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SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE V PENALE
SENTENZA 11 luglio 2017, n.33869
Fatto e diritto
Con la sentenza di cui in epigrafe la corte di appello di Trieste confermava la sentenza con cui il tribunale di Udine, decidendo in sede di giudizio abbreviato, aveva condannato C.F. alla pena ritenuta di giustizia, in relazione al reato di cui agli artt. 56, 624 e 625 n. 7 c.p., avente ad oggetto ‘dispenser di sapone liquido, carta igienica e salviette asciugamani, di proprietà dell’impresa ‘Gruppi Servizi Associati’, prelevandoli dai servizi igienici dell’are di sosta autostradale (omissis) ‘, venendo sorpreso da un dipendente di tale società, nell’atto di caricare i suddetti beni a bordo della propria autovettura.
Avverso la sentenza della corte territoriale, di cui chiede l’annullamento, ha proposto tempestivo ricorso per cassazione il C. , a mezzo del suo difensore, avv. Andrea Mondini, del Foro di Udine, lamentando violazione di legge e vizio di motivazione, in ordine: 1) alla sussistenza del delitto di cui si discute, difettando il presupposto della (tentata) sottrazione al legittimo proprietario dei beni innanzi indicati, in quanto posizionati da quest’ultimo affinché terzi qualificati (i frequentatori dei sevizi igienici) se ne impossessino, facendone uso ed irrimediabilmente trasformandoli, non potendosi condividere la diversa interpretazione offerta dal giudice di appello, che collega l’esistenza o meno della fattispecie delittuosa al superamento di una soglia quantitativa, non prevista dalla legge e comunque non determinabile; 2) al mancato riconoscimento della causa di non punibilità ex art. 131 bis, c.p., di cui, ad avviso del ricorrente, ricorrono i presupposti.
Il ricorso va rigettato per le seguenti ragioni.
La tesi difensiva sviluppata nel primo motivo di impugnazione non può condividersi, in quanto i beni di cui l’imputato ha tentato di impadronirsi non erano qualificabili in termini di res derelicta, vale a dire di cosa abbandonata per volontà di chi esercita un diritto su di essa (cfr. Cass., sez. V, 15.5.2012, n. 30321, rv. 253314), ma, al contrario, erano beni, sottoposti alla signoria del proprietario, destinati all’uso da parte degli utenti dei servizi igienici dell’area di servizio.
Pertanto, con la sua condotta l’imputato ha tentato di sottrarre i beni in questione al loro legittimo proprietario, sostituendo la propria signoria a quella di quest’ultimo ed eliminando la destinazione indifferenziata di essi alle esigenze dei fruitori dei servizi igienici dell’area di servizio.
Sicché non può non condividersi la puntuale affermazione della corte territoriale, secondo cui tali beni, in dotazione ai sevizi igienici presenti sulle aree di sosta autostradale, possono formare oggetto, da parte di chi usufruisce di siffatti servizi, di un consumo connesso ad esigenze strettamente personali e da effettuarsi rigorosamente sul posto e non di un accaparramento indiscriminato, destinato a consentire all’accaparratore di servirsene esclusivamente in proprio favore, in altro luogo, come avrebbe fatto l’imputato, se non fosse stato sorpreso dal dipendente della società nell’atto di caricare sulla propria autovettura ‘molteplici pacchetti di carta e altro materiale utilizzato per il servizio igienico’ (cfr. p. 3 della sentenza di primo grado, che costituisce, con quella di appello, un prodotto unico).
Infondato appare anche il secondo motivo di ricorso, in quanto il ricorrente, a prescindere dalla correttezza della decisione del giudice di secondo grado che ha escluso il beneficio richiesto alla luce dell’esistenza a carico dell’imputato di un precedente per estorsione, non specifica le ragioni per cui, in relazione alle modalità della condotta ed ai parametri fissati dall’art. 133, c.p. (richiamati dall’art. 131 bis, c.p.), che involgono profili più ampi della mera entità del danno arrecato dalla condotta criminosa, il fatto debba considerarsi di particolare tenuità, nozione diversa, perché più radicale, di quella di ‘danno di entità modesta’, cui ha fatto riferimento il giudice di primo grado per determinare nel minimo edittale il quantum del trattamento sanzionatorio, richiamata impropriamente dal C. a sostegno della propria tesi.
Sulla base delle svolte considerazioni il ricorso di cui in premessa va, dunque, rigettato, con condanna del ricorrente, ai sensi dell’art. 616, c.p.p., al pagamento delle spese del procedimento.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
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