Corte di Cassazione, sezione V penale, sentenza 11 maggio 2017, n. 23025

Il limite della continenza va inteso in primo luogo in senso formale, come assenza di espressioni pretestuosamente denigratorie e sovrabbondanti rispetto al fine della cronaca del fatto e della sua critica. In secondo luogo la continenza va intesa anche in senso sostanziale, come stretto collegamento tra l’offesa e il fatto dal quale la critica ha tratto spunto, dovendo la prima – l’offesa – rimanere contenuta nell’ambito della tematica attinente al fatto alla base di essa

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONE V PENALE

SENTENZA 11 maggio 2017, n.23025

Ritenuto in fatto

Con la sentenza in epigrafe è stata riformata quella di primo grado che aveva condannato l’avv. C.G. , la giornalista E.V. e G.P. , direttore responsabile del quotidiano “(omissis) ”, per il reato di diffamazione pluriaggravata i primi due, di omesso controllo il terzo, in relazione alla pubblicazione di un articolo a firma della E. che riportava un’intervista al C. in cui quest’ultimo, dopo aver criticato il provvedimento del tribunale del riesame di (…) con il quale era stata confermata la misura cautelare della custodia in carcere nei confronti di una donna di nazionalità rumena, accusata di maltrattamenti in famiglia, concludeva con la frase “(omissis) ”.

La corte di appello, che, in presenza di statuizioni civili, entrava nel merito nonostante la già intervenuta prescrizione del reato, riteneva integrato l’esercizio del diritto di critica giacché il C. , traendo spunto dal caso specifico, era giunto alla conclusione, di pubblico interesse, della presenza di pregiudizi razziali nella giustizia italiana, senza superare i limiti della continenza in quanto l’articolo si era limitato a stigmatizzare i modi di esercizio del potere giudiziario senza attaccare la sfera personale dei magistrati componenti il collegio del riesame, tra l’altro neppure nominativamente citati, per quanto individuabili in considerazione dell’assetto organizzativo del lavoro del tribunale del Riesame di Roma. Secondo la corte di merito, sussisteva anche la verità del fatto, da individuare non nella valutazione soggettiva da parte del C. dell’operato dei magistrati, ma nella pronuncia sfavorevole alla cittadina rumena da lui assistita.

Hanno proposto ricorso le parti civili D. , P. ed A. con due motivi.

Con il primo, pluriarticolato, deducono manifesta illogicità della motivazione, errore di diritto sulla valutazione della lesione giuridica prodotta dal reato e travisamento del fatto.

La corte di merito aveva ritenuto la critica riferita alla condotta generale degli organi giudiziari italiani, mentre il C. l’aveva rivolta al caso specifico esaminato, ritenendo ingiusta l’ordinanza e dirigendo l’addebito di giustizia razzista al tribunale del riesame di (…) che aveva confermato l’ordinanza cautelare nei confronti della sua assistita.

Non sussisteva esercizio del diritto di critica in quanto le motivazioni dell’ordinanza, all’epoca della pubblicazione dell’intervista, non erano state ancora depositate e quindi la critica non poteva appuntarsi su di esse, essendo stati invece attribuiti pregiudizi razziali a giudici ben individuabili – in quanto l’organo del riesame di Roma tiene una udienza al giorno -, così da aggredirne la sfera personale e da lederne la reputazione qualificandoli razzisti, termine tanto più offensivo in considerazione del ruolo che il giudice è chiamato a svolgere.

La motivazione della corte territoriale era illogica anche sotto il profilo della verità del fatto, che andava individuato nella condotta scorretta in quanto razzista attribuita ai magistrati, non già nella pronuncia negativa per l’assistita dell’avv. C. da essi adottata. Considerazioni da estendere anche alla giornalista che non aveva effettuato nessuna verifica della verità del fatto, così inteso, né della proporzionalità dei termini usati.

