso per costrizione, perché quel che conta è che la violenza o la minaccia sia idonea, nel momento in cui viene esercitata, a determinare altri a commettere un fatto costituente reato (Sez. 5, n. 38222 dei 12/06/2008; Sez. 5^, 5 maggio 1982 – 30 luglio 1982, n. 7499).
2.4.Non può accedersi alla tesi sostenuta dal ricorrente, secondo cui nella fattispecie in esame ricorrerebbe, piuttosto, l’ipotesi di cui all’art. 337 c.p., con conseguente possibilità di applicare la causa di non punibilità di cui all’art. 393 bis c.p.. Ed invero, occorre rilevare che nel momento in cui l’imputato ha minacciato la p.o., l’atto dì ufficio dell’ausiliaria G. – consistente nel rilevare l’infrazione in merito al parcheggio dell’auto dell’imputato- era stato già compiuto, laddove integra il delitto di cui all’art. 337 cod. pen. la condotta di chi usi violenza o minaccia per impedire al pubblico ufficiale di compiere un atto dei proprio ufficio, mentre questi lo sta compiendo e, quindi, non successivamente.
L’ ìnconfigurabilità dei delitto di cui all’art. 337 c.p.p. esclude, poi, in radice la possibilità di invocare la causa di non punibilità di cui all’art. 393 bis c.p., non applicabile in relazione al reato di cui all’art. 611 c.p., stante il testuale richiamo nella norma a specifiche ipotesi di reato (tra cui quelle di cui agli artt.336, 337 c.p. ecc.) e, in ogni caso, come evidenziato dalla sentenza impugnata, non ravvisandosi da parte della p.o. l’eccesso con atti arbitrari dai limiti delle sue attribuzioni.
2.5. Per quanto concerne, poi, la mancata indagine in ordine alla qualità rivestita dalla p.o., in relazione alla ritenuta aggravante di cui all’art. 61 n. 10 c.p., è sufficiente richiamare in proposito quanto più volte evidenziato da questa Corte, secondo cui l’ausiliario del traffico, riveste la qualità di incaricato di pubblico servizio all’atto dell’accertamento e contestazione delle violazioni attinenti al divieto di sosta nelle aree oggetto di concessione alle imprese di gestione dei parcheggi (Sez. 6, 7496/2009, De Certo; Sez. 6, n. 28521 dei 16/04/2014). Ai fini dell’operatività dell’aggravante in questione il pubblico ufficiale risulta equiparato all’incaricato di pubblico servizio.
Nel caso di specie, sebbene i fatti – reato siano avvenuti successivamente ali’ elevazione del preavviso di contravvenzione, e non all’atto di essa, non può dubitarsi dei fatto che l’opposizione dell’imputato sia avvenuta nei confronti di un soggetto che espletava tale funzione, pretendendo lo Z. proprio per la qualità rivestita dallo stesso, la “soppressione” (illecita) dell’atto già elevato.
3. Infondate e generiche si presentano le deduzioni relative alla inconfigurabilità nello strappo alla G. dei bollettario per la redazione dei preavvisi di contestazione di un furto aggravato, stante l’assenza di un “profitto”. Correttamente la sentenza impugnata invoca in proposito i principi più volte espressi da questa Corte, secondo cui il concetto di profitto va inteso in senso ampio, così da comprendersi non solo il vantaggio di natura puramente economica, ma anche quello di natura non patrimoniale, consistente in una qualsiasi utilità realizzabile con l’impossessamento della cosa mobile altrui (Sez. II n. 40631 del 9.10.20129
4. II ricorso, pertanto, per quanto detto va respinto e l’imputato va condannato al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

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