Suprema Corte di Cassazione

sezione V

sentenza 23 ottobre 2012 n 41249

 

Svolgimento del processo

1. Con sentenza 17.6.2011, la corte di appello di Milano, in parziale riforma della sentenza 26.1.09 del tribunale della stessa sede, preso atto che per la contestata ipotesi ex art. 595 c.p. e L. n. 47 del 1948, art. 13 è prevista la pena detentiva, unitamente a quella pecuniaria, già irrogata;

– ha rideterminato la pena inflitta a S.A., nella misura di 1 anno e 2 mesi di reclusione ed Euro 5.000 di multa;

– ha rideterminato la pena inflitta a M.A., nella misura di 1 anno di reclusione ed Euro 4.000 di multa;

– ha concesso a quest’ultimo la sospensione condizionale della pena e la non menzione della condanna nel certificato del casellario giudiziale;

– ha rideterminato l’importo della somma dovuta alla parte civile, comprensiva del danno morale e della riparazione pecuniaria, L. n. 47 del 1948, ex art. 12, nella misura di Euro 30.000.

Ha condannato gli imputati al pagamento delle spese processuali nonchè al rimborso di quelle sostenute dalla parte civile liquidate complessivamente in Euro 1.500.

La corte territoriale ha, quindi, confermato la dichiarazione di responsabilità del S. e del M. in ordine ai reati di cui ai capi di imputazione:

M.:

1. art. 595 c.p., L. n. 47 del 1948, art. 13, per avere, quale autore dell’articolo che qui si intende integralmente riportato, dal titolo “Costretta ad abortire da genitori e Giudice”, apparso sul quotidiano (OMISSIS), stampato in (OMISSIS), offeso la reputazione di C.G., Magistrato presso il Tribunale Ordinario di Torino, affermando, tra l’altro:…Oltre al dolore, dunque restano poco chiare le circostanze di tutto l’accaduto, tanto che la Procura ha acquisito la documentazione dell’Ospedale;

affermazioni contrarie al vero, in quanto l’interruzione della gravidanza, autorizzata dal Giudice, fu decisa autonomamente dalla minore, nel rispetto della L. n. 194 del 1978, art. 12 e, pertanto, affermazioni idonee a ledere la reputazione della parte lesa; con l’aggravante di aver attribuito un fatto determinato;

S.:2. art. 595 c.p., L. n. 47 del 1948, art. 13, per avere, in qualità di direttore responsabile del quotidiano (OMISSIS) e quindi da intendersi autore dell’articolo redazionale a firma (OMISSIS), pseudonimo non identificabile e, pertanto, a lui riconducibile, che qui si intende integralmente riportato, dal titolo “Il dramma di una tredicenne. Il Giudice ordina l’aborto. La legge più forte della vita”, apparso sul sopra-citato quotidiano, il (OMISSIS), offeso la reputazione di C.G., Magistrato presso il Tribunale Ordinario di Torino, affermando, tra l’altro,….Un magistrato ha allora ascoltato le parti in causa e ha applicato il diritto – il diritto – decretando l’aborto coattivo. Salomone non uccise il bimbo, dinanzi a due che se lo contendevano; scelse la vita, ma deve essere roba superata, da antico testamento….Si sentiva la mamma. Era mamma. Niente. Kaput. Per ordine di padre, madre, medico e giudice per una volta alleati e concordi. Stato e famiglia uniti nella lotta.

Ci sono ferite che esigerebbero una cura che non c’è. Qui ora esagero. Ma prima domani di pentirmi, lo scrivo: se ci fosse la pena di morte, e se mai fosse applicabile in una circostanza, questo sarebbe il caso. Per i genitori, per il ginecologo e il giudice.

Quattro adulti contro due bambini. Uno assassinato, l’altro (l’altra, in realtà) costretto alla follia….Qui ci si erge a far fuori un piccolino e a straziare una ragazzina in nome della legge e del bene….Questo racconto tenebroso è specchio dei poteri che ci dominano. Lasciamo perdere i genitori, che riescono ormai a pesare come ingranaggi inerti. Ma che la magistratura e la medicina siano complici, ci lascia sgomenti.

Affermazioni contrarie al vero, in quanto l’interruzione della gravidanza, autorizzata dal Giudice, fu decisa autonomamente dalla minore, nel rispetto della L. n. 194 del 1978. art. 12 e,pertanto, affermazioni idonee a ledere la reputazione della parte lesa; con l’aggravante di aver attribuito un fatto determinato;

S.:

3. art. 57, 595 c.p., L. n. 47 del 1948, art. 13, perchè, quale direttore responsabile del quotidiano (OMISSIS), pubblicato in (OMISSIS), ometteva di esercitare sul contenuto dell’articolo dal titolo “Costretta ad abortire dai genitori e dal Giudice”, a firma di M.A., il controllo necessario ad impedire che con esso venisse offesa la reputazione di C.G., Magistrato presso il Tribunale Ordinario di Torino. Con l’aggravante di aver attribuito un fatto determinato.

2. Nell’interesse di M.A. è stato presentato ricorso per i seguenti motivi:

2.1 mancanza della motivazione; la sentenza impugnata si limita a rinviare alla motivazione della decisione di primo grado; omette di dar conto degli specifici motivi dedotti dalla difesa, i quali censuravano le argomentazioni esposte dal giudice di primo grado;

omette di giustificare il giudizio di inconsistenza o non pertinenza di detti motivi. La corte di appello rimprovera al M. di aver narrato i fatti, senza essere stato “neutrale”,cioè di essere portatore di “una visione del mondo”, senza tener conto che nel nostro ordinamento avere e comunicare un’opinione non è un delitto.

Comunque, nell’articolo l’autore si è limitato a raccontare ai lettori fatti di grande rilievo pubblico;

2.2. contraddittorietà della motivazione: nel giudicare le medesime parole, gli stessi titoli, le stesse ricostruzioni dei fatti, contenuti in articoli di altri quotidiani ( (OMISSIS)), diffusi il (OMISSIS), e nell’articolo del ricorrente, pubblicato il giorno successivo, la corte di appello ha ritenuto semplicemente erronea la notizia diffusa dai primi, mentre ha censurato penalmente il contenuto del secondo;

2.3 manifesta illogicità della motivazione: nella pagina 5 della sentenza, si afferma che non “sono emersi elementi tali da far ritenere l’autore dell’articolo estraneo alla scelta del titolo e delle fotografie”, senza tener conto che incombe sulla pubblica accusa l’onere di dimostrare la responsabilità e non sull’imputato l’onere di dimostrare la propria innocenza.

2.4. violazione di legge, in riferimento all’art. 595 c.p. e L. n. 47 del 1948, art. 13: al di là della mancata motivazione sull’elemento soggettivo del reato, nel senso di consapevole uso di espressioni di portata offensiva, va rilevato che l’articolo contiene un semplice pezzo di cronaca, finalizzato a informare i lettori sull’aborto della tredicenne, sulla procedura, sugli effetti pregiudizievoli per l’equilibrio della ragazza, che era stata ricoverata in neuropsichiatria dopo l’interruzione di gravidanza. La diffusione di questa notizia – la cui conoscenza rientra nell’interesse della collettività – si è articolata attraverso espressioni formalmente contenute (il riferimento al giudice nel titolo non è imputabile all’autore del saggio, in quanto questa parte dell’articolo notoriamente è di esclusiva competenza della redazione). D’altro canto, manca la prova che nella redazione del titolo sia stato partecipe il M.. La notizia è vera,in quanto i fatti realmente accaduti sono stati fedelmente ricostruiti.

3. Nell’interesse di S.A. è stato presentato ricorso per i seguenti motivi:

3.1. mancanza di motivazione: l’affermazione di responsabilità del S. per il reato di diffamazione, in ordine all’articolo dal titolo “Il Giudice ordina l’aborto”, il cui autore ha firmato con il nome (OMISSIS), è fondata sull’identificazione del ricorrente con la persona che si è servita di questo pseudonimo, senza che sia stato indicato su quali elementi sia fondata questa identificazione.

Secondo il ricorrente, non si è tenuto conto dei seguenti fatti: a) il direttore S. è stato sospeso, per due mesi, dall’Ordine dei Giornalisti della Lombardia, perchè ritenuto responsabile di aver consentito la collaborazione dell’attuale parlamentare F. R., il quale era stato radiato dall’Ordine medesimo; b) gli articoli per cui è causa sono stati pubblicati nel pieno del periodo della contestata collaborazione (20 ottobre 2006/luglio 2008); c) è documentalmente provato che lo pseudonimo adoperato dal F. è stato (OMISSIS);

d) anche se non vi è certezza che (OMISSIS) si identifichi nel F., manca la prova che S. abbia utilizzato questo pseudonimo ed è logicamente da escludere che l’imputato, nello scrivere un articolo, avesse motivo di celarsi sotto il nome di (OMISSIS);

e) è evidente che con la condanna del S. i giudici sono incappati in un grave quanto inescusabile errore di persona, al quale non può non applicarsi la disciplina prevista dall’art. 68 c.p..

Il ricorrente censura inoltre la sentenza,accusando la corte di appello di particolare “furore condannatorio”, laddove afferma che questo articolo “contiene espressioni più pesanti del precedente”, scritto dal M., senza indicare le espressioni oggetto di questo giudizio comparativo.

3.2. contraddittorietà della motivazione: nella sentenza impugnata si afferma che altri organi di stampa si erano affrettati a correggersi ben prima dell’uscita degli articoli per cui è processo, senza tener conto che:

a) le notizie dell’agenzia ANSA, nelle quattro note, diramate il (OMISSIS), alle ore 15,30, 19,56, 20,25, 20,50, con un susseguirsi di affermazioni e smentite, non hanno apportato alcuna chiarezza sulla notizia dell’aborto della minorenne e quindi non hanno dato alcuna possibilità di correggere eventuali errori dei giornalisti, tenendo anche conto che l’attività giornalistica si conclude, ogni giorno, tra le 20 e le 20,30 e che a quell’ora il giornale è già bello e pronto: quindi non vi era tempo per apportare correzioni;

b) l’eventuale non rispondenza al vero degli articoli comparsi il (OMISSIS) è quindi frutto di errore, non perseguibile penalmente, in quanto la diffamazione colposa non è contemplata dal codice penale.

3.3. illogicità della motivazione: la corte afferma che era facile, leggendo gli articoli, identificare nella parte civile C. il giudice in essi indicato, senza tener conto che:

a) nell’articolo di M. non si fa riferimento a soggetti o organi giudiziari, se non nel titolo, che non è riconducibile all’autore;

b) nell’articolo firmato (OMISSIS),si fa riferimento a un giudice, ma non a C.;

c) nel tribunale di Torino lavorano numerosi magistrati, sconosciuti al grande pubblico, il quale non ha avuto modo di ricollegare i fatti narrati alla persona del dr C.;

d) è illogico ritenere che la massa di due milioni di lettori di (OMISSIS), abbia identificato nell’articolo del 18 febbraio il C., in base alla nota ANSA, delle ore 20,50 del giorno precedente, in cui è stato indicato il suo nome.

3.4. violazione di legge in riferimento all’art. 595 c.p. e L. n. 47 del 1948, art. 13: l’articolo contiene una critica sui fatti narrati, la quale, secondo un consolidato orientamento interpretativo, non può essere rigorosamente obiettiva. Questa critica aveva come bersaglio non la persona del dr C. – la cui esistenza era ignota ai giornalisti e al direttore del quotidiano – ma l’insieme del sistema che consente a una bambina di abortire con il permesso di genitori, psicologi, assistenti sociali, ginecologi, magistrati.

Secondo il ricorrente la critica contenuta nell’articolo è priva di antigiuridicità, in quanto è caratterizzata da:

a) continenza espressiva: l’articolo non formula accuse di violazione di legge, ma intendeva convocare i protagonisti della vicenda davanti al Tribunale della Coscienza (o Tribunale della Giustizia, che non si identifica con la legge), non per aver mancato al proprio dovere, ma perchè lo hanno adempiuto fin troppo bene. Il dr C. ha dato l’autorizzazione alla minore di abortire, ritenendola in grado di decidere autonomamente su un tema così delicato, come la vita e la morte del proprio figlio. L’articolista ha considerato una tredicenne non sufficientemente matura e consapevole per assumere questa decisione e ha ritenuto che il giudice finga nel riconoscerle queste qualità. In realtà, il giudice, in questa normativa è chiamato a certificare ciò che non è e non può essere, vale a dire è chiamato a certificare il falso. Il dr C., consapevole di questa finzione e di questa falsa certificazione, avrebbe potuto seguire la nobile via dell’obiezione di coscienza. La corte,inoltre, se avesse preso conoscenza dei termini usualmente adoperati nei contrasti tra sostenitori e oppositori alla libertà di aborto, avrebbe rilevato che le espressioni impiegate nell’articolo sono pienamente compatibili con la cornice fortemente polemica che contraddistingue il confronto delle opposte idee in questa materia.

Quando l’articolista scrive che al caso si attaglierebbe la pena di morte a tutti i protagonisti della vicenda, vuole sollevare il paradosso di una provocazione, che non riguarda C.. L’autore, in perfetta simmetria con il carattere retributivo della sanzione che dovrebbe punire l’aborto – ritenuto dagli anti-abortisti un omicidio – prospetta l’unica pena adeguata e coerente: la pena di morte, per gli abortisti che danno la morte.

Questa cornice polemica è ben nota al querelante, che risulta militare ideologicamente nel campo abortista, grazie all’emergere di una sua iniziativa, moralmente condannata dal sindaco di Torino, Ch.. Il C. è infatti assurto agli onori della cronaca nazionale, avendo preso la singolare iniziativa di telefonare a quel sindaco, accusando l’assessore alla Politiche Sociali, di rifiutare, quale tutore di minorenni, il proprio assenso all’aborto.

