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Suprema Corte di Cassazione

sezione Tributaria

sentenza n. 13319 del 29 maggio 2013

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

1. L’Ufficio IVA di Roma emetteva a carico dell’Avv. V. M. un avviso di rettifica per la ripresa a tassazione del tributo IVA per l’anno 1994, ritenendo che dall’esame della movimentazione bancaria era emerso un maggior reddito non dichiarato che il contribuente non era stato in grado di giustificare.
2. Il contribuente proponeva ricorso innanzi alla CTP di Roma che accoglieva l’impugnazione in ragione dell’assenza dell’autorizzazione all’accesso presso lo studio-residenza del professionista.
3. L’Ufficio proponeva ricorso in appello che la CTR del Lazio, con sentenza depositata il 28 febbraio 2007 accoglieva. Riteneva che la mancanza di autorizzazione all’accesso presso la residenza-studio del professionista non inficiava la validità dell’accertamento, incidendo semmai sulle eventuali prove addotte quale maggior reddito evaso, senza tuttavia incidere sulla validità degli accertamenti bancari regolarmente autorizzati, concernenti le movimentazioni effettuate dal contribuente sul conto corrente cointestato con il coniuge, rispetto alle quali il contribuente non aveva fornito alcuna giustificazione plausibile in ordine al maggior reddito.

3.1 In definitiva, secondo la CTR l’Ufficio aveva proceduto sulla base degli accertamenti bancari autorizzati dai quali era scaturito l’accertamento.
4. Il contribuente ha proposto ricorso per cassazione affidato ad un’unica complessa censura, mentre l’Agenzia delle Entrate, costituita, non ha depositato difese scritte.

