SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONE V PENALE

Sentenza  21 novembre 2011, n. 42935

Ritenuto in fatto

Il Tribunale di Palermo, giudice di appello, ha confermato – con la sentenza in epigrafe – la pronunzia di primo grado con la quale R.A. fu condannata alla pena di giustizia, oltre risarcimento danni, in quanto riconosciuta colpevole dei delitti ex artt. 612 e 594 c.p. in danno di D.M.G., rivolto al quale pronunziava le espressioni “se sei uomo, scendi…bastardi, vigliacchi”.

Ricorre per cassazione il difensore e deduce: 1) violazione dell’art. 468 comma IV c.p.p., in quanto non è stata ammessa la prova contraria dal 6dP, avendo lo stesso ritenuto che fosse stata richiesta tardivamente. Il Tribunale, investito del motivo di gravame, lo ha respinto, ma sul presupposto che non fossero state indicate le specifiche circostanze in ordine alle quali il teste avrebbe dovuto essere esaminato. Ebbene, il giudice di secondo grado non avrebbe potuto rigettare la doglianza per una ragione diversa da quella ritenuta dal giudice di primo grado. Per altro, va notato che la c.d. controprova può essere richiesta senza specificazione alcuna e anche oltre i termini ex comma I art. 468 c.p.p.; 2) violazione di legge e carenza dell’apparato motivazionale in ordine al contestato delitto di minaccia. La frase (“se sei uomo, scendi”) può suonare come un’espressione di sfida o come lo sfogo di sentimenti ostili, ma, mancando della prospettazione di un danno, non può integrare minaccia. Il Tribunale, oltretutto, sostiene che la frase sia ex se minacciosa, per il suo tenore letterale e senza alcun bisogno di contestualizzazione. Ignorano i giudici di merito che la frase suddetta, pronunziata da un’anziana signora in presenza di agenti della Polizia, era in radice priva di ogni, anche astratta, capacità intimidatoria; 3) violazione degli artt. 594-599 c.p., atteso che la sentenza impugnata sostiene che il ricorso alle FF.OO., in presenza di un’accesa disputa condominale non può esser mai considerato gesto provocatorio, ma, anzi, rappresenta una soluzione idonea. Così ragionando, il Tribunale ignora la giurisprudenza che sostiene che persino l’esercizio di un diritto, in determinate circostanze, può costituire atto provocatorio, specie se si inserisce in una annosa situazione di contrapposizione tra le parti. Nel caso in esame, l’inutile controllo di polizia fu vissuto come una misura sproporzionata e umiliante, se rapportato al fatto che era in atto un semplice contrasto condominiale; 4) violazione e falsa applicazione degli artt. 603 e 495 c.p.p., mancata assunzione di prova contraria e omessa motivazione. Era stata richiesta la riapertura del dibattimento perché fosse finalmente ammessa la prova contraria. Il Tribunale ha completamente pretermesso l’istanza e non ne ha neanche dato atto in motivazione.

Considerato in diritto

La prima censura è infondata.

Premesso che, per quel che riguarda le questioni processuali, ciò che rileva è la correttezza della soluzione adottata dal giudice e non la giustificazione motivazionale (di talché del tutto irrilevante è, da questo punto di vista, la circostanza che il secondo giudice ha ritenuto conforme a diritto la decisione del GdP, sia pure per un motivo diverso da quello che quest’ultimo ha esplicitato), si osserva che, senza dubbio, il termine perentorio previsto per il deposito della lista testimoniale vale unicamente per la prova diretta e non anche per quella contraria. Quest’ultima, tuttavia, non può esser richiesta in qualsiasi momento dello svolgimento del dibattimento, ma, come è ovvio in base alla stessa logica del “sistema”, sino alla pronuncia dell’ordinanza di ammissione delle prove, facendo però salve le ipotesi di emersione dei relativi presupposti nel corso dell’istruzione dibattimentale (ASN 201015368-RV 2466139).

Ebbene, di tale successiva “emersione” il ricorrente non parla, né – sembra – potrebbe, in quanto la opportunità, nel caso di specie, di introdurre la c.d. “controprova” dovette prospettarsi ab initio, vale a dire – tenuto conto della natura della imputazione – sin da quando fu depositata la lista testi dell’Accusa.

In tal senso, la giustificazione motivazionale fornita dal GdP appare quella più corretta e, comunque, corretta appare la decisione adottata.

L’ultima censura, direttamente collegata alla prima, è parimenti infondata.

Alla considerazione appena formulata, va aggiunta quella in base alla quale vige presunzione (relativa, ovviamente) di completezza della istruttoria compiuta in primo grado. Ebbene, per quel che si legge nei motivi di ricorso e nei motivi di appello, il ricorrente nulla ha dedotto per scardinare tale presunzione.

La seconda censura è manifestamente infondata.

Non corrisponde al vero il fatto che i giudici del merito abbiano voluto intendere l’espressione nel suo significato letterale, decontestualizzandola. Si legge a pag. 3 della sentenza: [l’espressione] “sottintende la volontà di colui che la pronuncia di ricorrere alle vie di fatto e quindi di risolvere la controversia usando la forza, propria o del proprio nucleo di parenti e/o amici. L’espressione è pertanto idonea a intimidire il soggetto passivo, non rilevando le condizioni soggettive dell’autore della condotta e della vittima”.

Ciò che, dunque, il giudicante ha inteso escludere è il riferimento, appunto, alle condizioni soggettive (età, sesso, prestanza fisica ecc), non al contesto ambientale.

Ed è indubbio che la frase, se “calata” in una situazione di particolare tensione e contrapposizione, può avere significato minaccioso. Così, d’altra parte, l’hanno motivatamente intesa i giudici del merito e, ovviamente, l’apprezzamento non è aggredibile in sede di legittimità.

Generica è la terza censura.

È vero che, in astratto, anche l’esercizio di un diritto può integrare gli estremi della provocazione, ma ciò dipende dalle modalità di tale esercizio. Con il ricorso, non vengono illustrate tali modalità (pretesamente provocatorie), ma si fa semplicemente riferimento ai pregressi cattivi rapporti tra D.M. e R. e al fatto che l’intervento delle FF.OO sarebbe stato un fatto “umiliante” per l’imputata e dunque la conseguenza di un’azione ingiusta; ma l’assunto si risolve in una petizione di principio, in quanto si dà per dimostrato (l’umiliazione/provocazione) ciò che si dovrebbe dimostrare.

Il ricorso dunque merita rigetto e la ricorrente va condannata alle spese del grado.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali.

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