Suprema Corte di Cassazione
sezione V
sentenza 3 novembre 2015, n. 44399
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE QUINTA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. VESSICHELLI Maria – Presidente
Dott. PEZZULLO Rosa – Consigliere
Dott. SETTEMBRE Antonio – Consigliere
Dott. DE MARZO Giuseppe – rel. Consigliere
Dott. CAPUTO Angelo – Consigliere
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
(OMISSIS) N. IL (OMISSIS);
avverso la sentenza n. 3326/2010 CORTE APPELLO di BARI, del 24/03/2014;
visti gli atti, la sentenza e il ricorso;
udita in PUBBLICA UDIENZA del 18/06/2015 la relazione fatta dal Consigliere Dott. GIUSEPPE DE MARZO;
Udito il Procuratore Generale in persona del Dott. Enrico Delehaye, che ha concluso per il rigetto del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza del 24/03/2014 la Corte d’appello di Bari ha confermato la decisione di primo grado, che aveva condannato alla pena di giustizia (OMISSIS), avendolo ritenuto responsabile limitatamente al reato di cui “all’articolo 614 c.p., comma 3”.
2. L’imputato ha personalmente proposto ricorso per cassazione, affidato ai seguenti motivi.
2.1 Con il primo motivo si lamentano vizi motivazionali e violazione di legge, rilevando che la ritenuta sussistenza della violazione di domicilio, nonostante che l’imputato fosse il titolare del contratto di locazione, era stata argomentata dalla Corte territoriale, in ragione dell’accordo concluso con la sua ex convivente, che garantiva a quest’ultima l’utilizzo esclusivo dell’immobile. Tale accordo, secondo la sentenza impugnata, era comprovato dal fatto che il medesimo imputato non aveva le chiavi dell’appartamento.
Il ricorrente rileva: a) che i giudici di merito non avevano specificato se l’indisponibilita’ delle chiavi fosse assoluta o limitata alla sera in cui si sarebbe verificata la violazione di domicilio; b) che la sentenza impugnata aveva erroneamente valorizzato circostanze di fatto, quali il mancato possesso delle chiavi, finendo in tal modo per rendere irrilevante la posizione giuridica della quale egli era titolare; c) che, in definitiva, e’ erroneo affermare che il domicilio penalmente tutelato si identifica nel luogo in cui, di fatto, il privato svolga la propria vita, a prescindere da un titolo giuridico che autorizzi l’esclusione di terzi.
2.2. Con il secondo motivo, si lamentano vizi motivazionali e violazione di legge, per avere la Corte territoriale omesso di illustrare il nesso funzionale tra il danneggiamento della porta (fermo restando che, comunque, difettava la dimostrazione della capacita’ dell’imputato di sfondare la porta) e la violazione di domicilio, in realta’ insussistente, come comprovato dal fatto che l’originaria impostazione accusatoria era articolata attorno alla contestazione dell’articolo 614 c.p., comma 3 (laddove l’impiego di violenza sulle cose e’ contemplata dal successivo comma 4), e articolo 635 c.p..
Tale considerazione conduce il ricorrente anche a denunciare la violazione della correlazione tra imputazione e sentenza, valorizzando il pregiudizio difensivo sofferto per l’imprevedibilita’ della riqualificazione del fatto.
2.3. Con il terzo motivo, si lamentano vizi motivazionali in ordine al riconoscimento della recidiva reiterata.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il primo motivo di ricorso e’ infondato.
Come chiarito in punto di fatto dalla sentenza di primo grado, non oggetto al riguardo di alcuna contestazione nell’atto di appello, l’abitazione nella quale il (OMISSIS) ebbe ad irrompere in data 11/04/2006, intorno alla mezzanotte, era occupata dalla sola persona offesa e dalla figlia nata dalla relazione con l’imputato. Quest’ultimo, infatti, vivendo altrove, era esclusivamente il titolare formale del contratto di locazione, il cui canone era versato direttamente dalla persona offesa.
Siffatto accordo tra il (OMISSIS) e la donna e’ dimostrato, secondo il ragionevole apprezzamento dei giudici di merito, anche dalla circostanza che il secondo non disponeva della chiavi di accesso all’appartamento.
Tale profilo fattuale e’ inammissibilmente messo in discussione dal ricorrente per l’assorbente ragione che, nell’atto di appello, esso non era contestato. Nel gravame, infatti, si introduceva il distinto ed irrilevante tema dell’assenza di impedimenti nel diritto del padre di vedere la figlia, diritto che, all’evidenza, non legittima l’ingresso indiscriminato nell’abitazione nella quale viva la prole.