MOTIVI DELLA DECISIONE

5. Con un unico motivo, al cui interno sono prospettate due autonome censure, il contribuente deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 32 dpr n. 600/ 1973, degli artt. 51 e 52 dpr n. 633/ 1972, dell’art. 36 d.lgs. n. 546/ 1992 e dell’art. 118 disp. att. c.p.c., in relazione all’art. 360 comma 1 n. 3 c.p.c., nonché carenza, insufficienza e contraddittorietà della motivazione, in relazione all’art. 360 comma 1 n. 5 c.p.c.
5.1 Lamenta che la CTR aveva omesso di considerare l’assenza di preventiva autorizzazione all’accesso alle movimentazioni bancarie, avendo l’ufficio provveduto, in data 6 maggio 1996, in sede di accesso illegittimamente compiuto all’interno dello studio-residenza, all’acquisizione degli estratti conto del conto corrente peraltro cointestato al coniuge, non avendo mai acquisito alcunchè presso gli istituti di credito sulla base dell’autorizzazione rilasciata dal comandante di zona della Guardia di Finanza in data 26 agosto 1996. E poiché le uniche contestazioni formulate dai verbalizzanti risalivano alle acquisizioni compiute nel corso dell’ispezione che la stessa CTR aveva ritenuto non autorizzata, era palesemente errata la soluzione del giudice di appello di fare salvo l’accertamento con riguardo agli accertamenti bancari, mai autorizzati, non potendosi ritenere valida un’autorizzazione in sanatoria.
5.2 Peraltro, ad onta di quanto ritenuto dal giudice di appello, erano state pienamente giustificate le movimentazioni bancarie e la provenienza della somma di £.60.000.000 occasionalmente rivenuta, provenendo la stessa da un conto della società dell’A. – riconducibile ai suoi familiari e dallo stesso contribuente gestita- che aveva precedentemente ricevuto una somma a titolo di mutuo.
5.3 Aggiungeva di avere altresì documentato l’andamento regolare del conto corrente nonchè le disponibilità provenienti da vendite di preziosi e da elargizioni ricevuta dalla Congregazione delle S. M. delle quali faceva parte la sorella del contribuente.
5.4 Evidenziava, pertanto, che la motivazione era non solo carente, ma anche contraddittoria nella parte in cui aveva ritenuto di annullare parzialmente l’accertamento che, invece, per effetto della mancanza di un’autorizzazione preventiva all’acquisizione di documentazione bancaria, era integralmente inficiato da illegittimità.
5.5 Infine, sottolineava che la sentenza impugnata meritava di essere cassata, mancando dello svolgimento del processo oltre ad essere lacunosa a contraddittoria.
6. Giova premettere che la costituzione dell’Agenzia delle Entrate ha sanato la nullità della notifica del ricorso effettuata presso l’Avvocatura dello Stato- e non presso l’Agenzia- da parte del contribuente.
7. Ciò posto, il primo motivo è infondato.
7.1 Ed invero, questa Corte ha inizialmente ritenuto che in tema di imposte dirette (come di IVA) ed in ipotesi di accesso domiciliare, la illegittimità del provvedimento di autorizzazione del procuratore della Repubblica ai sensi degli artt. 33 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 e 52 del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633 importa la “inutilizzabilità”, a sostegno dell’accertamento tributario, delle prove reperite nel corso della perquisizione illegale atteso che: a) detta inutilizzabilità non abbisogna di un’espressa disposizione sanzionatoria, derivando dalla regola generale secondo cui l’assenza del presupposto di un procedimento amministrativo infirma tutti gli atti nei quali si articola; b) il compito del giudice di vagliare le prove offerte in causa è circoscritto a quelle di cui abbia preventivamente riscontrato la rituale assunzione; c) l’acquisizione di un documento con violazione di legge non può rifluire a vantaggio del detentore, che sia l’autore di tale violazione, o ne sia comunque direttamente o indirettamente responsabile -cfr.Cass. n. 19689 del 01/10/2004-.
7.2 Tuttavia, il superiore indirizzo è stato recentemente specificato nel senso che l’autorizzazione del Procuratore della Repubblica all’accesso domiciliare anzidetta costituisce un provvedimento amministrativo che si inserisce nella fase preliminare del procedimento di formazione dell’atto impositivo ed i suoi eventuali vizi si riverberano sull’atto conclusivo, determinandone l’invalidità solo con riferimento a quelle parti che siano legate all’atto istruttorio da un nesso di insostituibile e necessaria consequenzialità, mentre nessuna conseguenza comportano per quelle altre parti che siano del tutto distinte ed indipendenti -cfr. Cass. n. 23595/2011-.

