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Suprema Corte di Cassazione

sezione V

sentenza 14 agosto 2013, n. 35105

Fatto e diritto

P.S. ricorre avverso la sentenza 4.4.12 del Tribunale di Cagliari che ha confermato, nei suoi confronti, quella in data 21.7.11 del locale giudice di pace con la quale è stata condannata, per il reato di diffamazione continuata, alla pena di Euro 800,00 di multa, oltre al risarcimento dei danni in favore della costituita parte civile, D.B.R. .
Deduce la ricorrente, nel chiedere l’annullamento dell’impugnata sentenza, violazione dell’art. 606, comma 1, lett. b), d) ed e) c.p.p., per non avere il giudice di appello considerato, nel ritenere credibili le deposizioni dei testi D. e C. , che le conversazioni della P. con la dirigente dell’istituto scolastico, C. , e con la D. , erano intese a conoscere i motivi della denuncia sporta dalla C. nei confronti dell’alunno P.N. , figlio di dieci anni dell’imputata.
La C. – prosegue la ricorrente -, pur ricordando le frasi pronunciate dalla P. alla D. e dirette all’istituto scolastico ‘Rosas’, non aveva menzionato presunte frasi diffamatorie pronunciate dalla P. nei confronti del docente D.B. , mentre dalle s.i.t. rilasciate dalla D. nulla era risultato di diffamatorio attribuibile all’imputata, ma pur tuttavia ed illogicamente il giudice del gravame aveva ritenuto perfezionato il reato di diffamazione, pur non essendosi in ogni caso trattato di comunicazione con più persone avvenuta contestualmente, ma in tempi diversi.
Erroneamente, poi, non era stata ritenuta l’esimente, almeno putativa, della legittima difesa del proprio figlio minore verso il quale l’imputata nutriva il timore che l’insegnante D.B. lo volesse abbracciare in quanto gay, circostanza quest’ultima presente nelle frasi che la teste D. aveva attribuito alla P. , ma ignorata dal giudice di appello il quale aveva inoltre negato le invocate attenuanti generiche, nonché i benefici di legge, sulla base di una presunta animosità dell’imputata.
Osserva la Corte che il ricorso non è fondato.
Con motivazione congrua ed immune da profili di illogicità, il giudice di appello ha rilevato che la responsabilità dell’odierna ricorrente per il reato di diffamazione – per la cui consumazione non è necessario che la propalazione delle frasi offensive venga posta in essere simultaneamente, potendo la stessa aver luogo anche in momenti diversi, purché risulti comunque rivolta a più soggetti (v.Cass., sez. 5, 4 novembre 2010, n.7408) – riposa, oltre che sulle affermazioni della p.o., principalmente sulle dichiarazioni della teste D. , collaboratrice scolastica dell’istituto frequentato dal P.N. , e su quelle della dirigente C. , secondo le quali l’imputata, dopo aver una prima volta telefonato alla D. preannunciando che avrebbe denunciato il D.B. perché secondo alcune voci era gay, era stata dopo alcuni giorni contattata telefonicamente dalla C. , alla quale aveva detto che il D.B. era pedofilo, gay e maleducato. Risulta, dunque, come già nel corso della prima conversazione telefonica (quella avuta con la D. ), la P. abbia ritenuto di portare a conoscenza della sua interlocutrice, nella veste di collaboratrice scolastica dell’istituto frequentato dal proprio figlio N. , che secondo alcune voci il docente di lingua inglese D.B. era gay, affermazione rivolta gratuitamente alla parte civile – a mò di giustificazione per il rimprovero mosso dallo stesso D.B. al P.N. circa problemi di relazione del giovane il quale non aveva inteso farsi abbracciare dal suo insegnante di inglese – e per nulla scriminata per l’essersi l’imputata riferita a voci in tal senso circolanti nell’ambiente scolastico. La condotta successivamente tenuta dall’imputata nel corso del colloquio telefonico avuto con la dirigente C. , è vieppiù dimostrativa della volontà diffamatoria della P. , la quale, nell’occasione, rivolgendosi con molta rabbia, aveva definito il D.B. “pedofilo, gay e maleducato”, espressione che legittimamente è stata ritenuta dai giudici di merito lesiva della reputazione della parte offesa, sì da risultare integrato anche l’elemento costitutivo del reato di diffamazione rappresentato dalla comunicazione con più persone, essendo in ogni caso evidente che la frase proferita dalla odierna ricorrente era destinata a non rimanere circoscritta alla conversazione telefonica, ma – oltre ad esserne necessariamente coinvolte, nella loro qualità, la C. e la D. – a diffondersi tra gli operatori dell’istituto scolastico presso cui insegnava D.B.R. , sì da rimanere integrato anche l’estremo di cui alla prima parte del comma 1 dell’art.595 c.p.
Al rigetto del ricorso segue la condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali.

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