stalking

Suprema Corte di Cassazione
sezione V 
sentenza 19 maggio 2014, n. 20531

Ritenuto in fatto

Il difensore di C.V. ricorre avverso la pronuncia indicata in epigrafe, recante la conferma della sentenza emessa dal G.i.p. del Tribunale di Sondrio in data 02/05/2011, in forza della quale il C. era stato condannato alla pena di mesi 8 e giorni 10 di reclusione per il delitto di cui all’art. 612 bis cod. pen., in ipotesi commesso in pregiudizio di S.A. (sua ex convivente) e di G.M. , nuovo compagno della donna. Questi ultimi si erano costituiti parti civili, e l’imputato era stato contestualmente condannato anche al risarcimento dei relativi danni.

I fatti concernono condotte di ripetuta molestia da parte del prevenuto, con pedinamenti veri e propri o comunque con l’imposizione della propria presenza, nei confronti della S. , episodi talora connotati da minacce gravi, soprattutto all’indirizzo del G. : secondo l’ipotesi accusatoria, cui entrambe le pronunce di merito risultano avere aderito segnalando che il C. era stato già condannato in passato per comportamenti analoghi, ciò aveva determinato in capo alle persone offese un forte stato di timore, inducendole a mutare le abitudini di vita.
L’odierno ricorso è affidato a tre motivi.
1. In primo luogo, il difensore dell’imputato lamenta violazione dell’art. 192 cod. proc. pen., nonché mancanza ed illogicità della motivazione. Secondo la difesa, la prova della responsabilità del C. sarebbe stata fondata solo sulle dichiarazioni della S. e del G. , tuttavia portatori di interessi contrapposti a quelli del ricorrente e dunque soggetti la cui attendibilità avrebbe dovuto essere sottoposta ad un vaglio assai rigoroso, nonché alla ricerca di possibili riscontri: vaglio che la Corte territoriale non avrebbe effettuato, prestando apoditticamente fede agli assunti dei denuncianti e non tenendo conto che altri testimoni non avevano riferito alcunché di utile a sostegno dell’accusa, malgrado fossero stati presenti ai fatti.
2. Con il secondo motivo di ricorso, si lamenta inosservanza ed erronea applicazione dell’art. 612?bis cod. pen., nonché illogicità e carenza della motivazione.
La Corte di appello, secondo la tesi difensiva, avrebbe liquidato in poche battute il problema della configurabilità del reato di atti persecutori prendendo soltanto atto della presunta ripetizione dei comportamenti, del riferito stato di ansia provocato nelle persone offese e dell’esistenza di precedenti penali, dati che dovrebbero invece reputarsi insufficienti. Viene osservato che, nella stessa ricostruzione offerta dalla S. , il C. non si era più avvicinato a lei tra il 2006 e il 2010, e che in quest’ultimo anno soltanto i fatti commessi il 7 luglio avrebbero potuto inquadrarsi nelle fattispecie di molestia o minaccia: elementi, questi, in antitesi rispetto al presunto disagio psichico cagionato alla donna ed al suo nuovo fidanzato (non essendovi peraltro traccia nella fattispecie concreta “di forme patologiche contraddistinte dallo stress, di tipo clinicamente definito grave e perdurante”). Gli stessi denuncianti, inoltre, non avevano affatto affermato di aver dovuto cambiare abitudini di vita, mutate già in passato, e poteva sostenersi che essi nutrissero timore non già a causa di condotte illecite del C. , ma per il solo fatto che l’imputato esistesse.
A tale riguardo, la difesa evidenzia che la S. non era “persona dall’animo sereno ed immune da timori precostituiti”, vuoi per il ricordo delle condotte pregresse del C. , comunque non rinnovate, vuoi per avere subito la recente perdita del figlio avuto dallo stesso ricorrente (vicenda, questa, che giustificherebbe comunque la condotta dell’uomo di sostare in prossimità dell’abitazione della ex compagna, peraltro anche in periodi di assenza per ferie della S. , visto che in quel luogo erano state sparse le ceneri del defunto): emblematica avrebbe dovuto ritenersi la reazione della donna alla sola vista dell’imputato, in occasione dei fatti del (omissis) , quando altri testimoni l’avevano notata turbata e piangente senza che il C. avesse adottato comportamenti molesti di sorta. Il ricorrente segnala infine che le telefonate mute indicate dalle persone offese non erano risultate provenienti da utenze del C. , e che non vi era stato riscontro alla deposizione del G. circa la presenza dell’auto dell’imputato in prossimità della sede della ditta dove il primo lavorava.
3. Con l’ultimo motivo, il difensore dell’imputato si duole della inosservanza e dell’erronea applicazione dell’art. 62?bis cod. pen., nonché di mancanza ed illogicità della motivazione, in punto di negazione all’imputato delle circostanze attenuanti generiche, che il C. avrebbe meritato a dispetto dei precedenti specifici, come tali non ostativi perché assai risalenti: la Corte di appello avrebbe altresì ignorato il descritto stato psicologico in cui versava il ricorrente a causa della perdita del figlio, in base al quale ben avrebbe potuto disattendersi la contestata recidiva.