Il giudice – ben consapevole del retroterra politico, culturale, ideologico dell’articolo in esame – avrebbe dovuto quindi non presentare istanza punitiva, ma accettare il dibattito, replicando pubblicamente o chiedendo la diffusione di una precisazione sul quotidiano.

b) verità della notizia: trattandosi di un articolo, in cui vi sia stato esercizio del diritto di critica, costituente attività speculativa, non può pretendersi un’asettica e fedele rappresentazione che conduca a un giudizio rigorosamente obiettivo e imparziale, siccome bagaglio culturale e politico di chi lo formula (sez. 5, n. 40408 del 22.5.09);

c) assenza dell’elemento psicologico: la critica aveva come bersaglio non la persona del dr C., ma l’insieme del sistema che consente a una bambina di scegliere liberamente di abortire; il querelante, forse animato da un involontario e inconsapevole senso di rivalsa verso le posizioni avverse, manifestate nelle polemiche di alcuni mesi prima, ha inteso porre una pietra tombale su queste polemiche.

3.5 A seguito della pubblicazione dell’articolo del quotidiano ” (OMISSIS)”, il (OMISSIS), (OMISSIS) ha ritenuto affidabili le informazioni, diffuse da una fonte autorevole, pubblicata nella città in cui si erano svolti i fatti, nonchè confermate dalle note dell’ANSA. Ha quindi deciso di pubblicare i due articoli, adottando la cautela di non fare il nome di alcuno dei protagonisti. Quanto ai titoli (“Costretta ad abortire da genitori e giudice”, “Il giudice ordina l’aborto”), in essi era contenuto un rimprovero diretto non su un singolo giudice, ma sull’intero ufficio, il cui dirigente non ha ritenuto la sussistenza di alcuna infrazione, meritevole di querela.

L’eventuale incongruenza tra i titoli e il dato formale del provvedimento autorizzativo è frutto di un errore, scusabile ex art. 47 c.p.. Ove l’errore sia ritenuto causato da disattenzione o negligenza, si tratterebbe di una colposa condotta diffamatoria, penalmente non rilevante.

3.6 violazione di legge in riferimento agli artt. 62 bis e 163 c.p.:

la corte di merito avrebbe dovuto considerare che, i giornalisti hanno il dovere di informare l’opinione pubblica, che, a sua volta, ha il diritto di essere informata. In questo intreccio di posizioni costituzionalmente tutelate, la diffamazione commessa da un giornalista non è la stessa cosa, non ha la medesima gravità, non esprime una pericolosità criminale della diffamazione commessa da un cittadino qualunque. Il giornalista è incaricato di una funzione che è tutelata sul piano costituzionale ed è stata riconosciuta dalla Corte Europea, che con sentenza 2.4.09 ha condannato la Grecia per violazione dell’art. 10 CEDU, per aver inflitto la pena detentiva a un giornalista, ritenuto colpevole di diffamazione. Nella sentenza impugnata, la corte di merito ritiene che la pena detentiva abbia un effetto deterrente sulla libertà del giornalista di informare, con effetti negativi sulla collettività, che, a sua volta ha diritto di essere informata. Ai fini della concessione delle attenuanti generiche, va considerato che il lavoro del giornalista gode di una protezione di rango costituzionale, rispetto al pericolo di offendere la sensibilità altrui, nel senso che fra il rischio di ledere l’onorabilità e quello di limitare la libertà di stampa, quello primariamente da evitare è il secondo. Pertanto la corte, esercitando il proprio potere discrezionale, avrebbe dovuto concedere le attenuanti generiche, con giudizio di prevalenza, irrogando la pena nella misura del minimo edittale. Secondo il ricorrente, non ha giustificazione,poi, la mancata concessione della sospensione condizionale della pena, che assume il significato di una persecuzione di carattere personale, del tutto inutile: il giornalista, anche in carcere, può continuare a scrivere articoli, per cui è ridicola la preoccupazione della corte di merito per eventuali futuri reati. La sospensione condizionale della pena va concessa facendo riferimento ai criteri di valutazione di cui all’art. 133 c.p.: la natura, la specie, i mezzi, l’oggetto, il tempo,il luogo e le altre modalità dell’azione (nessuno è denotato di pericolosità); la gravità del danno (inesistente); l’intensità del dolo o della colpa (inesistente e comunque minima); i motivi a delinquere (inesistenti); i precedenti penali, la condotta antecedente (illibata, tranne alcune condanne per diffamazione come accade al 100% dei giornalisti in attività); la condotta contemporanea e susseguente al reato(nulla da segnalare); le condizioni di vita familiare, individuale e sociale (nulla da segnalare). S. appare quindi più che meritevole dei benefici negatigli.

3.7 violazione di legge e vizio di motivazione, in riferimento all’art. 2697 c.c.: la corte di merito, parametrando la concessione del risarcimento e la sua dimensione ha deciso sul punto in modo del tutto arbitrario e in assenza di qualunque motivazione sul fatto, lesivo, sul nesso di causalità, sul danno in sè, sulla sua quantificazione.

Motivi della decisione

4. Il rango della CEDU e della giurisprudenza della Corte di Strasburgo nell’ordinamento giudico italiano.

In via preliminare va rilevato che nel ricorso (pag. 3) è formulata una generica censura nei confronti delle sentenze dei giudici di merito, accusate di aver trascurato il rango costituzionale del diritto del giornalista di manifestare liberamente il proprio pensiero, sancito dall’art. 21 Cost.;

viene altresì rilevato il gravissimo danno che ne deriverebbe se trovasse conferma la condanna a pena detentiva, sancita dalla sentenza di secondo grado.

A pag. 44, nella critica al trattamento sanzionatorio, il ricorrente da rilievo alla diretta tutela non solo di rango costituzionale, prevista nel nostro ordinamento,per la funzione del giornalista, ma anche al livello transnazionale di questa tutela, riconosciuta, dall’art. 10, dalla Convenzione Europea dei diritti dell’uomo (CEDU), e la cui violazione si è concretizzata nella sentenza di condanna 2 aprile 2009, emanata dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo, nei confronti della Grecia.

Secondo il ricorrente, la corte di merito avrebbe dovuto considerare, almeno ai fini della concessione delle attenuanti generiche, “come il lavoro giornalistico goda di una protezione di rango costituzionale e addirittura sovranazionale sul piano dei diritti umani e come perciò, proprio in quanto più di ogni altro esposto alla eventualità di offendere la sensibilità di qualcuno, meriti in ogni caso una speciale forma di tutela”.

Queste censure di carattere generale, a prescindere dalla valutazione che sarà più innanzi compiuta sulla specifica ammissibilità e fondatezza dei singoli motivi, propongono nel presente procedimento non trascurabili questioni di conformità della decisione impugnata – con particolare riguardo alla condanna a pena detentiva – ai principi delle seguenti fonti normative primarie:

1. la Costituzione italiana, deliberata dal’Assemblea Costituente il 22 dicembre 1947 ed entrata in vigore l’1 gennaio 1948, espressione della chiusura, anche formale, del periodo della tirannia e della cancellazione dei diritti fondamentali dell’uomo e del ritorno, irreversibile e senza contraddizioni, alla democrazia e al rispetto di tali diritti;

2. la Convenzione Europea CEDU Ratificata e resa esecutiva nel nostro ordinamento con la L. 4 agosto 1955, n. 848, poi integrata da interventi legislativi, che hanno consolidato e ampliato l’obbligo dello Stato italiano e dei cittadini a conformarsi a questa disciplina normativa elaborata e formata al di fuori dei confini nazionali, nonchè l’obbligo degli organi giurisdizionali di conformarsi alla sentenze della Corte Europea, che ne abbia accertato la violazione (tra le altre, L. 15 febbraio 2005, n. 280, che ha autorizzato la ratifica e ha dato esecuzione al Protocollo n. 14 della CEDU, il quale ha emendato il sistema di controllo dell’osservanza della CEDU al fine di rafforzarne l’efficacia; la L. 9 gennaio 2006, n. 12, cha ha specificato le competenze degli organi del Parlamento e del governo,nel promuovere e nel realizzare gli adempimenti, conseguenti alle sentenze della Corte Europea; il D.P.R. 28 novembre 2005, n. 289, che ha previsto l’iscrizione nel casellario giudiziale dell’estratto delle sentenze definitive della Corte Europea, riconoscendone formalmente la rilevanza nell’ordinamento interno).

La questione sulla fedeltà della decisione impugnata ai principi e alle regole di questa seconda fonte normativa è di estrema rilevanza, in quanto si pone all’interno della problematica della nuova e più ampia dimensione delle regole giuridiche che i giudici italiani sono tenuti a rispettare nell’esercizio della giurisdizione civile e penale.

Dottrina e giurisprudenza hanno evidenziato che, dopo un’iniziale fase, in cui le norme CEDU sono state poco incisivamente applicate, è in via di consolidamento un’influenza crescente dei principi sanciti dalla Convenzione e dai suoi protocolli, nonchè prende crescente consistenza il ruolo di punto di riferimento delle sentenze che – partendo dalla ormai indiscussa efficacia delle norme Europee nell’ordinamento interno e dell’obbligo per il giudice italiano di applicare la norma pattizia (S.U civili n. 28507 del 23.12.05, rv 586701) (La sentenza ha affermato che la L. n. 848 del 1955, “provvedendo a ratificare e rendere esecutiva la Convenzione, ha introdotto nell’ordinamento interno i diritti fondamentali, aventi natura di diritti soggettivi pubblici, previsti dal titolo primo della Convenzione e, in gran parte coincidenti con quelli già indicati nell’art. 2 Cost., rispetto al quale il dettato della Convenzione assume una portata confermativa ed esemplificativa (Corte cost. 22.10.1999, n. 388)”. In tema di equa riparazione per la irragionevole durata del processo ai sensi della L. n. 89 del 2001, art. 2, la Corte, non ha ravvisato la fonte del riconoscimento del relativo diritto nella sola normativa nazionale (L. n. 89 del 2001), coincidendo il fatto costitutivo del diritto attribuito dalla legge nazionale con la violazione della norma contenuta nell’art. 6 della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo e, quindi, di immediata rilevanza nell’ordinamento interno. Pertanto il diritto all’equa riparazione del pregiudizio derivato dalla non ragionevole durata del processo, verificatosi prima della entrata in vigore della citata L. n. 89 del 2001, è stato riconosciuto dal giudice nazionale, a norma della sola norma prevista dall’art. 6 della Convenzione, anche in favore degli eredi della parte che abbia avviato, prima di tale data, il giudizio del quale ha lamentato la durata eccessiva (essendo risultato che la domanda di equa riparazione non era stata precedentemente proposta alla Corte di Strasburgo e dalla stessa dichiarata ricevibile).) – hanno positivamente affrontato il tema degli effetti delle sentenze della Corte Europea sul singolo processo, in cui sia stata accertata una violazione di una norma CEDU, anche quando essa non sia conforme al diritto interno. Le norme convenzionali, infatti “fanno sistema con l’art. 2 Cost., fonte assiologia interna, in quanto i diritti riconosciuti dalla Convenzione sono inviolabili, perchè funzionali alla dignità della persona” (sez. 3 civ, n. 19985 del 24.6.2011). Di qui l’obbligo del giudice di tener presenti, in modo congiunto ed integrativo, i diritti costituzionalmente garantiti e i diritti convenzionalmente protetti. La Cassazione penale ha affrontato il tema dei rapporti tra le sentenze della Corte Europea (che abbiano accertato la sussistenza di una violazione di una norma della CEDU in un determinato processo) e il giudicato che, nell’ordinamento interno, si sia già verificato in quello stesso processo. Due sentenze ravvicinate della prima sezione (la n. 32678 del 12.7.06 e la n. 2800 dell’1.12.06) e due sentenze della quinta sezione (la n. 4395 del 2.2.07 e la n. 16507 dell’11.2.2010), sia pure da diverse angolazioni di fatto e di diritto, hanno concordato sull’esigenza del superamento del giudicato, una volta che la Corte Europea abbia accertato una violazione della CEDU (Questo orientamento si è sviluppato in conformità al principio della sussidiarietà della tutela Europea, sancita dal disposto dell’art. 35 della CEDU, secondo cui la Corte non può essere adita se non dopo l’esaurimento delle vie di ricorso interne. Inoltre l’art. 13 della CEDU attribuisce ad ogni persona, “i cui diritti e le cui libertà riconosciuti dalla presente Convenzione siano stati violati” il diritto a un “effettivo ricorso dinanzi a un’istanza nazionale”, che la ponga nelle condizioni in cui si sarebbe trovata se non fosse stata violata la disposizione della CEDU. Il problema sorge quando la legislazione nazionale – come quella italiana – non preveda una specifica procedura di revisione del processo.

La citata sentenza n. 16507, rv 247244 – in sede di ricorso straordinario, ex art. 625 bis cod. proc. pen., mirante ad ottenere la sostituzione della pena inflitta con quella ritenuta equa dalla sentenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo – ha riconosciuto il diritto del condannato ad ottenere la modifica della pena e il corrispondente obbligo del giudice italiano che – preso atto della ineseguibilità del giudicato, conseguito in violazione degli artt. 6 e 7 della CEDU – per il fatto nuovo, costituito dalla sentenza della Corte Europea, è tenuto a rideterminare la pena in misura rispondente alla normativa della Convenzione Europea. Nel caso in esame, la Corte ha provveduto direttamente alla riduzione della sanzione e al suo adeguamento alla decisione della Corte Europea.