Il secondo motivo lamenta carenza, apparenza ed assenza di motivazione sul danno subito dalle persone offese e sul dolo del reato, profili del tutto estromessi dalla motivazione della sentenza.

Si chiede quindi annullamento senza rinvio della decisione impugnata.

Il ricorso contiene da ultimo il richiamo al danno all’immagine subito dalle persone offese sia in ambito lavorativo che nel contesto sociale alla luce della grande risonanza della notizia dovuta alla tiratura del quotidiano, nonché la richiesta di rimborso delle spese del procedimento.

Considerato in diritto

Il ricorso è fondato.

È in primo luogo manifestamente illogico, perché in contrasto con il tenore dell’articolo riportante l’intervista, l’assunto della corte territoriale per il quale l’affermazione del C. avrebbe tratto spunto dal caso specifico per trattare l’argomento, qualificato di interesse generale, della presenza di pregiudizi razziali nella giustizia italiana.

Invero, a rendere il commento “(omissis) ” riferibile ai componenti il collegio del tribunale del riesame che aveva emesso il provvedimento sfavorevole all’assistita dell’avv. C. , milita decisivamente il rilievo che il virgolettato dell’intervista stabilisce, come correttamente osservato dai ricorrenti, un inscindibile nesso di consequenzialità tra la qualificazione come “ingiustificabile” del provvedimento di cui l’intervistato afferma di non comprendere le ragioni (né avrebbe potuto, visto che la motivazione non era stata ancora depositata), e la conclusione che in Italia c’è una giustizia razzista, adusa a lasciare accanto ai figli donne – sottinteso italiane – condannate per reati anche più gravi, quali l’omicidio. Il che significa, in altre parole, che, secondo l’intervistato, se l’indagata fosse stata italiana (palese l’implicito richiamo alla nota vicenda di (…)), la misura cautelare in carcere nei suoi confronti non sarebbe stata confermata.

Non è quindi condivisibile l’interpretazione dell’intervista, prospettata dalla corte di merito, come una critica generalizzata al modo di operare della magistratura italiana, critica contraddittoriamente ritenuta non attingere la sfera personale proprio degli autori – pacificamente individuabili nei ricorrenti, come riconosciuto nella sentenza impugnata (in virtù dell’assetto organizzativo del tribunale del riesame di (…) che comportava l’operatività di un solo collegio al giorno) – del provvedimento che ne avrebbe costituito lo spunto, giacché l’affermare che quell’atto giudiziario era privo di giustificazione altro non significa, alla stregua del successivo richiamo alla giustizia razzista, che lo stesso era frutto di un pregiudizio del collegio del riesame verso l’indagata di nazionalità straniera.

Poco conta poi che l’avv. C. , traendo spunto dal caso specifico, possa aver esteso il sospetto di razzismo a tutti i magistrati italiani, essendo evidente che i primi ad esserne specificamente investiti erano D. , P. ed A. , non nominativamente citati, ma perfettamente identificabili quanto meno – e tanto basta – “dai frequentatori del foro”.

Il sospetto è tanto più grave per il fatto, evidenziato dai ricorrenti ma del tutto ignorato nella sentenza impugnata, che, come emerge dall’articolo, non era stata ancora resa nota la motivazione del provvedimento, sicché i giudizi del C. non potevano investire l’atto giudiziario in sé o la condotta dei magistrati in quel procedimento, ma soltanto le persone degli autori di esso, gratuitamente tacciati di farsi condizionare, nelle loro decisioni, dall’etnia dell’indagato, invece di ispirarsi ai principi guida dell’opera del magistrato.