Considerato in diritto

1. Il ricorso deve qualificarsi inammissibile, giacché fondato su motivi da un lato manifestamente infondati, e dall’altro riproducenti le stesse ragioni già discusse e ritenute infondate dal giudice del gravame. Detti motivi debbono perciò considerarsi non specifici, in quanto il difetto di specificità ? rilevante ai sensi dell’art. 581, lett. c), cod. proc. pen. ? va apprezzato non solo in termini di indeterminatezza, ma anche “per la mancanza di correlazione tra le ragioni argomentate dalla decisione impugnata e quelle poste a fondamento dell’impugnazione, dal momento che quest’ultima non può ignorare le esplicitazioni del giudice censurato, senza cadere nel vizio di aspecificità che conduce, a norma dell’art. 591, comma 1, lett. c), cod. proc. pen., all’inammissibilità dell’impugnazione” (Cass., Sez. II, n. 29108 del 15/07/2011, Cannavacciuolo).
1.1 In ordine all’attendibilità riconosciuta ai denuncianti, va ricordato che “le regole dettate dall’art. 192, comma terzo, cod. proc. pen. non si applicano alle dichiarazioni della persona offesa, le quali possono essere legittimamente poste da sole a fondamento dell’affermazione di penale responsabilità dell’imputato, previa verifica, corredata da idonea motivazione, della credibilità soggettiva del dichiarante e dell’attendibilità intrinseca del suo racconto, che peraltro deve in tal caso essere più penetrante e rigoroso rispetto a quello cui vengono sottoposte le dichiarazioni di qualsiasi testimone” (Cass., Sez. U, n. 41461 del 19/07/2012, Bell’Arte, Rv 253214). Nella pronuncia appena richiamata si fa rilevare che la ricerca di riscontri alle dichiarazioni della persona offesa può essere opportuna, rimanendo pur sempre non
indispensabile, in caso di costituzione di parte civile: ciò è peraltro accaduto nella fattispecie concreta, atteso che il ricorrente sostiene che i testimoni D.B.F. , D.M.W. e B.F.R. non avrebbero offerto dati di conferma agli assunti della S. o del G. , laddove nella motivazione della sentenza impugnata si legge apertis verbis (a pag. 3) il contrario, pur facendosi ovviamente riferimento a quanto tali soggetti ebbero modo di percepire, assistendo solo ad alcuni degli episodi lamentati.
1.2 Del tutto insostenibile appare la tesi difensiva circa la natura del disagio psichico che occorrerebbe dimostrare per ritenere configurabile il delitto in esame, visto che nell’interesse del ricorrente si vorrebbe ritenere necessaria l’emergenza di tracce cliniche di detto disagio. Da un lato, va comunque sottolineato che il perdurante e grave stato di ansia o di paura, il fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto e l’alterazione delle abitudini di vita costituiscono “eventi di danno alternativamente contemplati dall’art. 612?bis cod. pen.” (v., da ultimo, Cass., Sez. III, n. 46179 del 23/10/2013, Bernardi); dall’altro, ai fini della integrazione del reato de quo “non si richiede l’accertamento di uno stato patologico ma è sufficiente che gli atti ritenuti persecutori […] abbiano un effetto destabilizzante della serenità e dell’equilibrio psicologico della vittima, considerato che la fattispecie incriminatrice di cui all’art. 612?bis cod. pen. non costituisce una duplicazione del reato di lesioni (art. 582 cod. pen.), il cui evento è configurabile sia come malattia fisica che come malattia mentale e psicologica” (Cass., Sez. V, n. 16864 del 10/01/2011, C, Rv 250158).