La Corte costituzionale, avendo rilevato la non adeguatezza, come definitivo rimedio a tale vuoto normativo, dell’utilizzazione del ricorso straordinario ex art. 625 bis c.p.p., ha ritenuto, a fronte di un vulnus costituzionale non sanabile in via interpretativa, di imporre al legislatore la creazione della necessaria procedura interna per consentire all’interessato di giungere alla dovuta restituito in integrum. Ha così dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 630 c.p.p., nella parte in cui non prevede un diverso caso di revisione, volto specificamente a consentire (per il processo definito con una delle pronunce indicate dall’art. 629 c.p.p.) la riapertura del processo necessaria, a norma dell’art. 46, par. 1 della CEDU, per conformarsi a una sentenza definitiva della Corte Europea, ferma restando la libertà del legislatore di regolare, con diverso istituto il meccanismo di adeguamento alle pronunce della Corte di Strasburgo.).

Questo indirizzo ha trovato conferma nella giurisprudenza del giudice delle leggi – che, a partire dalle decisioni n. 348 e 349 del 2007, è costante nel ritenere le norme della CEDU – nel significato loro attribuito dalla Corte Europea, specificamente istituita per dar loro interpretazione e applicazione (art. 32) – integrino, come fonte sub – costituzionale, parametro interposto di legittimità costituzionale per il tramite dell’art. 117 Cost., comma 1, nella parte in cui impone la conformazione della legislazione interna ai vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali (sentenze n. 1 del 2011; nn. 196, 187 e 138 del 2010;

nn. 317 e 311 del 2009, n. 39 del 2008). Secondo questo orientamento (sinteticamente ed efficacemente ribadito dalla sentenza n. 113/2011), ove si profili un contrasto tra norma convenzionale e norma interna, il giudice nazionale deve verificare la praticabilità di un’interpretazione della seconda in senso conforme alla Convenzione, avvalendosi di ogni strumento a sua disposizione e, ove tale verifica dia esito negativo, egli deve denunciare la rilevata incompatibilità, proponendo questione di legittimità costituzionale. A sua volta,la Corte costituzionale, pur non potendo sindacare l’interpretazione della CEDU data dalla Corte Europea, è legittimata a verificare se la norma della Convenzione si ponga eventualmente in conflitto con norme della nostra Costituzione. In caso di accertata sussistenza di tale conflitto, la Corte esclude però l’idoneità della norma convenzionale – in collocazione mediana tra le fonti di diritto – a integrare il parametro di costituzionalità sopra considerato “per evitare il paradosso che una norma legislativa venga dichiarata incostituzionale in base a un’altra norma sub-costituzionale,a sua volta in contrasto con la Costituzione” (sent. n. 348/2007).

Questo orientamento ha ricevuto conferma, sotto altro profilo, dalla sentenza della Corte n. 80 del 2011, la quale, ha ribadito l’esclusione dell’applicazione diretta delle disposizioni CEDU nel nostro ordinamento, anche dopo l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, confermando implicitamente la loro funzione di parametro interposto nel controllo della legittimità delle norme nazionali. In definitiva, secondo il consolidato orientamento del giudice delle leggi, le disposizioni interne contrastanti con la CEDU, come interpretate dalla giurisprudenza della Corte Europea, non possono essere disapplicate,in sede di sindacato diffuso del giudice ordinario, ma possono essere sottoposte al controllo di costituzionalità accentrato riconosciuto alla Corte costituzionale.

Questo problema di compatibilità tra le norme interne (art. 595 c.p. e L. n. 47 del 1948, art. 13) e l’intermedia norma Europea (art. 10 CEDU, nella sua interpretazione giurisprudenziale) in riferimento all’art. 117 Cost., comma 1, e la verifica dell’eventuale esigenza di trasmissione degli atti alla Corte, per sollecitare l’accentrato controllo di legittimità costituzionale, non risultano affrontati dai giudici di primo e secondo grado, in quanto non sono stati prospettati con la dovuta argomentazione dagli imputati. Nè è risultata giustificata un’iniziativa d’ufficio, da parte dei giudici medesimi, finalizzata all’attivazione della procedura di verifica, tracciata dal suindicato orientamento del giudice delle leggi.

Questa omissione è incensurabile, non essendo manifesta alcuna difformità delle norme penali in questione rispetto al disposto dell’art. 10 CEDU, il cui comma 2 espressamente prevede che l’esercizio della libertà di opinione e la libertà di ricevere o di comunicare informazioni o idee “può essere sottoposto alle formalità, condizioni, restrizioni o sanzioni che sono previste dalla legge e che costituiscono misure necessarie, in una società democratica, … per la protezione della reputazione e dei diritti altrui, per impedire la divulgazione di informazioni riservate o per garantire l’autorità e l’imparzialità del potere giudiziario”.

Tre sono quindi le condizioni richieste dall’art. 10 della Convenzione, per giustificare l’intervento limitativo della Stato:

l’ingerenza punitiva – deve essere prevista dalla legge;

– deve perseguire il fine di proteggere diritti fondamentali altrui, tra cui indica espressamente la reputazione;

– deve essere necessaria (Secondo la sentenza 17.7.08, Riolo c. Italia, l’aggettivo necessario implica l’esistenza di un “bisogno sociale imperioso”, il cui accertamento compete allo Stato contraente con un margine di apprezzamento, sottoposto a “un controllo Europeo, riguardante al tempo stesso la legge e le decisioni che le danno applicazione, anche quando esse promanano da un organo giurisdizionale indipendente”. L’ultima parola, nel dirimere la questione sul conflitto dei diritti fondamentali spetta alla Corte Europea – nuova e unica Corte Suprema -, che è competente a deliberare “in ultimo luogo se una restrizione si concilii con la libertà di espressione tutelata dall’art. 10”.) in una società democratica.

L’esito positivo della verifica – praticabile in questa sede – sulla sussistenza di queste condizioni, rende comunque necessaria la lettura delle censure e delle sentenze dei giudici di merito, non solo sotto il profilo della loro corrispondenza ai fatti accertati e alla loro corretta qualificazione tecnico-giuridica, ma anche sotto il profilo della loro fedeltà, in materia di diritti fondamentali della persona e libertà di manifestazione del pensiero, stabiliti da regole di rango costituzionale e subcostituzionale, nazionale e sovranazionale. Questo sindacato va sviluppato, fermo restando il principio della sussidiarietà della tutela Europea, sancita dal disposto dell’art. 35 della CEDU, secondo cui la Corte Europea di Strasburgo può essere adita dopo l’esaurimento delle vie di ricorso interne, nell’ipotesi di ritenuta violazione delle norme CEDU. 5. Il confronto e l’ontologico conflitto tra alcuni diritti fondamentali della persona.

In una prospettiva di dimensione interna ed Europea della questione in esame, va quindi affrontato il tema concernente la sussistenza degli elementi che consentano di ritenere adeguatamente giustificata (alias, necessaria) la condanna dei giornalisti, a tutela della reputazione della parte civile, o di ritenere tale condanna un’indebita ingerenza punitiva nella libertà di opinione e nella libertà di ricevere o di comunicare informazioni o idee, nel campo della giustizia, ferma restando la competenza della Corte Europea di “deliberare in ultimo luogo sulla questione”. Prima di esaminare le specifiche doglianze contenute nei motivi dei ricorsi – si ritiene di ripercorrere,nelle misura strettamente necessaria, l’antico e delicatissimo confronto di opinioni riguardante i rapporti tra:

a) i diritti dell’onore e della reputazione,ricompresi tra i diritti inviolabili della persona, affermati e tutelati dagli artt. 2 e 3 Cost. e dalle norme del titolo primo della Convenzione (nella misura in cui questi ultimi assumano “una portata confermativa ed esemplificativa” dei primi – Corte cost. 22.10.1999, n. 388);

b) il diritto di manifestare e diffondere liberamente, le proprie conoscenze, il proprio pensiero, affermato e tutelato dall’art. 21 della medesima Carta fondamentale, che va letto anche in riferimento alla disciplina fissata dalla norma dell’art. 10 della CEDU e dalla giurisprudenza, quali parametri interposti di legittimità costituzionale delle norme ordinarie nazionali.

Va innanzitutto richiamata la sentenza della Corte costituzionale n. 38 del 12 aprile 1973, che ha posto l’art. 2 Cost. al centro dell’intero ordinamento,visto come punto di riferimento per la persona umana, nella sua complessità e unitarietà di valori e di bisogni.

Questa fondamentale sentenza ha ricompreso tra i diritti inviolabili dell’uomo, in quanto rilevanti per il libero sviluppo e per la libera autodeterminazione della persona umana, il diritto all’onore, che traduce in termini giuridici il valore essenziale dell’insopprimibile dignità di ciascun consociato, unitamente al diritto alla reputazione. (La reputazione differisce dall’onore per il suo carattere correlato alla personalità effettiva e storica del soggetto passivo, mentre l’onore si correla ad un valore di dignità sociale uguale per tutti (art. 3 Cost.: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale…”). Nel codice penale,la reputazione è tutelata non solo come dignità indivisibile e comune a tutti gli uomini, ma anche come riflesso dell’onore nella valutazione sociale, cioè come considerazione, credito sociale che ciascuno si è guadagnato nell’esercizio delle sue attività.) L’art. 3, inoltre, non solo consacra la pari dignità sociale del singolo, ma impegna la Repubblica a garantire il libero e pieno sviluppo della persona umana, in una sfera di riconosciuta autonomia e libertà.

La sentenza della prima sezione civile n. 978 del 7.2.1996, afferma correttamente il carattere unitario dei diritti della personalità, tutti radicati in un principio di autonomia, protetto dall’art. 2 Cost. e art. 3 Cost., comma 2.

Tra gli ostacoli alla realizzazione di questi interessi si pongono, tra l’altro, primariamente le azioni che si traducano in alterazioni delle idee e dei comportamenti, attraverso cui autonomia e personalità si siano realizzati e caratterizzati. Viene così a profilarsi il potenziale, ontologico confligere con altri diritti costituzionalmente garantiti, con particolare riguardo al diritto di cui al già citato art. 21 della Costituzione e alla disciplina CEDU, visto nella dimensione del diritto di informazione.

Correttamente, nella sentenza del 19.2.1965, n. 65, la Corte da atto che la libertà sancita dall’art. 21 è una di quelle “che meglio caratterizzano il regime vigente dello Stato, condizione del modo di essere, dello sviluppo, della vita del Paese, in ogni suo aspetto culturale, sociale e politico”.

Secondo la citata sentenza della Corte Europea 17.7.2008, Riolo e. Italia, “La stampa gioca un ruolo eminente in una società democratica: se, da un lato, non deve oltrepassare certi limiti, che derivano in particolar modo dalla protezione della reputazione e dai diritti altrui, dall’altro le spetta tuttavia di comunicare, nel rispetto dei suoi doveri e delle sue responsabilità, informazioni e idee su tutte le questioni di interesse generale, comprese quelle della giustizia”.

Va ben precisato che il cittadino ipotizzato dalla nostra Costituzione e dalla normativa Europea – oltre che partecipe di una società in cui gli sono riconosciute pari dignità e libertà di realizzare e sviluppare la propria personalità, al riparo di ingerenze e interventi manipolatori – è titolare del diritto di esprimere il proprio pensiero. Egli, nell’angolo prospettico che qui rileva, è libero di soddisfare il proprio impulso individuale di socializzare, comunicando agli altri consociati le proprie conoscenze e opinioni. E’ di tutta evidenza l’indissolubile intreccio tra diritto di informare (diritto di esprimere,informando, il proprio pensiero); diritto di informarsi (come presupposto del diritto di informare); diritto di ricevere informazioni, necessarie per adottare scelte meditate e consapevoli nel campo politico e culturale.

Il cittadino, nell’immettersi nel circuito informativo notoriamente può entrare in collisione con i diritti fondamentali di altri cittadini, creando il problema del bilanciamento, della prevalenza, del sacrificio delle posizioni in conflitto. Correttamente, la giurisprudenza di merito e di legittimità esclude ruoli gregari e gerarchie di valori nella risoluzione dei ricorrenti conflitti: va esclusa ogni acritica ed incondizionata prevalenza dell’uno o dell’altro diritto, dovendosi privilegiare un indirizzo ermeneutico duttile e articolato, basato sull’idea centrale del bilanciamento razionale, che veda il sacrificio del diritto individuale della persona condizionato a un effettivo vantaggio della collettività. La divulgazione di fatti lesivi dei diritti della persona è giustificato dall’interesse a che questi fatti siano conosciuti, in quanto ciò è essenziale alla formazione della pubblica opinione “in modo che ognuno esattamente informato possa fare le proprie scelte nel campo religioso,politico della scienza, della cultura. Prevale in questo caso l’interesse pubblico all’informazione…a patto che il rendimento sia effettivo; perciò occorre che i fatti divulgati siano veri o almeno seriamente accertati e che la divulgazione avvenga in termini di adeguatezza” (sez. 4, del 23.4. 1986, in Cass. Pen. 1988, 273; id del 3.5.1985, ivi, 1987, 78).