Giudizio, per di più, privo di qualunque giustificazione, giacché l’assunto del C. , pure riportato tra virgolette, che “la decisione del riesame di fatto stabilisce che il lavoro del tribunale per i minorenni è sbagliato oppure inutile”, non solo non trova supporto in alcun elemento fattuale (tale non potendo essere la sola circostanza che il legale, come si legge nell’articolo, avesse depositato al tribunale per i minorenni una consulenza di parte che concludeva per l’assenza di abusi della madre sulla figlia), ma è addirittura in contrasto con il riconoscimento, nelle righe precedenti dell’articolo, dell’esistenza di un decreto del Tribunale per i minorenni che aveva disposto l’allontanamento dalla donna anche dell’altro figlio, di soli tre mesi. Decreto con il quale la decisione del Riesame si poneva in piena sintonia.

Del tutto illogicamente, quindi, la sentenza conclude per il rispetto del limite della continenza, che va intesa in primo luogo in senso formale, come assenza di espressioni pretestuosamente denigratorie e sovrabbondanti rispetto al fine della cronaca del fatto e della sua critica. Secondo la giurisprudenza di legittimità, in parte citata anche nella sentenza impugnata, pur potendo ogni provvedimento giudiziario essere oggetto di critica anche aspra, in ragione dell’opinabilità degli argomenti che lo sostengono, questa non deve tuttavia trasmodare – come per contro avvenuto nel caso di specie – in un attacco alla stima di cui gode il soggetto criticato, che ha diritto alla tutela della propria reputazione e alla intangibilità della propria sfera di onorabilità, tanto più rilevante in ragione del ruolo svolto (Sez. 5, n. 5638 del 16/01/2015, Sarzanini, Rv. 263467; Sez. 5, n. 2066 del 11/11/2008 – dep. 2009, Fasolino, Rv. 242348).

In secondo luogo la continenza va intesa anche in senso sostanziale, come stretto collegamento tra l’offesa e il fatto dal quale la critica ha tratto spunto, dovendo la prima – l’offesa – rimanere contenuta nell’ambito della tematica attinente al fatto alla base di essa (Sez. 5, n. 3047 del 13/12/2010 – dep. 2011, Belotti, Rv. 249708, pure citata nella sentenza impugnata).

Tali limiti risultano nella specie superati in quanto l’attacco non poteva essere diretto alla condotta professionale dei ricorrenti nello specifico procedimento, posto che la motivazione dell’ordinanza non era stata ancora depositata, essendo quindi messa in discussione, a prescindere dalle ragioni del provvedimento (sentenza Belotti, cit.), la personale onorabilità dei giudici, sospettati di mancanza di imparzialità perché animati da pregiudizi razziali.

Vale la pena anche sottolineare, con riferimento alla posizione C. , che, in caso di diffamazione da parte di un avvocato ai danni di un magistrato, la Corte EDU ha fissato in diverse decisioni (v. Peruzzi c. Italia 30/06/2015 e le pronunce ivi richiamate) principi specifici applicabili alle professioni legali tenendo conto del peculiare status degli avvocati che li pone in una situazione centrale nell’amministrazione della giustizia, al buon funzionamento della quale essi devono contribuire e, in particolare, alla fiducia del pubblico nella stessa. Con la conseguenza che gli avvocati, secondo la Corte di Strasburgo, hanno – certo – il diritto di pronunciarsi pubblicamente sul funzionamento della giustizia, ma la loro critica, che deve avere una solida base fattuale e presentare un legame sufficientemente stretto con i fatti della causa (palese il richiamo alla continenza in senso sostanziale di cui sopra), non può oltrepassare alcuni limiti volti a tutelare il potere giudiziario da attacchi gratuiti e infondati, motivati dalla strategia di portare il dibattito giudiziario su un piano strettamente mediatico o di entrare in polemica con i magistrati che si occupano del caso.

Ciò considerato, l’eventuale rispetto, nel caso in esame, degli altri due limiti connaturali al diritto di critica, cioè la veridicità della notizia individuata nella sentenza impugnata nella pronuncia di rigetto della richiesta di riesame – e l’interesse pubblico alla stessa – ravvisato, sempre nella pronuncia impugnata, nella rilevanza del tema della presenza di pregiudizi razziali nella giustizia italiana -, resta assorbito dal superamento della soglia di entrambi i profili della continenza, che comporta l’esclusione dell’esimente dell’esercizio del diritto di critica per il C. e del diritto di cronaca per la E. , e la sussistenza della colpa per omesso controllo del G. (mentre la sentenza impugnata ha genericamente ritenuto la condotta anche degli ultimi due scriminata dall’esercizio del diritto di critica).

