balotelli

Suprema Corte di Cassazione

sezione V

sentenza 15 luglio 2013, n. 30525

Ritenuto in fatto

1. Con ordinanza dell’8 febbraio 2012 il Tribunale di Firenze in parziale accoglimento dell’istanza di riesame presentata da D.D.R. applicava al medesimo la misura degli arresti domiciliari in sostituzione di quella della custodia cautelare originariamente disposta in riferimento al reato di lesioni personali aggravate dalla finalità di odio razziale commesse nei corso di un’aggressione ai danni di due cittadini extracomunitari di origine magrebina.
2. Avverso l’ordinanza ricorre personalmente l’indagato articolando due motivi.
2.1 Con il primo motivo deduce la violazione dell’art. 273 c.p.p. e vizi motivazionali del provvedimento impugnato in merito alla ritenuta sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza del reato contestato, rilevando come il Tribunale avrebbe in tal senso omesso di prendere in considerazioni le dichiarazioni di alcuni dei testimoni oculari del fatto le quali convergerebbero nell’escludere che il D.D. abbia partecipato al pestaggio dei due extracomunitari, i quali peraltro avrebbero escluso di essere in grado di riconoscere i propri aggressori,
2.2 Con il secondo motivo si lamenta l’insussistenza della contesta aggravante di cui all’art. 3 l. n. 122/1993 in mancanza di alcun elemento in grado di comprovare che l’aggressione sia stata perpetrata per finalità di discriminazione od odio razziale, non deducibili dalla mera circostanza che gli aggressori abbiano accompagnato la loro azione violenta con epiteti dispregiativi della razza delle persone offese, in realtà costituenti generici insulti.

Considerato in diritto

1. Il ricorso è in parte inammissibile ed in parte infondato e deve pertanto essere rigettato.
1.1 Inammissibile in particolare è il primo motivo, con cui sostanzialmente si denunzia il travisamento per omessa valutazione di alcuni elementi di prova favorevoli all’indagato.
In proposito deve infatti rammentarsi che, ai sensi dette modifiche apportate all’art. 606 comma 1, lett. e) c.p.p., il vizio di motivazione rilevante può risultare, oltre che dal testo del provvedimento impugnato, anche “da altri atti del processo”, purché siano “specificamente indicati nei motivi di gravame”. Ciò comporta, in altre parole, che all’illogicità intrinseca della motivazione (cui è equiparabile la contraddittorietà logica tra argomenti della motivazione), caratterizzata dal limite della rilevabilità testuale, si è affiancata la contraddittorietà tra la motivazione e l’atto a contenuto probatorio.
L’informazione “travisata” (la sua esistenza – inesistenza) o non considerata deve, peraltro, essere tale da inficiare la struttura logica del provvedimento stesso. Inoltre, la nuova disposizione impone, ai fini della deduzione del vizio di motivazione, che l’“atto del processo” sia, come già ricordato, “specificamente indicato nei motivi di gravame”.
Sul ricorrente, dunque, grava, oltre all’onere di formulare motivi di impugnazione specifici, anche quello di individuare ed indicare gli atti processuali che intende far valere (e di specificare le ragioni per le quali tali atti, se correttamente valutati, avrebbero dato luogo ad una diversa pronuncia decisoria), onere da asso vere ne e forme di volta in volta adeguate alla natura degli atti in considerazione. Non di meno deve ancora ribadirsi che, qualora la prova omessa o travisata abbia natura dichiarativa, il ricorrente ha l’onere di riportarne integralmente il contenuto, non limitandosi ad estrapolarne alcuni brani, giacchè così facendo viene impedito al giudice di legittimità di apprezzare compiutamente il significato probatorio delle dichiarazioni e, quindi, di valutare l’effettiva portata del vizio dedotto (Sez. 4 n. 37982 del 26 giugno 2008, Buzi, rv 241023).
1.2 Il ricorrente non si è conformato agli illustrati principi, atteso che le dichiarazioni asseritamente non valutate dal Tribunale sono insufficientemente indicate nel ricorso, che non le riporta integralmente ed al quale nemmeno sono stati allegati in alternativa i relativi verbali. Ma in realtà il ricorrente ha omesso altresì di precisare perchè le informazioni probatorie trascurate sarebbero effettivamente in grado di ribaltare il giudizio formulato dai giudici del riesame, che si fonda su dichiarazioni testimoniali la cui incompatibilità con quelle asseritamente “travisate” necessitava di essere specificamente argomentata.
2. Infondato è invece il secondo motivo di ricorso. Deve essere infatti ribadito che l’aggravante di cui all’art. 3 l. n. 122/1993 è configurabile quando essa si rapporti, nell’accezione corrente, ad un pregiudizio manifesto di inferiorità di una sola razza (Sez. 5, n. 49694 del 29 ottobre 2009, B. e altri, Rv. 245828), quando cioè l’azione si manifesti come consapevole esteriorizzazione, immediatamente percepibile, nel contesto in cui è maturata, avuto anche riguardo al comune sentire, di un sentimento di avversione o di discriminazione fondato sulla razza, l’origine etnica o il colore e cioè di un sentimento immediatamente percepibile come connaturato alla esclusione di condizioni di parità (Sez. 5, n. 11590 dei 28 gennaio 2010, P.G. in proc. Singh, Rv. 24 (5892). In tale prospettiva è vero, come sostenuto dal ricorrente, che non assume rilievo la mozione soggettiva dell’agente, ma nel senso che una volta oggettivatasi la finalità in un consapevole comportamento esteriore non è necessaria alcuna indagine su quest’ultima. In altri termini, qualora l’agente nel commettere il reato scelga consapevolmente modalità fondate sul disprezzo razziale deve ritenersi che lo stesso persegua la finalità che caratterizza l’aggravante in questione a prescindere dal movente che ha innescato la condotta e che può essere anche di tutt’altra natura. In definitiva L’aggravante sussiste allorquando risulti che il reato sia stato oggettivamente strumentalizzato all’odio o alla discriminazione razziale.
Nel caso di specie, dunque, il ricorso a frasi come “sporco negro” o “stronzo negro” con cui l’indagato ed il suo complice avrebbero accompagnato la condotta violenta addebitatagli, al di là dell’intrinseco carattere ingiurioso che le medesime frasi assumono, denota l’orientamento razziale dell’aggressione (e ovviamente della connessa ingiuria), rivelando l’inequivoca volontà di discriminare la vittima del reato in ragione della sua identità razziale, come del resto chiaramente emerge anche dalla motivazione dell’ordinanza cautelare, cui implicitamente rinvia il provvedimento impugnato, che evidenzia come la stessa aggressione fosse stata promossa con il chiaro intento di allontanare dalla zona i cittadini extracomunitari che vi soggiornavano proprio in ragione della loro identità razziale.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

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