Nel caso in esame, il thema decidendum – in questo confronto tra principi e norme di rango costituzionale, intermedio e ordinario – si incentra su interrogativi così scanditi progressivamente: le espressioni contenute negli articoli hanno leso il diritto fondamentale della reputazione del querelante? In caso di risposta affermativa, le condanne dei due giornalisti per le espressioni diffamatorie, costituiscono o meno misure necessarie, in una società democratica, per la protezione di tale diritto fondamentale? Impiegando espressioni più centrate sull’antefatto storico, il secondo quesito può essere, ancor più specificamente, così formulato; la divulgazione di fatti lesivi della reputazione della persona offesa, compiuta dal quotidiano (OMISSIS), il giorno (OMISSIS), è giustificata dall’interesse a che questi fatti fossero conosciuti dai consociati,ai fini della formazione di una pubblica opinione, i cui componenti potessero in futuro fare le proprie consapevoli e meditate scelte culturali e operative, nei connessi campi dell’etica, della politica, della scienza, della cultura, in riferimento al tema centrale della vicenda della minorenne? La pretesa che sia riconosciuta prevalenza all’interesse pubblico all’informazione e sia imposto il sacrificio dei diritti della persona, è basata su un effettivo “rendimento sociale”, in virtù della verità dei fatti divulgati o almeno del serio accertamento di questa verità, grazie ai quali la pubblica opinione è stata informata che,nell’ambito della disciplina di cui alla L. n. 194 del 1978, art. 12, comma 2 l’aborto di una tredicenne è avvenuto su costrizione congiunta dei genitori, del sanitario, del magistrato, con un duplice effetto esecrabile (la non voluta morte del nascituro, la follia della giovane gestante)? Sotto lo stretto profilo della lamentata violazione della libertà di opinione, c’è stato un confronto leale tra sostenitori della libertà della donna di decidere, nei limiti della legge dello Stato, sulle proprie scelte di vita e sostenitori dell’esistenza di una legge superiore,idonea a comprimere e a cancellare questa libertà? La risposta a questi interrogativi è stata data dai giudici di merito, sulla base di un quadro storico, ricostruito in maniera assolutamente insindacabile, in quanto gli accertamenti fattuali sono il risultato di una fedele analisi e di una razionale interpretazione delle prove documentali e dichiarative, nel pieno rispetto di tutte le regole introdotte nell’ordinamento attraverso le procedure democratiche,fissate dalla Corte fondamentale.

6. IL FATTO. La Corte di Cassazione è giudice della logica delle decisioni dei giudici di merito che hanno ricostruito un fatto, hanno interpretato una norma, concludendo sul punto della rispondenza o meno della previsione normativa al dato storico accertato.

Con particolare riguardo all’ipotesi della ritenuta diffamazione a mezzo stampa, il giudizio di legittimità – nel suo percorso diretto alla verifica della rispondenza delle parole e/o dei segni grafici alla previsione sanzionatrice della normativa penale e civile – si articola in un duplice momento fattuale;

a) attraverso la ricostruzione del dato storico che è stato rappresentato e rievocato tramite la condotta (dello scrivere, del parlare, del disegnare), qualificata diffamatoria dai giudici di merito;

b) attraverso la ricostruzione di questa condotta narrativa e valutativa del giornalista.

La complessa posizione del S. – a cui sono stati contestati i reati di cui ai capi 2 (diffamazione a mezzo stampa di C. G.) e 3 (omesso controllo nella diffamazione addebitata al M.) – rende preferibile anteporre l’esame degli elementi di accusa e difesa che lo riguardano, cominciando dal punto relativo alla sussistenza dell’efficacia diffamatoria del contenuto dell’articolo anonimo, per poi passare al punto relativo alla configurabilità della sua responsabilità in ordine al reato di diffamazione.

6 a) Le sentenze dei giudici di merito – le quali avendo seguito un iter argomentativo comune, sono da considerare unitario risultato di un organico e inscindibile accertamento giudiziale – quanto al primo momento fattuale, hanno verificato la fondatezza dell’ipotesi di accusa, essendo emerso,in maniera incontrastata, quanto segue.

Con atto datato 22.1.2007, a firma del medico del reparto Ginecologia/37, la ASL (OMISSIS) di Torino ha trasmesso all’ufficio del Giudice Tutelare del tribunale della medesima città la richiesta di autorizzazione, L. n. 194 del 1978, ex art. 12, “in merito alla richiesta di interruzione volontaria di gravidanza” della minore O.G.L.A.. Il 25 gennaio, sono state trasmesse la relazione, redatta dalla psicologa dell’ambulatorio della medesima ASL (OMISSIS), e la relazione,redatta dall’assistente sociale, della 8^ Circoscrizione del comune di Torino.

Nella prima, la dottoressa riferisce di due colloqui, avvenuti il 9 e il 24 gennaio, nel corso dei quali “la minore si è dichiarata decisa ad interrompere la gravidanza dichiarando di non sentirsi preparata alla maternità e riconoscendo di essere essa stessa ancora carica di problemi connessi alla propria tormentata storia personale”. Nella seconda relazione, l’assistente sociale, dato atto di colloqui con la minore e con la madre, ha espresso “parere positivo circa l’interruzione della gravidanza, in quanto la ragazza è fortemente in difficoltà e di conseguenza non ha alcuna risorsa per poter diventare genitore”. In entrambe le relazioni, si riferisce della volontà della minore di non dare comunicazione del fatto al padre.

L’ufficio del giudice tutelare del tribunale, in persona del dr C.G., il giorno 30 gennaio 2007, ha esaminato la minore O.G., nata a (OMISSIS), adottata, nell’anno 2000, all’età di circa 7 anni dai coniugi B. – O. (genitori di un figlio affetto da sindrome di Prader Willi, invalido al 100%). Il giudice ha poi esaminato separatamente la madre adottiva, B.S.. Tale indagine è stata effettuata, in quanto il padre adottivo, su richiesta della minore, non era stato messo a conoscenza dello stato di gravidanza della figlia e non aveva quindi dato l’assenso all’interruzione di gravidanza, previsto dal comma 2 dell’art. 12 della legge citata. A seguito di questi adempimenti,il giudice esaminata la donna-sotto il profilo della sussistenza della sua volontà di interrompere la gravidanza – rilevato che “nel corso dell’audizione la minore ha ribadito di non sentirsi ancora pronta per una maternità, che non ha voluto e che non si sente in grado di affrontare; rilevato che non ci sono elementi per ritenere che sulla sua decisione abbiano influito coloro con i quali si è confidata (la madre ed il suo ragazzo, anch’esso minorenne)…..;

rilevato che la minore si è mostrata inflessibilmente motivata ad interrompere la gravidanza e a non avvalersi delle alternative all’IVG, sulle quali ancora oggi è stata informata; ritenuto che la decisione della minore di interrompere la gravidanza appare sintonica con il suo livello psicologico e con le proiezioni nella realtà che fa di sè….vista la documentazione medica attestante, alla data del 22.1.2007, la gravidanza in atto alla 7^ settimana”, ha disposto, in quella stessa data del (OMISSIS), l’autorizzazione della minorenne “a decidere autonomamente circa l’interruzione della gravidanza in atto”.

E’ incontestata la perfetta conformità del provvedimento alla previsione legislativa, di cui alla L. n. 194 del 1978, art. 12, comma 2, secondo cui “Il giudice tutelare, entro cinque giorni, sentita la donna e tenuto conto della sua volontà, delle ragioni che adduce e della relazione trasmessagli, può autorizzare la donna con atto non soggetto a reclamo, a decidere la interruzione della gravidanza”.

Fissata la data dell’aborto al (OMISSIS), presso l’ospedale (OMISSIS), l’intervento di interruzione di gravidanza, a causa del ricovero in ospedale (OMISSIS) della giovane donna, in data (OMISSIS), in stato confusionale e critico, per assunzione di alcol e stupefacenti, è stato anticipato al giorno 6 febbraio,presso il centro materno- infantile dell’ospedale (OMISSIS), con dimissione nel giorno successivo e con prescrizione di recarsi al servizio territoriale di neuro-psichiatria infantile. In tale contesto, la B. – separata dal marito dal (OMISSIS) – ha manifestato la propria temporanea incapacità a gestire da sola la figlia, la quale – già in carico dal 2000 al servizio di neuro psichiatria infantile – è stata ricoverata, il 9.2.07, presso il reparto NPI dello ospedale infantile (OMISSIS), ove è rimasta sino al 14 marzo successivo, data in cui è stata affidata, con provvedimento del tribunale per i minorenni, ad una comunità alloggio.

6 b) In data (OMISSIS), sono iniziate e si sono sviluppate – ad opera dei mezzi di comunicazione – le seguenti narrazioni e valutazioni sulla predetta vicenda,avente come protagonista O. G., alias V.:

– nel quotidiano (OMISSIS), è stato pubblicato un articolo,a firma di L.G., con il titolo “Costretta ad abortire impazzisce” e con sottotitolo “Tredicenne vuole tenere il bambino ma i genitori e giudice dicono no”; il testo così inizia: “Dramma per una ragazzina di 13 anni: rimasta incinta, è stata obbligata ad abortire con una decisione del Giudice. Dopo l’intervento, al quale si opponeva, ha minacciato di uccidersi ed è stata ricoverata al reparto di psichiatria dell’ospedale infantile (OMISSIS), di (OMISSIS)”;

– alle ore 15,30, in un comunicato dell’agenzia ANSA, è stata diffusa notizia che “Nessun giudice tutelare del tribunale ordinario di Torino è intervenuto sulla vicenda della tredicenne costretta ad abortire. Lo si è appreso da fonti giudiziarie” Sono poi indicati i nomi dei tre componenti della sezione (la presidente M. P., i giudici C.G., G.M. e D.M.L.); è poi sintetizzato il contenuto della L. n. 194 del 1978, art. 12, comma 2, relativo all’ipotesi di aborto di donna minorenne e del necessario intervento del tribunale per i minori;

alle ore 19,56, l’agenzia rettifica la notizia dell’estraneità del giudice tutelare nella vicenda e precisa le ragioni e il contenuto di un provvedimento giudiziario (“perchè voleva abortire senza dirlo al padre…il giudice si è limitato – come prevede la legge – ad autorizzarla a prendere autonomamente una decisione…la tredicenne aveva l’assenso della madre. A differenza di quanto si era appreso in un primo momento a palazzo di Giustizia, ad occuparsi della pratica è stato un giudice tutelare, ma solo per concedere alla ragazzina il permesso di agire come meglio credeva e non per costringerla ad abortire”;

alle ore 20,25, l’ANSA ha descritto la situazione familiare della “ragazzina”, straniera, adottata da una coppia di Torino che si è poi separata; conferma la ragione dell’intervento (autorizzazione) del giudice tutelare, descrive la stato di patologia fisio-psichica della minorenne, anteriore e successivo all’aborto, precisando che è “da ricondurre ai suoi disturbi psicologici pregressi il motivo del successivo ricovero nel reparto di neuropsichiatria dell’ospedale infantile (OMISSIS)”, – alle ore 20,50, il comunicato ANSA ha dato un’ampia sintesi conclusiva della vicenda, con la reiterata descrizione del fatto, dell’antefatto familiare (“il padre è ancora all’oscuro di tutto”) della necessità, anzichè di un ricovero ospedaliere, di un inserimento in una comunità di alloggio “per curare i suoi disturbi psicologici (“che aveva manifestato anche in passato”);

– con l’indicazione del nome del giudice – C.G. – che ha emesso l’atto di autorizzazione;

– con l’indicazione del controllo effettuato dal procuratore della Repubblica, presso il tribunale di Torino, concluso con l’immediata esclusione di configurabilità del reato di “violenza privata”.

Nella stessa giornata, il telegiornale regionale RAI 3 e il giornale radio RAI 2, nei loro servizi serali, hanno ripreso la notizia, nell’intervento e nel provvedimento riferibili al dr C.. Il successivo 18 febbraio, sul quotidiano “(OMISSIS)”, a pag. 15, è comparso un articolo della giornalista Lo.Si., in cui è narrata la storia di V., che, da piccola “ha smarrito il sorriso” e che a soli 13 anni “al precoce appuntamento con la gravidanza è arrivata segnata nella mente e nel fisico. Ad assisterla solo la madre adottiva,perchè il padre è ancora all’oscuro di tutto…Trattandosi di una famiglia divisa, il caso è stato vagliato dal tribunale dei minori, che ha dato il suo via libera, accertando il mero rispetto della legge: ha fatto apporre la firma di proprio pugno della ragazza sull’istanza per chiedere al giudice tutelare di autorizzarla a quell’intervento chirurgico….Il giudice ha lasciato l’ultima parola e tutto il peso alla ragazzina”.

Anche il (OMISSIS) e (OMISSIS), in quello stesso giorno, forniscono chiara e leale informazione, secondo la quale:

a) all’origine dell’aborto non c’è stata alcuna costrizione o un provvedimento coercitivo del giudice;

b) tutti gli accertamenti, clinici, gli esami diagnostici, i colloqui con medici e psicologi hanno escluso non solo una volontà contraria, ma anche dubbi, da parte della minore, sulla decisione di sottoporsi all’intervento chirurgico.

