Suprema Corte di Cassazione
sezione V
sentenza 17 febbraio 2014, n. 7414
Ritenuto in fatto
1. R.S., L.S. e N.S. erano chiamati a rispondere, innanzi al Tribunale di Lecce, del reato di cui artt. 110, 624 e 625 n. 2 cod. pen., perché, in concorso tra loro ed in esecuzione di un medesimo disegno criminoso, al fine di procurarsi un profitto, si impossessavano di due confezioni di lampadine per auto sottraendole dallo scaffale del supermercato Carrefour con il mezzo fraudolento consistito nel nascondere la merce addosso.
Con sentenza dell’08/04/2010, il Tribunale dichiarava gli imputati colpevoli del reato loro ascritto e, per l’effetto, condannava R.S. e L.S. alla pena di anni uno e mesi otto di reclusione e € 1000,00 di multa, considerata la contestata recidiva; N.S., previa concessione delle attenuanti generiche, alla pena di mesi sei di reclusione ed € 300,00 di multa con il beneficio della sospensione condizionale, oltre consequenziali statuizioni.
Pronunciando sul gravame proposto in favore degli imputati, la Corte d’appello di Lecce, con la sentenza indicata in epigrafe, in parziale riforma della sentenza impugnata, riqualificato il fatto contestato in termini di tentato furto aggravato ai sensi degli artt. 81 cpv. 110, 56, 624-625 n. 2 cod. pen. e riconosciuta la circostanza prevista dall’art. 62 n. 4 cod. pen. nonché le attenuanti generiche prevalenti. per N.S., ed equivalenti alla contestata aggravante per gli altri due imputati, rideterminava la pena in un mese di reclusione e € 30,00 di multa per N.S.; ed in due mesi di reclusione e € 60,00 di multa per R.S. e L.S.; confermava nel resto.
Avverso la pronuncia anzidetta gli imputati hanno proposto distinti ricorsi per cassazione, ciascuno affidato alle ragioni di censura indicate in parte motiva.
Considerato in diritto
1. Con il primo motivo del ricorso proposto da R.S. si eccepisce inosservanza delle norme processuali stabilite a pena di nullità, inutilizzabilità, inammissibilità o di decadenza; mancata correlazione tra accusa e sentenza con riferimento all’art. 521 cod. proc. pen.; nullità assoluta ai sensi dell’art. 522 dello stesso codice di rito. In particolare, si deduce violazione del
principio della contestazione, tenuto conto che il capo di imputazione prevedeva la contestazione dell’aggravante di cui all’art. 625 n. 2 cod. pen. in riferimento al dato fattuale che gli imputati avessero agito con “… il mezzo fraudolento consistito nel nascondere la merce addosso…”. Diversamente, il giudice di appello aveva ravvisato l’aggravante anzidetta sul rilievo che il mezzo fraudolento sarebbe consistito “… nell’eliminazione o nell’occultamento della confezione in relazione al primo degli episodi al fine di evitare il possibile controllo elettronico antitaccheggio e nell’esibizione dello scontrino, afferente il primo acquisto forzato, per il secondo episodio…”. In tal guisa, la Corte territoriale aveva valutato la sussistenza dell’aggravante con ulteriori “arricchimenti” fattuali non presenti nel capo d’imputazione, ove invece avrebbe dovuto limitare il suo apprezzamento a quanto prospettato in rubrica, ossia ai nascondimento della merce addosso. Così facendo,
aveva violato il diritto di difesa in quanto gli imputati non avevano avuto modo di controdedurre sugli ulteriori elementi di fatto.
Il secondo motivo eccepisce inosservanza od erronea applicazione della legge penale con riferimento all’art. 625 n. 2 cod. pen. Si contesta, al riguardo, la sussistenza dell’aggravante dei mezzo fraudolento, con riferimento all’orientamento giurisprudenziale secondo cui la detta circostanza non sussiste in caso di mero nascondimento della refurtiva sulla persona, a meno che tale occultamento non avvenga attraverso la predisposizione di particolari accorgimenti, occorrendo comunque un quid pluris. Per ritenere sussistente la circostanza anzidetta il giudice di appello aveva fatto riferimento ad un isolato precedente della Suprema Corte, ove invece appariva più corretta l’interpretazione dell’orientamento maggioritario che optava per l’insussistenza della stessa aggravante nell’ipotesi anzidetta. Dovendosi, pertanto, escludere tale aggravante, la fattispecie delittuosa contestata degradava a furto semplice, notoriamente punibile a querela della persona offesa. Nel caso di specie, la condizione di procedibilità non esisteva in quanto la persona offesa non aveva proposto querela, di talché la sentenza impugnata avrebbe dovuto essere annullata senza rinvio per difetto del presupposto punitivo.
I ricorsi proposti da L.S. e N.S. sono articolati sulla base di identiche argomentazioni.