In presenza dell’indicato accordo, la mera titolarita’ del rapporto di locazione in capo all’imputato non incide sul diritto della persona offesa, che, con il consenso del primo (e, nel caso di specie, parrebbe – ma il profilo non assume decisiva rilevanza – anche del proprietario, visto che il canone era versato direttamente in favore di quest’ultimo), occupi in via esclusiva l’appartamento, di escludere dai luoghi nei quali si svolge la sua vita privata i terzi e lo stesso formale locatario dell’immobile.
Invero, la titolarita’ del contratto di locazione certamente assume rilievo, quanto alla spettanza dei diritti e delle obbligazioni che ne scaturiscono, nei confronti del locatore, ma non vale ad identificare necessariamente nel bene locato l’abitazione del locatario, che, al contrario, presuppone l’attualita’ dell’uso domestico.
E non v’e’ dubbio che il titolo negoziale che giustificava la esclusiva permanenza della donna nell’abitazione la legittimava ad escludere la sua controparte diretta dall’accesso nell’immobile.
2. Il secondo motivo di ricorso e’, nel suo complesso, infondato.
Per quanto concerne il profilo fattuale che investe la capacita’ dell’imputato di sfondare la porta, se ne rileva l’inammissibilita’, trattandosi di questione non solo estranea ai motivi di appello, ma addirittura contrastante con le considerazioni svolte nel gravame e, in particolare, con la puntualizzazione secondo cui “il (OMISSIS) ha effettuato l’accesso forzato all’interno dell’abitazione, in preda ad un impeto d’ira … senza che questo fosse preordinato alla commissione di alcuna violenza sulle persone”.
Cio’ posto, va ribadito, in termini assorbenti, che la violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza integra una nullita’ a regime intermedio che, in quanto verificatasi in primo grado, puo’ essere dedotta fino alla deliberazione della sentenza nel grado successivo. Ne consegue che detta violazione non puo’ essere dedotta per la prima volta in sede di legittimita’ (Sez. 6, n. 31436 del 12/07/2012, Di Stefano, Rv. 253217).
In realta’, gia’ la decisione di primo grado, a parte l’erroneo riferimento all’articolo 614, comma 3 (e che si tratti di errore materiale e’ confermato dalla circostanza che, immediatamente dopo la menzione dell’articolo e del comma, l’estensore osserva che il reato e’ procedibile d’ufficio), aveva ritenuto sussistente la circostanza aggravante di cui allo stesso articolo 614, comma 4, peraltro fondata sulla contestazione in fatto contenuta nel capo di imputazione (che espressamente menziona lo sfondamento della porta come modalita’ attuativa della violazione di domicilio).
Rispetto a tale conclusione – della quale l’atto di appello si mostra espressamente consapevole – sono state svolte dinanzi alla Corte territoriale delle difese, articolate attorno alla sussistenza del nesso funzionale tra la violenza e l’ingresso nel domicilio della persona offesa.
In definitiva e per pura completezza, va quindi osservato che in ogni caso non si e’ realizzata alcuna violazione del diritto di difesa, giacche’: a) l’esito definitorio appariva come uno dei possibili epiloghi decisori del giudizio, secondo uno sviluppo interpretativo assolutamente prevedibile, e, in ogni caso b) l’imputato ed il suo difensore hanno avuto nella fase di merito la possibilita’ di interloquire in ordine alla questione (si vedano i principi affermati con riguardo alla diversa qualificazione giuridica del fatto da Sez. 5, n. 48677 del 06/06/2014, Napolitano, Rv. 261356).
Quanto, infine, al nesso di strumentante richiesto dalla ritenuta circostanza aggravante, si rileva che la critica e’ infondata, giacche’, secondo quanto puntualmente rilevato dalla Corte territoriale, la violenza e’ stata esercitata proprio al fine di sfondare la porta di ingresso e dunque di realizzare l’accesso nell’altrui abitazione.
Tale soluzione e’ coerente con l’orientamento di questa Corte, secondo cui, in tema di violazione di domicilio, perche’ possa ritenersi sussistente l’aggravante della violenza sulle cose, che comporta la procedibilita’ di ufficio, occorre non solo che l’azione sia esercitata direttamente sulla res, ma anche che essa abbia determinato la forzatura, la rottura, il danneggiamento della stessa o ne abbia comunque alterato l’aspetto e/o la funzione (Sez. 2, n. 32277 del 27/05/2010, D’Alfonso, Rv. 248179, con riferimento ad un caso nel quale era stata ritenuta sussistente l’aggravante nel fatto di un agente che aveva forzato, con un calcio, la porta di ingresso di un appartamento, nel quale si era poi introdotto per compiere una rapina).
3. Il terzo motivo e’ inammissibile per novita’ della questione, non sollevata nell’atto di appello, che anzi, invocava un favorevole giudizio di comparazione della ritenuta recidiva, senza contestare la sussistenza dei presupposti per la sua applicabilita’.
4, Alla pronuncia di rigetto consegue, ex articolo 616 c.p.p., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
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