L’unico strumento di informazione che è rimasto fedele all’impegno di diffondere notizie diverse, che sono state valutate false e diffamatorie, è risultato essere il quotidiano (OMISSIS). La tesi degli errori a catena che avrebbero condotto il quotidiano a disinformare i cittadini si regge su argomentazioni di fatto, la cui inconsistenza è già stata dimostrata e affermata,in maniera storicamente e razionalmente incontestabile dall’organico e coerente accertamento giudiziale compiuto dai giudici di merito. Dagli atti acquisiti emerge, in maniera, netta e inequivoca, che:

a) la clamorosa notizia sull’aborto imposto alla minorenne e sulla sua susseguente follia era stata, in maniera progressiva e cristallina, smentita e riportata nell’alveo della verità dai mezzi di comunicazione in quello stesso (OMISSIS);

b) i tempi e le modalità di diffusione di questi dati storici e valutativi sono stati incontestabilmente idonei a rendere la base e il vertice del quotidiano consapevoli che il prodotto che avevano confezionato e che si apprestavano a diffondere era,per contenuto, forma, evidenza, collocazione tipografica, titoli, illustrazioni, ben incompatibile con la loro funzione di protagonisti e garanti della libertà di manifestazione del pensiero, nella sua dimensione di diritto/dovere di informazione. Correttamente è stato anche evidenziato che non rileva l’iniziale origine esterna di tanta falsità e di tanta disinformazione. In ogni caso gli imputati non hanno osservato il dovere di controllo di veridicità delle notizie pubblicate, controllo che, nel caso di specie era particolarmente semplice, posto che era sufficiente prendere visione e tener lealmente conto dei messaggi ANSA, di un telegiornale e di un radiogiornale. La finalità di impostare la polemica contro i protagonisti diretti, gli ispiratori e i complici di un’interruzione di gravidanza, messa in drammatica e fuorviante luce da un altro quotidiano, ha preso il sopravvento sulla successiva sdrammatizzazione e sulla dimostrata regolarità di quanto accaduto.

Secondo un peculiare stile informativo e formativo della pubblica opinione, privo quindi di qualsiasi elemento che ne rimuova l’antigiuridicità, in quella stessa giornata,altra storia ed altro commento sono stati così pubblicati sul quotidiano (OMISSIS):

in prima pagina è stata annunciata la presenza, a pag. 13, dell’articolo, a firma (OMISSIS), sul seguente argomento “Il dramma di una tredicenne” (occhiello).

“Il giudice ordina l’aborto. La legge più forte della vita” (titolo).

All’interno, l’articolo è così presentato all’attenzione del lettore con il titolo “La vita cancellata in nome della legge (e con il sommario). “L’aborto come soluzione di un impiccio. Con l’alibi della libertà si spaccia la civiltà moderna”.

Vi è poi da rilevare-sempre nell’intero quadro degli elementi grafici, anche sotto il profilo della loro impaginazione e della complessiva collocazione nel corpo del giornale – che nella pagina 13 sono incorniciati tre estratti del testo – segnalati da un virgolettone e vi è parte di una fotografia – estesa alla pagina 12 – rappresentativa di alcuni neonati. Nella medesima pagina 13 vi è anche una didascalia, che da risalto all’immagine di “Sei splendidi neonati”, accompagnata dal richiamo al “dramma della tredicenne torinese, costretta ad abortire dai genitori….”.

Il percorso attraverso cui la minorenne è giunta all’intervento dell’interruzione della gravidanza è ricostruito con una forte alterazione della verità e si conclude con la pronuncia, nei confronti dei coniugi O., del ginecologo e del magistrato, di una metaforica – ma comunque offensiva – condanna a morte:

I genitori hanno pensato: “E’ immatura si guasterà tutta la vita con un impiccio tra i piedi”.

Hanno deciso che il bene della figlia fosse aborto….Un magistrato allora ha ascoltato le parti in causa e ha applicato il diritto – il diritto – decretando l’aborto coattivo…Ora la piccola madre (si resta madri anche se il figlio è morto) è ricoverata pazza in un ospedale….Era una mamma.

Niente. Kaput. Per ordine di padre, madre, medico e giudice per una volta alleati e concorrenti ….Qui ora esagero…se ci fosse la pena di morte e se mai fosse applicabile in una circostanza, questo sarebbe il caso. Per i genitori, il ginecologo e il giudice. Quattro adulti contro due bambini.

Uno assassinato, l’altro (l’altra, in realtà) costretta alla follia.

Si dice: nessuno tocchi Caino, ma Caino al confronto aveva le sue ragioni di gelosia. Qui ci si erge a far fuori un piccolino e a straziare una ragazzina in nome della legge e del bene.

7. Libertà di opinione e la verità dei fatti.

Merita attenzione la tesi secondo cui l’accusa di assassinio legale, diretta al giudice del tribunale di Torino, possa essere interpretata – riproponendo la problematica costituzionale nazionale ed Europea – come esercizio del diritto alla libera manifestazione del pensiero, pensiero incentrato su una concezione dell’ordinamento giuridico, non limitata al diritto positivo, storicamente modulato e coattivamente imposto, in nome del bene comune prescelto dai detentori del potere, ma su un prevalente diritto non scritto, fatto di principi formalmente mai promulgati e mai abrogati, ma irrevocabilmente sedimentati nella coscienza e nella memoria dell’uomo. Rientra sicuramente negli spazi di libertà di pensiero, riconosciuti dalla Costituzione, ritenere che, in base al proprio credo, alle proprie convinzioni religiose e morali, l’aborto rientri nel campo dell’illecito (in quanto impedisce il sorgere di una nuova vita).

Parimenti rientra nella libera manifestazione del pensiero censurare, secondo il medesimo complesso di principi e di valori, il provvedimento del giudice, che rimuova un ostacolo alla volontà della donna minorenne di abortire. Va comunque rilevato che il processo è nato perchè questa legittima posizione critica ha come premessa e base storica fatti mai avvenuti e mai commessi,che la pongono in contrasto con il diritto positivo, che – al di là e al di sopra di fondamentaliste ed arcaiche concezioni della vita e della libertà della donna – giustifica e tutela la critica su fatti veri e non su fatti creati e utilizzati come espediente per aggredire onore e reputazione di chi professi e pratichi idee non condivise.

L’ipotesi – sostenuta dalla difesa – che l’autore della notizia e del commento sia rimasto nel perimetro di una civile manifestazione del pensiero critico, espresso in nome del suo credo, nei confronti di chi abbia agito in maniera decisiva nella procedura L. n. 194 del 1978, ex art. 12, comma 2, è infatti decisamente smentita dalle seguenti considerazioni.

Le risultanze testimoniali e la documentazione acquisita dimostrano, in maniera conforme e coerente l’iniziale, autonoma, immutata decisione della minorenne – consapevole della difficile situazione personale e familiare – di abortire. L’intervento del giudice C. è stato reso necessario dalla correlata decisione della giovane donna di non informare il padre e di non consentirgli di esprimere il proprio assenso A questo punto, va richiamata la sentenza 25.5.1987, n. 196 della Corte costituzionale (pronunciata sulla insussistenza di illegittimità costituzionale della mancata previsione dell’obiezione di coscienza del giudice tutelare): secondo questa decisione, il giudice tutelare rimane esterno alla procedura di riscontro dei parametri previsti per accedere alla interruzione volontaria della gravidanza, intervenendo egli nella sola sfera di capacità (o incapacità) della minore di prendere una decisione consapevole. Nè può indurre a diversa conclusione la dizione della norma, in base alla quale il giudice “può” dare l’autorizzazione, “poichè il termine è piuttosto da riferire,in particolare, all’attività sostitutiva”, anche in presenza di rifiuto da parte del titolare o dei titolari della potestà genitoriale.

I giudici di merito hanno correttamente rilevato che il quotidiano (OMISSIS), non ha mai agito (con un articolo firmato da un giornalista, con uno scritto redazionale, con una informale precisazione del direttore), per porre rimedio, sanare la diffusione – datata (OMISSIS) – della falsità della notizia sulla sussistenza di un decreto di aborto coattivo, ascrivibile al giudice C..

Al contrario, il direttore S., nell’esercizio del suo diritto di guidare la redazione, in tutta autonomia, e di esercitare la facoltà di operare tagli, modifiche, integrazioni, precisazioni sul testo scritto, non solo ha manifestato assoluta indifferenza rispetto al dovere professionale di sanare la violazione della verità, ma ha dato spazio, nel quotidiano del successivo giorno 23, ad un prosieguo della campagna di offuscamento dell’immagine dei soggetti, a vario titolo, intervenuti nella vicenda, attraverso la riproposizione, da parte di un noto avvocato, dell’assenza di consenso della minorenne V.: “Torno sul caso dei due giovani di Torino, perchè non mi convince l’ordine dato da un magistrato di sopprimere il bimbo di V.. Troppo chiara è la legge per non aver capito che c’è qualcosa che l’opinione pubblica non conosce. Se non c’è consenso della donna, l’aborto procurato viene punito con la reclusione da 4 a 8 anni ed il consenso non esiste se viene estorto con violenza, minaccia o inganno”.

Inquadra perfettamente la condotta diffamatoria – contenuta nella crociata contro un giudice dello Stato italiano – la conclusione del tribunale di Torino, secondo cui:

Attribuire falsamente ad una persona, sia pure indirettamente, la qualifica di assassino di un bambino portato in grembo da una ragazzina minorenne costretta ad abortire, significa certamente screditarla nell’ambito sociale. E tale conclusione è tanto più vera se si considera che la falsa affermazione è stata attribuita ad un giudice tutelare, il cui ruolo professionale è proprio quello di intervenire in situazioni di minori in difficoltà ed in particolare di autorizzarle, in determinanti casi e a particolari condizioni, a decidere di interrompere la gravidanza anche senza il consenso di uno o di entrambi i genitori; non solo quindi il dr C. è stato falsamente accusato di essere un assassino, ma anche di aver svolto il suo ruolo in maniera scorretta se non addirittura illecita.

La tesi dell’inidoneità delle accuse mosse al giudice,correo di omicidio, di colpire la reputazione del C., in virtù del discreto silenzio sul nome del primo è stata disattesa dai giudici di merito con corrette argomentazioni, desunte dalle risultanze processuali e dalla logica valutazione delle stesse, dimostrativa della corretta attribuzione al magistrato del ruolo di vittima del reato in esame. Innanzitutto è stato rilevato quanto segue:

a) la estrema limitatezza della rosa dei nomi dei magistrati (cioè dei tre componenti dell’ufficio del giudice tutelare) nel cui ambito era riconoscibile quello che era stato coinvolto nella illecita vicenda vissuta tragicamente dalla minorenne;

b) l’immediata individuazione di questo giudice nel dottor C., da parte di tutti i componenti degli uffici giudiziari, regionali e comunali investiti, a vario titolo, di funzioni nella procedura L. n. 194 del 1978, ex art. 12, comma 2;

c) il nome della persona offesa è comparso, nello stesso giorno di pubblicazione del quotidiano (OMISSIS), nel comunicato ANSA delle ore 20,50 e nel telegiornale e giornale radio delle ore 19,30;

d) il giudice C., nei giorni successivi alla pubblicazione degli articoli, è stato oggetto di minacce.

Di qui la perfetta conformità delle conclusioni dei giudici di merito al consolidato e condivisibile orientamento interpretativo, secondo cui, in tema di diffamazione, per l’individuazione del soggetto passivo, non è necessario che questo sia indicato nominativamente, essendo sufficiente che gli elementi storici e valutativi, personali e temporali contenuti nell’affermazione scritta o orale, descrivano, con inequivoca e ineludibile trasparenza, i tratti individualizzanti il destinatario della notizia o della valutazione. E’ indubbia la sussistenza, nel caso in esame, di tali significativi elementi e la possibilità di qualsiasi cittadino di desumere da essi, con ragionevole certezza, l’identificazione nel dr C. dell’inaffidabile giudice tutelare, incapace di svolgere in maniera efficace e lecita le sue funzioni, (sez. 5, n. 7410 del 20.12.2010, rv 249601; id, n.18249 del 28.3.2008 rv 239831).

Questa condotta diffamatoria, di forte e reiterato spessore lesivo non può trovare alcuna giustificazione all’interno del vigente diritto positivo, costruito da norme costituzionali e da norme di legge, scandite secondo una razionale comparazione e una equilibrata gerarchia di valori, meritevoli di piena osservanza, da parte dei cittadini e dei titolari di pubbliche funzioni. Va anche rilevato che l’accusa alla persona offesa di aver esercitato indebite pressioni sulla volontà della minorenne – contenuta nell’articolo a firma (OMISSIS) e proiettata su tutta l’impostazione della notizia e del commento sull’avvenuto aborto – corrisponde all’accusa al giudice tutelare di aver commesso il reato L. n. 194 del 1978, ex art. 18, che prevede la pena della reclusione da quattro a otto anni – aumentata se la donna è minore degli anni 18 – per “Chiunque cagiona l’interruzione della gravidanza senza il consenso della donna….Si considera come non prestato il consenso estorto con violenza o minaccia ovvero carpito con l’inganno”.

8. La qualificazione della condotta del direttore responsabile nell’alternativa tra reato omissivo, punito a titolo di colpa, ex art. 57 c.p. e reato doloso, ex art. 595 c.p..

Accertata la caratura diffamatoria dell’articolo dell’ignoto (OMISSIS), si profila l’esame del punto concernente la sussistenza degli elementi di fatto e di diritto, idonei alla dimostrazione che il direttore responsabile S. non ha tenuto un comportamento omissivo, di cui debba rispondere a titolo di colpa, ma – così come contestato – ha avuto una condotta animata da coscienza e volontà nella commissione del reato di diffamazione, che la norma di legge (oltre che la norma contrattuale) gli imponeva di impedire. Nel caso in esame, dal giudice di primo grado è stata esclusa la configurabilità del reato ex art. 57 c.p. ed è stato invece configurato il concorso del direttore S. con il sedicente (OMISSIS), essendo stato ritenuto che il primo ha voluto la pubblicazione, nell’esatta conoscenza del suo contenuto lesivo e, quindi, con la consapevolezza di aggredire la reputazione altrui.