7.3 In definitiva, gli effetti dell’eventuale vizio dell’atto anzidetto, in relazione al generale principio di conservazione degli atti giuridici, valevole anche per gli atti amministrativi, impone di limitare gli effetti del vizio alle parti dell’atto impositivo che sono legate a quello prodromico da un nesso di insostituibile, necessaria consequenzialità. Ciò che consente di distinguere, ai fini della utilizzabilità degli atti acquisiti nel corso di perquisizione non autorizzata, gli atti inscindibilmente collegati al provvedimento autorizzatorio, irrimediabilmente travolti dall’assenza del provvedimento di autorizzazione alla perquisizione, da quelli che possono comunque trovare giustificazione in altri provvedimenti ritualmente adottati dall’Ufficio e che sono dunque indipendenti rispetto alla perquisizione.
7.4 Sulla base di tali presupposti, la decisione impugnata appare immune dall’ipotizzato vizio.
7.5 Infatti, il giudice tributario , ai fini della verifica della legittimità della pretesa fiscale, si è limitato ad utilizzare la documentazione bancaria relativa ai conti riferibili al contribuente ed ai suoi familiari che, seppure acquisita presso il contribuente, tuttavia non poteva dirsi travolta dalla mancata di autorizzazione alla perquisizione domiciliare, proprio perché i verbalizzanti ebbero cura di acquisire, successivamente, l’autorizzazione del comandante della Guardia di Finanza relativa all’accesso della documentazione bancaria del contribuente ai sensi degli arrt. 32 comma 1 n. 7 dpr n. 600/1973 e 51 comma 2 del dpr n. 633/1972.
7.5 Non sembra, infatti, potersi disconoscere la possibilità che l’amministrazione provveda alla sanatoria di un atto illegittimo attraverso l’adozione di un atto che intende riconoscere ex post la legittimità dell’operato della p.a, trovando tale possibilità piena conferma nel generale principio di conservazione dell’attività amministrativa, le quante volte ciò non determini pregiudizio a posizioni giuridiche soggettive piene del privato.
7.6 Ora, se si accede a questa prospettiva, non sembra che vi sia stata una concreta lesione del diritto al contraddittorio ed alla difesa da parte del contribuente che, a fronte di un’attività di acquisizione compiuta nel maggio 1996, si è potuto adeguatamente difendere, anche dopo il provvedimento di autorizzazione intervenuto nell’agosto del 1996, risultando che la rettifica emessa nei confronti del contribuente verme resa sulla base del processo verbale della Guardia di Finanza del 27.3.1998- v. pag. 2 ricorso contribuente-.
7.7 Nessun diritto fondamentale del contribuente risulta, pertanto, in concreto pregiudicato dall’attività della Guardia di Finanza.
7.8 In questa direzione, del resto, milita la stessa giurisprudenza di questa Corte che non ha mancato di precisare come “…il riscontro della mancanza materiale dell’autorizzazione produce l’illegittimità del “risultato finale del procedimento” – quindi, del conseguente “accertamento” – sol quando si traduce in un “concreto” (ovverosia certo ed effettivo) “pregiudizio per il contribuente”- cfr. Cass. n. 16874/2009- e si inserisce in un filone giurisprudenziale alla cui stregua la mancanza della autorizzazione dell’ispettore compartimentale (o, per la guardia di finanza, del comandante di zona) prevista dall’art. 51, secondo comma, n. 7, del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, ai fini della richiesta di acquisizione, dagli istituti di credito, di copia dei conti bancari intrattenuti con il contribuente, non preclude l’utilizzabilità dei dati acquisiti, atteso che la detta autorizzazione attiene ai rapporti interni e che in materia tributaria non vige il principio (presente nel codice di procedura penale) della inutilizzabilità della prova irritualmente acquisita, salvi i limiti derivanti da eventuali preclusioni di carattere specifico -cfr. Cass. n. 4987/2003.
8. Passando all’esame del vizio di motivazione, lo stesso risulta inammissibile per diverse ragioni.
La censura, anzitutto, difetta, del requisito del c.d.quesit0 di fatto che questa Corte ha ritenuto necessario ai fini dell’ammissibilità della censura. Occorre premettere che tale doglianza non è stata accompagnata dal necessario momento di sintesi che questa Corte reputa necessario allorché si contesta il vizio di cui al n. 5 dell’art. 360 comma 1 c.p.c. -cfr. Cass. n. 24255 /2011-.
8.1 Per altro verso, la censura difetta del requisito della specificità, non avendo il contribuente richiamato nel corpo del ricorso gli elementi documentali che, a suo dire, sarebbero stati pretermessi dal giudice di secondo grado, in tal modo impedendo a questa Corte di compiere quel sindacato di congruità ed adeguatezza logica della motivazione che lo stesso contribuente aveva sollecitato.
8.2 D’altra parate è pacifico che la parte ricorrente, per non incorrere nella sanzione dell’inammissibilità, ha l’onere di indicare espressamente l’epoca in cui la documentazione pretermessa dal giudice di appello è stata inserita nel processo tutte le volte in cui la stessa introduca nel ricorso un quadro fattuale non esaminato dal giudice dell’impugnazione.
Adempimento del quale, per converso, la parte ricorrente non si è affatto curata.
9. Sulla base di tali elementi il ricorso va rigettato.
Alla soccombenza segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

La Corte
Rigetta il ricorso.
Condanna la parte ricorrente al pagamento delle spese processuali che liquida in euro 2.600,00 per compensi, oltre spese prenotate a debito.
Così deciso il 23 aprile 2013 nella camera di consiglio della V sezione civile in Roma.

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