1.3 Il tema della volontà dell’imputato di rimanere comunque vicino ad un contesto che lo aveva emotivamente segnato, senza finalità persecutorie, risulta già ampiamente trattato, e logicamente smentito, nella sentenza oggetto di ricorso, laddove si legge: “né appare giustificabile la permanenza del C. vicino all’abitazione della S. in ragione del lutto per la morte del figlio, come vorrebbe l’appellante. Infatti il C. non si limitava a soffermarsi nelle vicinanze della casa della donna, ma la ricercava ovunque, anche altrove, il che mette in luce come il vero obiettivo fosse appunto la donna, e di riflesso il G. , attuale convivente. Gli elementi segnalati non vanno letti isolatamente, bensì inquadrati nel contesto laddove la presenza del C. , avvistato anche dal G. nei pressi della ditta ove quest’ultimo lavora, denota l’insistente ricerca delle sue vittime da parte del C. , con modalità che, considerati i trascorsi, risultano idonee ad ingenerare timore per l’incolumità personale, pregiudicando le condizioni di vita”.
1.6 In ordine al trattamento sanzionatorio, infine, già il riferimento alla particolare gravità dell’addebito od all’esistenza di precedenti penali deve considerarsi ? per costante giurisprudenza ? sufficiente per fondare il giudizio negativo espresso dalla Corte territoriale, atteso che la sussistenza di circostanze attenuanti rilevanti ai fini dell’art. 62?bis cod. pen. è oggetto di un giudizio di fatto, e può essere esclusa dal giudice con motivazione fondata sulle sole ragioni preponderanti della propria decisione, non sindacabile in sede di legittimità neppure quando difetti di uno specifico apprezzamento per ciascuno dei pretesi fattori attenuanti indicati nell’interesse dell’imputato (v. Cass., Sez. VI, n. 42688 del 24/09/2008, Caridi). Peraltro, ai fini della concessione o del diniego delle circostanze attenuanti generiche il giudice può limitarsi a prendere in esame, tra gli elementi indicati dall’art. 133 cod. pen., quello che ritiene prevalente ed atto a determinare o meno il riconoscimento del beneficio, sicché anche un solo elemento attinente alla personalità del colpevole od all’entità del reato ed alle modalità di esecuzione di esso può essere sufficiente in tal senso (v. Cass., Sez. II, n. 3609 del 18/01/2011, Sermone).
2. Ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., segue la condanna dell’imputato al pagamento delle spese del  procedimento, nonché ? ravvisandosi profili di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità, da ascrivere alla volontà del ricorrente (v. Corte Cost., sent. n. 186 del 13/06/2000) ? al versamento in favore della Cassa delle Ammende della somma di Euro 1.000,00, così equitativamente stabilita in ragione dei motivi dedotti.

Vista la natura della contestazione di reato, peraltro occorso in ambito di rapporti fra ex coniugi, il collegio ritiene doveroso disporre l’oscuramento dei dati identificativi delle parti private del presente processo, nei  termini di cui al dispositivo.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della  somma di Euro 1.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.  In caso di diffusione del presente provvedimento, omettere le generalità e gli altri dati identificativi, a  norma dell’art. 52 d.lgs. n. 196/2003, in quanto imposto dalla legge

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