A S. è stata ritenuta riconducibile la responsabilità per il reato di diffamazione non quale autore, ma quale direttore, che, nell’esercizio del suo potere/dovere di guida dell’indirizzo politico, culturale, informativo del quotidiano da lui diretto, ha indubbiamente partecipato alla “deliberata pubblicazione della notizia falsa e diffamatoria, con conseguente piena integrazione dell’elemento psicologico del reato “(pag. 6). Il tribunale ha rilevato anche che questa circostanza della “riconducibilità” al direttore dell’articolo, scritto da un componente della redazione, a firma (OMISSIS), pseudonimo non identificabile, non è stata in alcun modo contestata dall’imputato. Su questo punto, è stata mantenuta l’assenza di critica anche in sede di impugnazione dell’appello, nei cui motivi si afferma che la quaestio iuris, emergente, è se una notizia contenente un errore, ripresa da organi di stampa, “possa integrare diffamazione oppure no”.

Al quesito, il ricorrente da risposta negativa, in quanto il primo atto commissivo è stato consumato da altri giornalisti che hanno indotto in errore quelli di (OMISSIS). La totale assenza di intenzionalità lesiva dell’autore dell’articolo, nonchè l’applicazione della scriminante putativa dell’errore colposo nel legittimo esercizio del diritto di critica, conducono l’appellante a escludere, da un lato, ogni ipotesi di responsabilità a carico del giornalista e, dall’altro, l’insussistenza del reato di omesso controllo a carico del direttore responsabile, in base all’orientamento giurisprudenziale, secondo cui se il reato dell’autore dell’articolo – costituente l’evento del reato omissivo del direttore responsabile – presenta carenze nei suoi elementi materiali e psichici, viene meno la responsabilità del direttore.

E’ evidente quindi che nessuna censura è stata formulata nei motivi di appello sulla responsabilità del S., in ordine al delitto di diffamazione derivante dalla sua diretta condotta, posta in essere con la pubblicazione dell’articolo redazionale a firma (OMISSIS), responsabilità che risulta così coperta da giudicato.

La corte di appello, in assenza di impugnazione sul punto in ordine a tale reato, non espone alcun argomento al riguardo.

Pertanto gli argomenti sulla responsabilità ex art. 595 c.p. e L. n. 47 del 1948, art. 13 del S., saranno esposti da questa Corte non tanto per rispondere all’inammissibile motivo di ricorso dell’imputato – che è stato remissivo, in sede di appello, rispetto alla contestata accusa di essere ritenuto, in qualità di direttore del quotidiano – autore del saggio redazionale, recante lo pseudonimo (OMISSIS) – quanto per riaffermare principi ermeneutici,nel campo, estremamente delicato, della responsabilità diretta del direttore del mezzo di comunicazione di carta stampata, in caso di accertata diffamazione;

per dare rilievo a eventuali connotati del fatto, che possono essere rilevanti ai fini della più approfondita analisi della giustificazione, ex art. 10 CEDU, dell’ingerenza punitiva dello Stato, realizzata a mezzo di sanzione penale e civile.

E’ noto che, in unica alternativa – sul piano logico e sul piano normativo – all’ipotesi di responsabilità a titolo di colpa per il reato di omesso controllo ex art. 57 c.p., il direttore di un periodico può essere chiamato a rispondere, in caso di pubblicazione di articolo diffamatorio, a titolo di concorso nel reato di diffamazione a mezzo stampa, ove un complesso di circostanze esteriorizzate nella pubblicazione del testo (come la forma, l’evidenza, la collocazione tipografica, i titoli, le illustrazioni, e la correlazione dello scritto con il contesto culturale che impegna e caratterizza il numero del quotidiano) risulti indicativo del meditato consenso e della consapevole adesione del direttore medesimo al contenuto dello scritto, la cui conformità alla normativa penale e civile è chiamato a controllare (sez. V n. 8848 dell’8.6.1992, rv 191622; sez. 5 n. 4563 del 13.2.1985 n. 169150).

Questa impostazione interpretativa trova la sua logica premessa nell’orientamento giurisprudenziale, secondo cui è necessaria – in sede di accertamento del reato ex art. 595 c.p. e L. n. 47 del 1948, art. 13 – la visione complessiva del testo (costituito da corpo,titolo,foto ed altri segni grafici), all’esito della quale deve essere affermata o esclusa la portata diffamatoria dell’articolo di stampa (sez. 5 n. 26351 del 9.4.09, rv 244093).

L’esame del titolo o dei titoli – pacificamente considerati frutto di una scelta redazionale – è particolarmente rilevante, in quanto non può prescindersi, nell’esame di questa materia, dal preponderante rilievo orientativo che i titoli giornalistici, soprattutto quando formulati in termini forti e lapidari come quelli in esame, assumono nei confronti del lettore, frequentemente proclive ad una lettura sommaria del contenuto del testo.

Correttamente è stato rilevato che sussiste la responsabilità del direttore del quotidiano a titolo di colpa, solo se non siano presenti gli elementi occorrenti, a norma dell’art. 110 c.p., per la dimostrazione che la condotta del direttore sia stata animata dalla coscienza e volontà di cooperare alla commissione della diffamazione (sez. 5, 7.7.1981 n. 10252, in Cass. Pen. 1983, p.640; id 4, 16.6.1981, n. 8716, ivi 1983, 1094; v. in tal senso anche sez. 5 n. 4563 del 13.2.1985, in Cass.pen. 1986, p. 1275). Il direttore non è quindi chiamato a rispondere del reato di diffamazione quale autore, coautore del testo, ma come collaboratore nell’articolata condotta tipica del reato di diffamazione a mezzo stampa, reato il cui evento si realizza per la pubblicazione di una notizia offensiva. In perfetta coerenza con questi elementi probatori, va affermata la piena correttezza della contestazione e dell’accertamento di responsabilità del direttore del quotidiano, per diffamazione, nonchè la contestuale esclusione della configurazione dell’autonoma ipotesi di reato, ex art. 57 c.p.. Come già rilevato,quest’ultimo costituisce un’ ipotesi strutturalmente caratterizzata dall’omissione dell’attività di controllo, imposta da giuridiche regole comportamentali e contemplata come causa di evento non voluto, addebitabile a titolo di colpa a chi sia titolare della vigilanza sul materiale da stampare, al fine di evitare che si commettano reati.

9. La fattispecie caratterizzata dall’uso di pseudonimo.

Nel caso di specie lo spessore della violazione della verità rilevata nell’articolo comparso nella doppia versione su (OMISSIS) stampato e diffuso (OMISSIS), integrato dalla contemporanea versione on-line del quotidiano – per il suo molteplice contenuto, per la generale impostazione grafica di cui al p. 6 – risulta indicativo del meditato consenso e della consapevole adesione al contenuto dello scritto, da parte del direttore, che, secondo il presupposto logico del criterio di causalità, deve considerarsi partecipe nella consumazione della diffamazione a mezzo stampa,per il suo comportamento rilevante sotto il profilo causale.

Nella specifica fattispecie del presente processo, il tema della configurazione del ruolo del direttore responsabile S., va, anche esaminato sotto il profilo dello specifico connotato del fatto costituito dalla presenza di un articolo di autore ignoto. Come già rilevato, l’accusa mossa al S., in relazione al capo 2) della rubrica, non contiene la formulazione della diretta contestazione di aver ideato e scritto l’articolo redazionale a firma (OMISSIS), “pseudonimo” (nel senso di falso nome espressione di origine greca, da pseudos onoma), di cui non è stata possibile l’identificazione (“non identificabile”). L’ufficio del P.M. non ha ritenuto di avere a disposizione elementi idonei a identificare l’ignoto (OMISSIS), il cui nome evocativo di uno storico errore giudiziario,avvenuto nella Francia del XIX secolo, non è stato di ausilio nell’individuazione del nome anagrafico dell’autore.

E’ noto l’uso di uno pseudonimo (termine avente vari sinonimi,come alias vices, altre volte; nom de piume, nome di penna), da parte di protagonisti del mondo letterario (Alberto Moravia, Giorge Orwell, Italo Svevo, Curzio Malaparte, Umberto Saba, Jack London), del giornalismo (Fortebraccio), che non abbiano voluto o potuto firmare le proprie opere con il vero nome.

Lo pseudonimo, quando abbia assunto la stessa importanza del nome, è tutelato, nel campo del diritto civile, allo stesso modo di questo (art. 9 c.c.), cioè mediante azione giudiziaria in caso di usurpazione o di contestazione da parte di altri.

Questa sostituzione nominativa non ha in genere diretta rilevanza penale, ma la può acquisire, nella diffamazione a mezzo stampa, nei confronti della posizione del direttore responsabile, direttore editoriale, dell’editore ove – come emerso nel caso in esame – l’alias sia utilizzato dall’autore per sottrarsi alla negative conseguenze della ideazione e diffusione di fatti non veri e delle correlate valutazioni, ingiustificatamente offensive. S. è accusato non di omesso adeguato controllo sull’articolo in questione, ma di aver concesso al sedicente (OMISSIS) di diffondere attraverso “(OMISSIS)” del (OMISSIS), espressioni di manifesta carica diffamatoria, nonchè di celarne il nome anagrafico ai destinatari delle espressioni medesime coinvolti, a vario titolo, nella vicenda dell’aborto di V., così come da lui ricostruita e valutata.

Hanno aderito a questa ipotesi concorsuale i giudici di merito ponendosi nell’ancor più specifico orientamento giurisprudenziale (sez. 5, n. 16988 del 10.1.2001, in Cass. pen. 2002, n. 753, p. 2344), secondo cui la pubblicazione di un articolo senza nome, e quindi senza l’indicazione della persona che si assume professionalmente la responsabilità delle notizie e delle valutazioni in esso contenute comporta l’attribuzione dell’articolo al direttore responsabile, per la sua consapevole condotta volta a diffondere lo scritto diffamatorio. Nella stessa impostazione interpretativa si pone sez. 5 n. 7054 del 20.1.09, rv 243165, secondo cui è da contestare il concorso del medesimo direttore con l’autore dell’articolo diffamatorio, privo di firma, salvo prova del solo reato di cui all’art. 57 c.p..

“Nella specie è stata imputata diffamazione a mezzo stampa, reato il cui evento si realizza per la pubblicazione di una notizia offensiva.

E la pubblicazione, senza la quale il reato non si ravvisa, è disposta dal direttore responsabile, che può impedirla e perciò impedire l’evento nell’adempimento del dovere – potere di controllo impostogli per legge.

Ne segue che, a fronte dell’avvenuta pubblicazione, è possibile ipotizzare il concorso del medesimo direttore con l’autore dell’articolo diffamatorio, se non addirittura l’attribuibilità a lui stesso dell’articolo privo di firma e quindi della diffamazione, salvo prova del solo il reato di cui all’art. 57 c.p., per non averne impedito la pubblicazione”.

La configurazione non del reato ex art. 57 c.p., bensì del reato ex artt. 110 e 595 c.p., corrisponde alla razionale esigenza di non creare – in sede interpretativa – una sorta di zona franca (L’efficace espressione è in Trib. Roma 19.7.2001, Mauro inedita, citata criticamente dalla dottrina, nel commento a sez. 5 n. 16988/2001.), l’abrogazione di fatto dell’art. 595 c.p., nella fattispecie della diffamazione commessa con nom de plume.

Va rilevata la piena conformità di questo orientamento interpretativo non solo ai principi costituzionali e alla normativa penalistica,ma anche la piena sua compatibilità formale e logica con la specifica disciplina legislativa e contrattuale secondo cui il direttore responsabile – trait d’union fra redazione ed editore – ha il diritto di guidare la redazione, in tutta autonomia rispetto all’editore; ha la facoltà di operare tagli, modifiche, integrazioni sul testo scritto del giornalista, salvo il diritto di quest’ultimo di non firmare l’articolo se non condivide le modifiche apportate. La diffusione dell’articolo a firma (OMISSIS) – lasciato intonso nella sua evidente e clamorosa forza diffamatoria – dai giudici di merito è stato quindi correttamente ritenuto, in assenza di contrastanti allegazioni, non il frutto di un estemporaneo e improvvido infortunio, esclusivamente addebitabile allo sconosciuto autore del testo, sfuggito al carente controllo del vertice redazionale, non una fictio iuris – sconfinante in una vietata responsabilità oggettiva – ma una precisa scelta redazionale del direttore, grazie alla quale,lo scritto – rafforzato e messo in risalto con i suindicati segni grafici e tipografici – ha raggiunto, con il massimo risalto, il pubblico e ha causato l’evento previsto dalla norma ex art. 595 c.p..

Da questa scelta è derivata la consumazione del reato ex art. 595 c.p. e L. n. 47 del 1948, art. 13 in danno del giudice tutelare C., che (unitamente ai due genitori adottivi della minorenne e al ginecologo, che non hanno presentato istanza punitiva) è stato additato al disprezzo dei consociati, per aver costretto ad abortire la minorenne, causando l’assassinio del l’embrione/feto e la follia della mancata genitrice.