2. Una breve puntualizzazione dei termini della fattispecie in esame costituisce necessaria premessa all’esame delle censure dei ricorrenti.
Orbene, dalla narrativa che precede emerge che, in primo grado, gli imputati sono stati ritenuti responsabili per l’addebito di furto consumato in supermercato, con l’aggravante della destrezza, consistita – così come puntualmente contestato in rubrica – nel nascondimento della merce (lampadine per autovettura) nella propria persona, ai fine di eludere il controllo alle casse. La Corte territoriale ha modificato la prospettiva d’assieme, sia nella dimensione giuridica che in quella fattuale. Ha ritenuto, in primo luogo, che la fattispecie fosse da qualificare in termini di tentato furto, posto che la condotta illecita degli imputati non era mai sfuggita al controllo della sorveglianza. Ha ravvisato, quindi, i presupposti della destrezza, non già nel mero nascondimento della refurtiva, quanto piuttosto nello sviluppo dinamico dell’intera fattispecie, che si era svolta in due distinte azioni: in un primo momento, l’apprensione ed il nascondimento della merce sulla propria persona, previa estrazione delle lampadine dal relativo involucro ed occultamento delle stesse, per sottrarsi al controllo antitaccheggio; in un secondo momento, dopo l’intervento della sorveglianza e l’obbligato pagamento della merce sottratta, una nuova condotta furtiva con il prelievo di altre lampadine e la pretesa di documentarne l’acquisto con l’esibizione alla cassa dello scontrino rilasciato in precedenza (recante la dicitura pagamento forzato, ordinariamente apposto su scontrini di pagamento forzoso di merce di cui era stata notata la sottrazione). Il percorso motivazionale del giudice di appello si conclude con argomento di chiusura, mediante il richiamo a giurisprudenza di legittimità secondo cui l’occultamento della refurtiva sulla propria persona varrebbe ad integrare gli estremi della contestata aggravante.
Siffatto iter giustificativo è, tuttavia, errato. Lo è, in primo luogo, in termini di error in iudicando, perché omette di considerare che l’orientamento interpretativo che considera sufficiente il mero occultamento ai fini dell’integrazione dell’aggravante della destrezza non è stato condiviso dalle Sezioni Unite di questa Suprema Corte, che, nel risolvere un contrasto interpretativo sul punto, hanno ritenuto più corretta l’opposta opinione, ritenendo che nel reato di furto, l’aggravante dell’uso del mezzo fraudolento delinea una condotta, posta in essere nel corso dell’azione delittuosa dotata di marcata efficienza offensiva e caratterizzata da insidiosità, astuzia, scaltrezza, idonea, quindi, a sorprendere la contraria volontà del detentore e a vanificare le misure che questi ha apprestato a difesa dei beni di cui ha la disponibilità. (In applicazione del principio, la Corte ha escluso la configurabilità dell’aggravante nel caso di occultamento sulla persona o nella borsa di merce esposta in un esercizio di vendita “self-service”) (cfr. Sez. U, n. 40354 del 18/07/2013, Rv. 255974).
Ma l’errore più vistoso risiede nella violazione del principio della contestazione, con riferimento alla formulazione della contestata aggravante, che, limitata in rubrica al solo nascondimento della merce, nei termini recepiti dal primo giudice, è stata indebitamente dilatata, dal giudice di appello, in più ampia dimensione fattuale. La modalità della destrezza è stata, infatti, ritenuta sulla base della complessiva valutazione della vicenda e del rilievo che, travalicando i limiti del mero occultamento, considerava tutte le fasi in cui si era articolata la fattispecie delittuosa, che ricomprendeva la sottrazione di ulteriore merce in un momento cronologicamente distinto. Tale estensione non era, certamente, consentita alla Corte territoriale.
3. Per quanto precede, la sentenza impugnata deve essere annullata in parte qua. Ed infatti, escluso il plus fattuale, illegittimamente ritenuto dal giudice a quo in difetto di contestazione, la modalità del fatto, oggetto dell’iniziale addebito, così come ritenuto dal primo giudice, non integra più la circostanza aggravante della destrezza, alla stregua dell’insegnamento delle Sezioni Unite di questa Suprema Corte.
Esclusa, dunque, l’aggravante, il fatto in contestazione degrada all’ipotesi del tentato furto semplice, perseguibile a querela di parte. L’esame dell’incartamento processuale evidenzia che la querela nei confronti degli odierni ricorrenti era stata ritualmente proposta, di talché si impone l’annullamento della sentenza impugnata sul punto, perché il giudice del rinvio provveda alla rideterminazione della pena in rapporto alla qualificazione giuridica del fatto nei termini anzidetti.
P.Q.M.
Annulla la sentenza senza rinvio la sentenza impugnata, limitatamente all’aggravante di cui all’art. 625 n. 2 cod.pen., che elimina; rigetta nel resto il ricorso e rinvia ad altra sezione della Corte d’appello di Lecce per la determinazione della pena.
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