Quanto in particolare alla posizione della E. , la quale si riverbera su quella del direttore responsabile G. , va ricordato che, secondo questa Corte nella sua massima espressione nomofilattica, la condotta del giornalista che, pubblicando il testo di un’intervista, vi riporti, anche se ‘alla lettera’, dichiarazioni del soggetto intervistato di contenuto oggettivamente lesivo dell’altrui reputazione, non è scriminata dall’esercizio del diritto di cronaca, in quanto al giornalista stesso incombe pur sempre il dovere di controllare veridicità delle circostanze e continenza delle espressioni riferite (Sez. U, n. 37140 del 30/05/2001 – dep. 16/10/2001, Galiero, Rv. 21965101). Sempre secondo tale orientamento, la predetta condotta è da ritenere penalmente lecita quando il fatto in sé dell’intervista, in relazione alla qualità dei soggetti coinvolti, alla materia in discussione e al più generale contesto in cui le dichiarazioni sono rese, presenti profili di interesse pubblico all’informazione tali da prevalere sulla posizione soggettiva del singolo e da giustificare l’esercizio del diritto di cronaca.

Sulla scia di tale arresto, sempre con riferimento ad un articolo avente la forma dell’intervista, è stato del pari ritenuto che l’esimente del diritto di cronaca può essere riconosciuta all’intervistatore non solo quando vi è l’interesse pubblico a rendere noto il pensiero dell’intervistato in relazione alla sua notorietà, ma anche quando sia il soggetto offeso dall’intervista a godere di ampia notorietà nel contesto ambientale in cui viene diffusa la notizia (Sez. 5, n. 28502 del 11/04/2013 – dep. 02/07/2013, Fregni e altri, Rv. 25693501).

Ebbene, nella specie l’esistenza dell’esimente non potrebbe essere invocata neppure in ragione della qualità dei soggetti coinvolti, non risultando che l’intervistato, o i componenti del collegio del riesame, godessero di notorietà tale da giustificare l’interesse pubblico a rendere noto il pensiero dell’avv. C. su quei magistrati, in una vicenda, per di più, nella quale l’interesse dei lettori poteva, nella migliore delle ipotesi, discendere dal fatto, neppure accertato, che il quotidiano, nei giorni precedenti, avesse riservato ampio spazio alla vicenda della sottoposizione a misura cautelare della donna rumena per maltrattamenti alla figlia minore. Nel qual caso, comunque, sarebbe stata certamente rilevante per il pubblico la notizia dell’esito della richiesta di riesame, non certo le soggettive e personali valutazioni del legale dell’indagata basate sulla conoscenza del solo dispositivo della decisione.

Va ancora ricordato, sempre con riguardo alla posizione E. e, di riflesso, a quella del G. , che, secondo la giurisprudenza di questa Corte, sussiste la responsabilità penale del giornalista che non manifesti distacco dalle affermazioni dell’intervistato che risultino prive di verosimiglianza e tali da indurre discredito sulla persona offesa (Sez. 5, n. 42755 del 17/05/2016 – dep. 10/10/2016, Castaldo e altro, Rv. 26795701).

Resta assorbito il secondo motivo in quanto il riconoscimento dell’esimente presupponeva, per la natura della stessa, l’offensività del fatto e quindi la sussistenza del reato, mentre la valutazione del danno subito dai ricorrenti va devoluto al giudice civile a seguito dell’annullamento della sentenza impugnata.

Spese di parte civile al rescissorio.

P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata e rinvia al giudice civile competente per valore in grado di appello.

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