Nè appare conforme alla ragionevole distribuzione tra le parti dell’onere dimostrativo pretendere che la pubblica accusa esperisca ricerche per l’identificazione dell’autore, compia “qualsivoglia accertamento in relazione alla paternità” dello scritto denunciato, in vista della formulazione della meno grave imputazione ex art. 57 c.p. (sez. 5 n. 29410 del 9.5.07, rv. 237437). Questa pretesa di identificazione e del conseguente effetto positivo sulla qualificazione del fatto da contestare al direttore responsabile, rientrano negli obiettivi difensionali e il relativo onere dimostrativo non è riferibile ad adempimenti del titolare della pubblica accusa. Nella razionale visione della dialettica processuale è inconcepibile ricomprendere,nelle attribuzioni inerenti all’esercizio obbligatorio dell’azione penale – specialmente nelle prime fasi orientative delle indagini preliminari – compiti di supplenza nell’ambito dell’esercizio del diritto di difesa. Lo sviluppo dell’iter processuale non ha comunque consentito – per precisa scelta dell’imputato – l’accertamento della paternità dell’articolo, che è rimasto – ufficialmente, nel corso di tutto il processo – nello stato di anonimato. Forma, sostanza, modalità, tecnica di informazione impiegati ed esibiti dal quotidiano, in persona del direttore S., dimostrano l’assenza di un leale confronto di idee e di una lecita critica alla generale e astratta vigenza di una norma di legge e alla specifica e concreta sua applicazione. Dimostrano invece la presenza – nell’ambito di un lecito quadro di dissenso per la disciplina legislativa dell’aborto – di una illecita strategia di intimidatrice intolleranza, di discredito sociale, di sanzione morale diretta contro il magistrato;

– accreditandogli un inesistente ruolo di protagonista nella procedura dell’aborto, rappresentata come cerimonia sacrificale di una vita umana, in nome della legge;

– attribuendogli una funzione e un’immagine di crudele e disumano giustiziere, meritevole di esser posto nella gogna mediatica con la qualifica di assassino. A questa finalità punitiva ed educativa del giudice C. (del militante nel campo abortista) risulta proiettata l’azione disgregatrice della sua reputazione nella società e nel contesto lavorativo.

Va quindi confermata la sentenza impugnata, in quanto risulta provata la partecipazione del direttore nell’articolata condotta tipica del reato di diffamazione a mezzo stampa. Trattasi di fattispecie, che si articola attraverso più atti, diretti al medesimo fine (la diffamazione) nonchè contestuali, o che si susseguono con ravvicinata scansione, costituiti da:

– scrittura di un testo (nel nostro caso da parte dell’ignoto (OMISSIS)),oppure creazione di un disegno o di altro segno grafico, anonimi;

– pubblicazione, divulgazione, a mezzo stampa, tra i consociati, con correlata realizzazione dell’evento.

Come già anticipato,è scandita molto efficacemente dalla sentenza di primo grado questa condotta della diffamazione, articolata con pluralità di atti, laddove precisa che al S. è addebitato il successivo, indispensabile atto della divulgazione,cioè “la deliberata pubblicazione della notizia falsa e diffamatoria, con conseguente elemento psicologico del reato”.

La sentenza ritiene logicamente che il dolo risulta ulteriormente rafforzato sia dalla mancata rettifica della notizia palesemente falsa e diffamatoria (in violazione di evidenti regole deontologiche), sia dal ritorno sulla medesima vicenda, che traspare dalla pubblicazione di un altro articolo di un avvocato, il successivo 23 febbraio, in cui si prospettano dubbi e perplessità sullo svolgimento corretto dei fatti, ma non si accenna assolutamente alla volontà di restituire credito al magistrato.

La sentenza va anche confermata, in virtù della sua adesione al razionale orientamento interpretativo concernente saggi con falso nome, secondo il quale la pubblicazione di un articolo diffamatorio anonimo – il cui autore non intende farsi individuare dalle persone, la cui reputazione ha inteso ledere – è attribuito, a titolo di concorso, a chi, con consapevolezza e volontà, ha diffuso narrazione e/o commento.

In conclusione, l’affermato intreccio del dovere del giornalista di informare e del diritto del cittadino di essere informato merita rilevanza e tutela costituzionale se ha come base e come finalità la verità e la sua diffusione. Se manca questa base di lancio, se non c’è verità, ma calcolata e calibrata sua alterazione, finalizzata a disinformare e a creare inesistenti responsabilità e a infliggere fantasiose condanne agli avversari, il richiamo a nobili e intangibili principi di libertà è intrinsecamente offensivo per la collettività e storicamente derisorio,beffardo per coloro che,in difesa della libertà di opinione, hanno sacrificato la propria vita.

In un ordinamento e in una società, che vivono e si sviluppano grazie al confronto delle idee, non può avere alcun riconoscimento l’invocato diritto di mentire, al fine di esercitare la libertà di opinione.

10 Il controllo sul testo e sul titolo dell’articolo di M..

La posizione dell’autore.

Quanto alla seconda imputazione, a carico del direttore S., ex art. 57 c.p., per omesso controllo sul contenuto dell’articolo redatto da M.A., il suo esame va necessariamente congiunto a quello sul testo dello scritto.

A pag. 12 del quotidiano, è pubblicato questo articolo, così presentato “Dramma a Torino” (occhiello).” Costretta ad abortire da genitori e giudice” (titolo). “La 13enne sotto shock; è stata ricoverata in psichiatria” (sommario).

Nel testo – al di là della narrazione dell’aborto e del ricovero nel reparto di neuropsichiatria infantile della tredicenne e del richiamo alle polemiche che ha suscitato – si prospetta, in contrasto con la tesi della libera autodeterminazione, l’ipotesi dell’aborto coatto (“Dopo l’aborto ha accusato la famiglia di aver agito senza il suo consenso”) addebitata, secondo l’inesatta versione del giornalista, dalla minore esplicitamente ai soli genitori (che non hanno presentata querela). Più innanzi, smentendo la giovane, si riporta l’evento nell’ambito della legalità, precisando “Anche se pare che, al momento di firmare il modulo di consenso all’aborto, previsto dalla L. n. 194, V. fosse d’accordo con la madre”.

Le ulteriori precisazioni sull’inizio di un controllo giudiziario su questi fatti(Oltre al dolore restano poco chiare le circostanze di tutto l’accaduto, tanto che la Procura ha acquisito la documentazione dell’ospedale.) non presentano una carica diffamatoria, in danno del C. (controllo, all’esito del quale è stata successivamente e compiutamente accertata la perfetta legalità di tutte le fasi della procedura, prevista dall’art. 12 della citata legge – vedi richiesta e decreto di archiviazione,datati, rispettivamente, 21 febbraio e 6 marzo 2008). L’evidente caratura diffamatoria del titolo rende necessario il richiamo al già citato orientamento giurisprudenziale, secondo cui è necessaria – in sede di accertamento del reato ex art. 595 c.p. e L. n. 47 del 1948, art. 13 – la visione complessiva del testo (costituito da corpo,titolo,foto ed altri segni grafici), all’esito della quale deve essere affermata o esclusa la portata diffamatoria dell’articolo di stampa (sez. 5, n. 26351 del 9.4.09, rv 244093).

L’esame del titolo o dei titoli – pacificamente considerati frutto di una scelta redazionale- è particolarmente rilevante, in quanto non può prescindersi, nell’esame di questa materia, dal particolare rilievo orientativo che i titoli giornalistici, soprattutto quando formulati in termini forti e lapidali come quelli in esame, assumono nei confronti del lettore, frequentemente proclive ad una lettura sommaria del contenuto del testo.

Correttamente la giurisprudenza ha rilevato che,in tema di diffamazione a mezzo stampa, deve essere valutato sia il testo letterale sia il complesso dell’informazione, rappresentato dal testo, dalla sua interpretazione, dalle immagini che l’accompagnano, dai titoli e sottotitoli, dal modo di presentazione e da ogni altro elemento utile. Ne deriva che la lesione dell’altrui reputazione può verificarsi nel caso di un articolo dal testo inoffensivo, ma che sconfini nell’illecito per via di un titolo offensivo (sez. 5, del 27.11.1991, rv 189091, in Cass. pen. 1993, n. 162, p. 296; sez. 5, del 12.12.1991, rv 189102, ivi, n. 164, p. 297).

Questo orientamento interpretativo non trascura il giusto rilievo al razionale criterio ermeneutico,secondo cui l’autore non può comunque essere chiamato a rispondere del complessivo contenuto diffamatorio della pubblicazione, quando si sia limitato a fornire il testo alla redazione e/o alla direzione, da cui è stata, secondo consolidate regole organizzative interne, decisa la formulazione di titoli e sottotitoli, oltre che rimpaginazione e la collocazione dell’intero articolo (sez. 5, rv 189091).

Posto che, nel caso in esame, la corte di appello non ha svolto adeguato esame sulla sussistenza o meno di dati storici o argomentativi, da cui possa desumersi che il M. sia stato coinvolto nella scelta del titolo in esame, la sentenza deve essere annullata con rinvio al fine di ulteriore analisi e valutazione sul punto. Comunque il mancato controllo – che non risulta impedito contingenti e insuperabili ostacoli -, da parte del direttore S., della carica diffamatoria del titolo, comporta l’affermazione di responsabilità, a titolo di colpa, del direttore S. per il reato ex art. 57 c.p., indicato al capo 3 della rubrica. Questa responsabilità deriva dall’inosservanza delle norme che regolano la sua condotta e che gli impongono, per le funzioni che gli competono, il dovere di controllo sul materiale da stampare,al fine di evitare che, con il mezzo della pubblicazione, siano commessi reati.

11. Il trattamento sanzionatorio.

Tra le censure formulate dal ricorrente S. sul trattamento sanzionatorio merita primaria risposta quella concernente la violazione dell’art. 10 della convenzione CEDU, che, “come interpretata dalla giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo”, è ritenuta parametro di legittimità costituzionale della normativa interna.

E’ stato già rilevato che il problema di compatibilità tra le norme interne, applicate nel presente processo, e la sub-costituzionale norma Europea (art. 10 CEDU), non risulta affrontato dai giudici di primo e secondo grado e che questa omissione è incensurabile, non essendosi manifestata alcuna difformità tra le norme medesime, legittimante la scelta tra le alternative fissate dalla Corte costituzionale per la condotta del giudice (interpretazione della norma italiana convenzionalmente conforme o proposizione della questione di legittimità costituzionale). Questa assenza di contrasto tra norme interne (quelle già citate ex art. 595 c.p. e L. n. 47 del 1948, art. 13, a cui vanno aggiunte le norme ex artt. 62 bis e 133 c.p.) e le disposizioni dell’art. 10 CEDU, con particolare riguardo, per quest’ultima, alla sua unanime interpretazione giurisprudenziale, è di tutta evidenza,anche in riferimento al trattamento sanzionatorio più severo, costituito dalla reclusione.

La Corte Europea razionalmente ritiene che la legittimità dell’ingerenza dello Stato nell’esercizio del diritto alla libertà di espressione vada valutata, tenendo anche conto della natura e della gravosità delle pene inflitte, nella prospettiva di impedire agli Stati di adottare misure punitive atte a dissuadere i mezzi di comunicazione dall’adempiere al loro ruolo di allertare il pubblico, in caso di abusi dei pubblici poteri (sentenza Cumpana e Mazare v: Romania, n.33348/96). E’ stato, comunque, costantemente sostenuto, da un lato,che la misura dell’ingerenza punitiva dello Stato nei confronti del giornalista deve essere attentamente calibrata e strettamente proporzionata ai fini legittimi perseguiti (v. sentenza CEDU del 17.7.2008, Riolo c. Italia e la giurisprudenza in essa citata); dall’altro, ha riconosciuto, senza tentennamenti, la legittimità di un trattamento sanzionatorio detentivo, condizionato alle “ipotesi eccezionali”, intese come condotte lesive di altri diritti fondamentali (sent. 22.4.2010, Fatallayev c. Azerbaigian; sent. 6.12.07, Katrami c. Grecia; sent. 16.4.2009, Egeland and Hanseid, (In quest’ultima sentenza la Corte ha ritenuto corrispondente “ad un pressante bisogno sociale” l’applicazione di pena detentiva ai redattori capo di due quotidiani che avevano pubblicato fotografie – scattate senza il consenso dell’interessata – che ritraevano una donna, sconvolta e in lacrime, nell’atto di essere accompagnata in carcere per scontare la pena di 21 anni di reclusione per omicidio)).

A questo punto, va esaminata la sussistenza o meno, nella sentenza impugnata, di adeguata motivazione, laddove, la corte di merito, avendo esaminato i criteri di cui all’art. 133 c.p., in sè e in relazione all’art. 62 bis c.p., ha ritenuto di infliggere la pena detentiva al S., nella misura di un anno e due mesi di reclusione. Nella rispondere a tale quesito, va tenuto doveroso conto, della disciplina ex art. 10 CEDU, “come interpretata dalla giurisprudenza della Corte Europea”, se sussista o meno una ipotesi eccezionale, legittimante l’inflizione della pena suddetta. Secondo un consolidato e non contrastato orientamento interpretativo interno, il trattamento sanzionatorio, in generale, e la concessione, il giudizio di comparazione o il diniego delle attenuanti genetiche, in particolare, rientrano nel potere discrezionale del giudice di merito e quindi non richiedono un’analitica valutazione di tutti gli elementi favorevoli o sfavorevoli, indicati dalle parti o desunti dalle risultanze processuali, essendo sufficiente l’indicazione degli elementi ritenuti decisivi e rilevanti.(sez. 1, 21.9.1999, n. 12496, rv 214570 in Cass Pen. 2000, n. 1078, p. 1949; sez. 6, n. 14556 del 25.3.2011, rv 249731).

Nel caso in esame, il S., nei motivi di appello incidentale, si era limitato a una generica denuncia di ingiustificata severità della pena. Non è quindi assolutamente censurabile la motivazione della sentenza impugnata, laddove fa riferimento non solo all’assenza degli elementi positivi,che trovano puntuale collocazione nell’art. 62 c.p. o in altre disposizione di legge (“quali, ad esempio, la giovane età, una condotta processuale improntata a particolare lealtà”), nonchè, in prosieguo, – alla spiccata capacità a delinquere, dimostrata, ex art. 133 c.p., comma 2, n. 2, dai precedenti penali dell’imputato – alla gravità del fatto ex art. 133 c.p., comma 1, n. 1, delineata dalle “modalità di commissione dei fatti, caratterizzate da particolare negatività, come già posto in risalto dal giudice di primo grado”.

