Cassazione 6

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONE V

SENTENZA 16 febbraio 2015, n. 6759

Ritenuto in fatto

Con sentenza del 15 febbraio 2013, la Corte d’appello di Bari riformava parzialmente, limitatamente al trattamento sanzionatorio, la sentenza del Tribunale della stessa città, in data 11 giugno 2012, con la quale C.A. era condannato, all’esito di rito abbreviato, alla pena di giustizia per il delitto di tentato furto in abitazione, in danno di B.P., con l’aggravante della violenza su cose, in considerazione dell’effrazione di una porta, con la recidiva specifica e reiterata nel quinquennio.

Contro la decisione della Corte d’appello di Bari propone ricorso per cassazione l’imputato, con atto sottoscritto personalmente, deducendo nullità della sentenza per violazione dell’articolo 606, lettera e), cod. proc. pen., in relazione alla forzatura della porta, poiché dagli atti emergeva solamente che l’imputato era stato visto nell’atto di gettarsi dal terrazzo, indossando guanti neri e senza avere in mano un cacciavite, ritrovato nell’auto guidata da altro soggetto e sulla quale egli non era riuscito a salire, per fuggire.

A giudizio dei ricorrente nella fattispecie andava riconosciuta la desistenza volontaria, poiché l’imputato aveva rinunciato spontaneamente all’azione, senza che nulla ne avesse condizionato la decisione.

Considerato in diritto

II ricorso va rigettato.

1.1 Deve infatti escludersi il vizio motivazionale denunciato, poiché dalla chiara e non contestata descrizione della vicenda, condivisa dai due giudici di merito, è risultato che l’imputato fu visto saltare da un terrazzo di un’abitazione da un cittadino che avvisò i Carabinieri e pochi istanti dopo fu arrestato dai militari mentre tentava di salire su di un’autovettura guidata verosimilmente da un complice; l’auto fu poi ritrovata abbandonata ed al suo interno c’era un cacciavite di 38 centimetri. Poiché il balcone si trovava in posizione esterna, i giudici hanno ritenuto, con un ragionamento che non evidenzia alcuna illogicità manifesta, che la desistenza del C. sia stata dettata dal timore di essere stato sorpreso – come in effetti avvenne – e che dunque sia mancata la volontarietà dell’azione.

1.2 Afferma la giurisprudenza di questa Corte (Cass., Sez. 2, n. 18385 dei 05/04/2013 – dep. 24/04/2013, Pesce, rv. 255919) che, in tema di desistenza dal delitto, benché la volontarietà non debba essere intesa come spontaneità, la decisione di interrompere l’azione non deve comunque risultare come necessitata. In particolare (Sez. 2, n. 7036 del 29/01/2014, Canadè, Rv. 258791; Sez. 6, n. 11732 del 27/01/2012, Di Lauro, rv. 252230) si è affermato che la ‘volontarietà’ della desistenza non deve essere confusa con la ‘spontaneità’ della medesima, nel senso che la desistenza è volontaria anche quando non è spontanea, perché indotta da ragioni utilitaristiche o da considerazioni dirette ad evitare un male ipotizzabile o dalla presa di coscienza degli svantaggi che potrebbero derivare dal proseguimento dell’azione criminosa; la legge non prende in considerazione le intime ragioni che inducono l’agente a desistere dall’azione criminosa, ma richiede invece, con la previsione del requisito della volontarietà, che la desistenza non sia riconducibile a cause esterne che rendano impossibile, o gravemente rischiosa, la prosecuzione dell’azione. Insomma, seppur non spontanea, tale prosecuzione non deve essere impedita da fattori esterni che renderebbero estremamente improbabile il successo dell’azione medesima; la scelta deve quindi essere operata in una situazione di libertà interiore, indipendente dalla presenza di fattori esterni idonei a menomare la libera determinazione dell’agente.

1.3 Nel caso di specie, la motivazione della Corte d’appello di Bari ha accertato in maniera non contraddittoria, né manifestamente illogica, che la scelta di desistere dal reato del C. non è stata ‘volontaria’, perché suggerita dalla consapevolezza di un elevato rischio di essere sorpreso e denunciato, data la posizione del balcone su cui egli si trovava: consapevolezza, quindi, da parte dell’agente, dell’esistenza di un fattore che avrebbe potuto rendere gravemente rischiosa la prosecuzione dell’azione, e di per sé idonea ad escludere la volontarietà dell’ipotetico recesso.

Le doglianze riguardanti il riconoscimento dell’aggravante della violenza sulle cose attengono a profili di merito, poiché il ricorrente sollecita una rivalutazione degli elementi su cui è fondata la valutazione dei giudici di merito (il rinvenimento del cacciavite nell’automobile utilizzata dai due correi; i segni di effrazione sulla porta esterna del balcone), evidenziando che i Carabinieri non hanno trovato l’attrezzo nelle mani del C.; operazione questa sottratta al giudizio di legittimità, stante la preclusione per il giudice di legittimità di sovrapporre la propria valutazione delle risultanze processuali a quella compiuta nei precedenti gradi di merito (tra le tante, Sez. 5, n. 39048 del 25/09/2007, Casavola; Rv. 238215; Sez. 6, n. 25255 del 14/02/2012, Minervini, Rv. 253099).

In definitiva il ricorso deve essere rigettato, con conseguente condanna dei ricorrente al pagamento delle spese processuali, ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen..

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali

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