Sotto quest’ultimo profilo, gli atti processuali danno un quadro di forti tinte negative sulle modalità – efficacemente riprese e minuziosamente descritte da entrambe le sentenze – della plurima condotta trasgressiva,posta in essere non solo in danno della persona che ha presentato querela, attivando così l’esercizio dell’azione penale, ma anche del medico, che aveva correttamente svolto le ordinarie funzioni assegnategli dal suo incarico nella struttura pubblica e quelle specifiche previste dalla L. n. 194 del 1978 e, principalmente, dei genitori adottivi. Questi coniugi – che hanno una vita familiare di estrema difficoltà (come già detto, sono separati e il loro primo figlio è affetto da grave patologia) e che nonostante ciò, hanno mostrato grande senso di umanità e solidarietà, adottando la piccola peruviana – si son visti “sbattuti in prima pagina” come persone disumane, con particolare trauma emotivo per il padre, che ha contestualmente appreso la notizia dell’aborto e l’accusa di esserne moralmente e penalmente responsabile.

La stessa minorenne – oggi maggiorenne- ha subito non solo un’ingiustificata e prorompente invasione nella propria sfera di riservatezza, ma si è trovata presentata all’attenzione dell’ambiente sociale in cui viveva con l’immagine di improvvida e scoordinata curatrice del proprio corpo, nonchè con alterato equilibrio psichico e mentale.

Questa modalità della condotta del ricorrente conferisce al fatto un particolare spessore negativo, alla luce proprio dell’art. 10 CEDU, laddove collega la necessità dell’intervento limitativo della libertà di espressione all’esigenza, oltre che di proteggere la reputazione dei cittadini, di “impedire la divulgazione di informazioni riservate”.

Altra esigenza legittimante l’interferenza statale nella libertà di espressione è descritta nelle ultime parole dell’art. 10, laddove giustifica, come necessarie, “restrizioni o sanzioni…per garantire l’autorità e l’imparzialità del potere giudiziario”.

L’esigenza di garantire l’autorità del potere giudiziario, prevista dalla norma Europea come finalità specifica della sanzione, da ulteriore giustificazione all’intervento punitivo dello Stato, in considerazione della gravità del fatto,in relazione alla gravità del danno alla persona offesa C.. Anticipando quanto sarà specificamente osservato in sede di valutazione dell’ultimo motivo di ricorso, va sin d’ora rilevato che la lesione del “bene” reputazione ha comportato – secondo un consolidato orientamento interpretativo – la sussistenza di un danno non patrimoniale, correlato alla natura del bene leso, di notevoli dimensioni.

La giurisprudenza interna di legittimità e di merito e quella della Corte di Strasburgo concordano nel ritenere che la libertà di opinione, nella dimensione del diritto di informazione,pur in presenza di ampia tutela costituzionale, non può travalicare lo scopo di informazione della collettività e tradursi in una divulgazione – indipendente dalla legalità – di notizie non vere o tendenzialmente rappresentate, limitando così i diritti della persona, costituenti patrimonio morale di ogni essere umano.

(Meritevole razionalmente di tutela giuridica, quanto meno pari a quella prevista per il patrimonio materiale.) Nel caso di offesa ingiustificata a un magistrato, viene inoltre affievolita la fiducia della collettività, che deve costituire schermo e incentivo a un corretto svolgimento di una fondamentale funzione nello Stato di diritto (Nella sentenza 25.7.2001, Perna c. Italia, la Corte – anticipando gran parte delle argomentazioni contenute nella citata sentenza 17.7.08, Riolo c. Italia – precisa che la stampa, pur legittimata naturalmente a comunicare informazioni e idee sull’attività del potere giudiziario, non può impunemente portare attacchi non fondati ai garanti della giustizia, che devono poter svolgere il loro fondamentale ruolo nello Stato di diritto, in un contesto di fiducia della collettività. Proprio la salvaguardia di questa fiducia deve rendere i poteri dello Stato, razionalmente e realisticamente,sensibili all’esigenza di una procedura che garantisca al massimo la terzietà del giudicante, fermo restando il diritto di qualunque cittadino di ottenere la tutela giudiziaria, in caso di violazione dei propri diritti.).

Al di là della dimostrata gravità dei fatti commessi dal S. e dell’implicita, ma chiara e lampante, giustificazione alla mancata concessione delle attenuanti generiche – già sufficiente a configurare un’ ipotesi eccezionale, legittimante l’inflizione della pena detentiva – è da segnalare la particolare inconsistenza di alcune censure formulate dal ricorrente a fondamento della richiesta di un trattamento sanzionatorio meno severo.

Quanto ai precedenti penali, nel ricorso,da una lato, si fa riferimento all’illibatezza della condotta e della vita antecedente dall’imputato; dall’altro si giustificano le pregresse condanne per diffamazione (7, di cui 6 in relazione all’ipotesi ex art. 57 c.p.), presentandole come eventi inevitabilmente connessi all’attività di chi fa informazione (“accade al 100 % dei giornalisti in attività”).

Questa pretesa di speciale irrilevanza – ai fini della valutazione della personalità del condannato e della sua propensione a trasgredire le norme penali – delle condanne riportate dai giornalisti è del tutto inammissibile sotto il profilo del quadro normativo vigente e del razionale senso comune (non può ammettersi l’esistenza di una lecita attività lavorativa che abbia, come inevitabili prodotti naturali, fatti lesivi di diritti fondamentali dei cittadini). Quanto alla valutazione positiva della condotta del S., successiva ai fatti in esame, i giudici di merito hanno già posto in evidenza l’assoluta infondatezza di questa affermazione, contrapponendo i dati significativi (v. p. 7) della irremovibile coerenza dell’atteggiamento ostile del quotidiano nei confronti della persona diffamata.

La censura sulla mancata concessione della sospensione condizionale della pena, non solo è inammissibile per non aver costituito oggetto di impugnazione in sede di appello, ma anche perchè, sul piano sostanziale, non indica alcun elemento che consenta una prognosi positiva, sui futuri comportamenti di un giornalista che, in un limitato arco di tempo (dal 2.9.2001 al 30.5.2003) ha sei volte manifestato una reiterata indifferenza colposa nei confronti del diritto fondamentale della reputazione e una volta (il 12.10.2002) ha leso direttamente, tale bene.

In conclusione, la storia e la razionale valutazione di questa vicenda hanno configurato i fatti e la personalità del loro autore, in maniera incontrovertibile, come un’ ipotesi eccezionale, legittimante l’inflizione della pena detentiva.

La critica del ricorrente alla finalità dissuasiva di questa pena, riconosciutale dalla corte territoriale, non è idonea, per la sua genericità, a introdurre nel presente procedimento un tema (la concezione pluridimensionale della finalità della pena),su cui il legislatore, la dottrina e la giurisprudenza si confrontano da tempo, senza raggiungere una condivisa scelta e una razionale e coerente riforma.

12. Il danno e la sua liquidazione.

Come già rilevato, la lesione del “bene” reputazione comporta sempre la sussistenza di un danno non patrimoniale, correlato alla natura del bene leso.

La giurisprudenza di legittimità e di merito concorda nel ritenere che la libertà di opinione, nella dimensione del diritto di informazione, pur in presenza di ampia tutela costituzionale, non può travalicare lo scopo di informazione della collettività e tradursi in una divulgazione – indipendente dalla legalità – di notizie non vere o tendenzialmente rappresentate, limitando così i diritti della persona, costituenti patrimonio di ogni essere umano.

Osserva correttamente la dottrina che questo danno ferisce e determina sofferenza sul piano psicologico, creando uno stato di disagio nei rapporti con i conoscenti e con i colleghi di lavoro, una flessione di autostima causata dalla percezione di una reale o comunque avvertita disistima nell’ambiente sociale in cui opera;

l’interruzione di un rapporto conoscenza/giudizio positivo o la creazione di un rapporto conoscenza/diritto negativo.

Sotto quest’ultimo profilo, va segnalato che, nel caso di specie – come rilevato nelle sentenze di merito- a seguito della pubblicazione degli articoli diffamatori, si è sviluppata una serie di rapporti conoscenza / diritto negativo, in cui il C. si è trovato coinvolto, su iniziativa dei cittadini che, male informati, lo hanno fatto bersaglio delle loro minacce.

Con particolare riguardo al danno derivante dalla lesione della reputazione di un magistrato, vanno richiamate alcune osservazioni, formulate dalla medesima dottrina, nell’ambito di una ricerca compiuta sul fenomeno, in fase ascensionale, della critica a effetti diffamatori, da parte dei mezzi di comunicazione nei confronti dei componenti del potere giudiziario, resi un “oggetto notiziale di rilievo”.

L’esame della casistica di questa ricerca e l’esame della giurisprudenza conducono, comunque, a rilevare che le accuse – rivelatesi poi diffamatorie in danno di un magistrato – hanno prevalentemente preso spunto dall’esercizio delle sue funzioni, nel senso che gli è addebitata una violazione di legge.

Al di là di queste generali considerazioni, nel caso in esame è configurato un danno morale, che di solito deriva da inevitabili iniziative dei preposti alla dirigenza dell’ufficio di appartenenza del diffamato, nonchè dei titolari dell’azione penale e disciplinare, i quali devono svolgere un sia pur iniziale accertamento sulla fondatezza dell’accusa, proveniente dai mezzi di informazione, e una correlata verifica della correttezza dell’attività lavorativa del magistrato,protagonista dell’articolo o della campagna mediatica. Pur con la più convinta autostima e con la massima consapevolezza della propria lealtà istituzionale e della propria capacità tecnica, è indubbio,naturale ed inevitabile un profondo turbamento del destinatario delle dovute indagini.

Nel caso in esame, questi ultimi dati – dimostrativi della sussistenza del danno morale – sono emersi dagli atti, in quanto risulta che è stato aperto dalla procura della Repubblica un fascicolo, poi trasmesso,per la norma di competenza territoriale, ex art. 11 c.p.p., alla procura presso il tribunale di Milano, in merito alla affermata illiceità della condotta di coloro che, secondo la tesi giornalistica, avevano coartato la volontà della minore, implicando anche la responsabilità del magistrato dell’ufficio del giudice tutelare del tribunale di Torino (v. sentenza impugnata e decreto di archiviazione 6.3.2008 del Gip di Torino).

L’indagine di giudice di Milano su giudice di Torino, sollecitata dalle narrazioni false e dalle ingiustificate censure professionali e morali, ha sicuramente reso necessario, sotto l’ulteriore profilo dell’art. 10 della CEDU, l’intervento limitativo e punitivo dello Stato finalizzato a garantire l’autorità e l’immagine di imparzialità del potere giudiziario. E’ di tutta evidenza la ferita di lunga durata dell’identità professionale, della dignità dell’uomo, del credito sociale – che il giudice si era conquistato con anni di attività lavorativa – causata dalla deformante e funesta immagine di apportatore di violenza morale, di morte e di follia.

In sede di liquidazione del danno morale, proprio l’incarico giudiziario e il contesto procedimentale, richiamati nelle diffamatorie accuse in danno del giudice, sono state razionalmente poste a fondamento della riconosciuta alta lesività del danno e della misura della sua liquidazione, avendo considerato che la parte civile – descritta “come un assassino di bambini….svolgeva all’epoca dei fatti la funzione di giudice tutelare, figura professionalmente volta alla tutela degli interessi dei soggetti deboli, primi fra tutti, i minori”.

In tal modo la corte territoriale ha fondatamente confermato l’argomentazione – non adeguatamente respinta dall’imputato – formulata dal tribunale, secondo cui Attribuire falsamente ad una persona, sia pure indirettamente, la qualifica di assassino di un bambino portato in grembo da una ragazzina minorenne costretta ad abortire, significa certamente screditarla nell’ambito sociale. E tale conclusione è tanto più vera se si considera che la falsa affermazione è stata attribuita ad un giudice tutelare, il cui ruolo professionale è proprio quello di intervenire in situazioni di minori in difficoltà ed in particolare di autorizzarle, in determinanti casi e a particolari condizioni, a decidere di interrompere la gravidanza anche senza il consenso di uno o di entrambi i genitori…..

Integrano ulteriormente la motivazione della sentenza impugnata altri argomenti di indubbia conformità alla reale situazione oggettiva e soggettiva: la mancanza di smentita delle false notizie, l’ampia diffusione del quotidiano a livello nazionale, la collocazione e il risalto dato agli articoli, le minacce ricevute nei giorni seguenti la pubblicazione degli articoli.

In conclusione, deve ritenersi del tutto inconsistente la censura del ricorrente sulla esistenza e sullo spessore dei motivi,posti dalla corte di appello a sostegno della liquidazione del danno non patrimoniale, causato dagli articoli alla parte civile.

Pertanto,la sentenza impugnata va annullata, limitatamente alla posizione di M.A., con rinvio ad altra sezione della corte di appello di Milano, per nuovo giudizio, in merito all’accertamento della sua partecipazione nella scelta del titolo “Costretta ad abortire da genitori e Giudice”, preposto all’articolo da lui scritto e pubblicato sul quotidiano (OMISSIS) il (OMISSIS) (v.p. 10). Va invece rigettato il ricorso di S.A., che va condannato al pagamento delle spese processuali ed al rimborso alla parte civile delle spese e compensi di questo grado di giudizio, liquidati in complessivi Euro 4.500,oltre agli accessori di legge.

P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata, nei confronti di M.A. e rinvia ad altra sezione della Corte di Appello di Milano per nuovo giudizio, nei confronti dello stesso.

Rigetta il ricorso di S.A., che condanna al pagamento delle spese processuali ed alla rifusione alla parte civile delle spese e compensi di questo grado di giudizio, che liquida in complessivi Euro 4.500,oltre accessori di legge.

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