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Suprema Corte di Cassazione

sezione tributaria

sentenza 21 maggio 2014, n. 11183

Svolgimento del processo

La controversia origina dall’impugnazione con separati ricorsi da parte della contribuente, titolare della ditta “Istituto Dott. P.B.” degli avvisi di rettifica IVA per gli anni 1996 e 1997, con i quali l’Ufficio rettificava la dichiarazione annuale IVA per irregolare tenuta della contabilità ex art. 39 d.P.R. n. 633 del 1972, omessa fatturazione di operazioni imponibili ex art. 21 d.P.R. n. 633 del 1972 ed ex art. 41, comma 6, d.P.R. n. 633 del 1972 (quest’ultima solo per l’anno 1997), presentazione di infedele dichiarazione ex art. 28 d.P.R. n. 633 del 1972. La ricorrente denunciava il difetto di competenza territoriale dell’Ufficio di Venezia 2, la nullità degli avvisi per diverse cause, l’infondatezza della pretesa tributaria.
La Commissione adita riuniti i risorsi li accoglieva parzialmente. L’appello della contribuente era rigettato, con la sentenza in epigrafe, avverso la quale la contribuente propone ricorso per cassazione con sei motivi. Resiste l’amministrazione con controricorso.
La causa veniva chiamata all’udienza del 28 giugno 2011. A seguito dell’entrata in vigore del d.l. n. 98 del 2011 il Collegio si riconvocava per il 22 settembre 2011 e disponeva la sospensione del giudizio in attesa dell’eventuale adesione della contribuente al condono disposto dalla legge.
In data 20 giugno 2013, l’Avvocatura Generale dello Stato depositava in atti istanza con la quale chiedeva che fosse dichiarata l’estinzione del giudizio in ragione della domanda di definizione agevolata della lite presentata dalla contribuente ai sensi dell’art. 39, d.l. n. 98 del 2011. Dall’attestazione di regolarità della domanda di condono, allegata all’istanza, emergeva, tuttavia, che tale domanda concerneva l’accertamento per l’anno 1996, ma non quello per l’anno 1997: non essendo pervenuti ulteriori chiarimenti, la causa è stata rimessa sul ruolo, non potendo essere disposta l’estinzione del giudizio per incompletezza della domanda di definizione agevolata, ma dovendo essere decisa la controversia con riferimento all’accertamento per il 1997.

Motivazione

Con il primo motivo, la ricorrente denuncia omessa e insufficiente motivazione della sentenza impugnata in ordine al motivo d’appello con il quale era stata eccepita la carenza di motivazione della sentenza di prime cure.
Il motivo non è fondato, in quanto il giudice d’appello riporta analiticamente i passaggi argomentativi della sentenza del primo giudice, dando conto compiutamente nell’unità complessiva della decisione delle ragioni per le quali ha ritenuto l’adeguatezza della motivazione della sentenza di primo grado.
Con il secondo motivo, la ricorrente denuncia la violazione delle norme che regolano l’avvio e la durata del procedimento di accertamento, in quanto la verifica della Guardia di Finanza sarebbe durata più dei trenta giorni previsti dall’art. 4 del d.m. 28 dicembre 1994.
Il motivo non è fondato. Intanto la norma richiamata a fondamento della censura deve ritenersi superata dall’art. 12, comma 5, dello Statuto del contribuente, il quale prevede una durata di giorni trenta, prorogabili per altri trenta in casi di maggiore complessità (al cui novero il giudice d’appello ha ascritto quello di specie, senza che sul punto nessuna adeguata censura sia articolata nel ricorso): secondo l’orientamento di questa Corte, la norma «si riferisce ai soli giorni di effettiva attività lavorativa svolta presso tale sede, escludendo, quindi, dal computo quelli impiegati per verifiche ed attività eseguite in altri luoghi; né, in materia, assumono alcuna rilevanza le disposizioni, peraltro di natura meramente amministrativa, assunte come il d.m. Finanze 30 dicembre 1993 – per mere finalità di autorganizzazione e di coordinamento della capacità operativa dell’Amministrazione finanziaria da destinare all’azione accertatrice» (Cass. n. 23595 del 2011). Secondo il calcolo operato dal giudice d’appello, sul punto non adeguatamente censurato, le operazioni di verifica hanno impiegato complessivamente 56 giorni di effettiva presenza in azienda, entro i limiti, quindi, previsti dalla norma per le verifiche complesse.
Con il terzo motivo, la ricorrente insiste sul difetto di competenza territoriale dell’Ufficio di Venezia, alla luce di quanto disposto dall’art. 31, comma 2, d.P.R. n. 600 del 1973 che prevede la competenza dell’Ufficio nella cui circoscrizione è il domicilio fiscale del soggetto obbligato alla dichiarazione, domicilio che nel caso di specie sarebbe stato fissato nel Comune di Roma a partire dal 10 aprile 1997.
Il motivo non è fondato. Questa Corte, in relazione alla disposizione di cui all’art. 31, d.P.R. n. 600 del 1973, ha affermato che la competenza territoriale è determinata «con riferimento al domicilio fiscale indicato dal contribuente, la cui variazione, comunicata nella dichiarazione annuale dei redditi, costituisce pertanto atto idoneo a rendere noto all’Amministrazione il nuovo domicilio non solo ai fini delle notificazioni, ma anche ai fini della legittimazione a procedere» (Cass. nn. 5358 del 2006 e 11170 del 2013). Nel caso di specie, non soltanto, come ha correttamente fatto rilevare (senza che la contribuente l’abbia smentito), la dichiarazione fiscale è stata presentata all’Ufficio di Venezia (che avrebbe, quindi, ai sensi dell’art. 51, comma 1, d.P.R. n. 633 del 1972 il potere di procederne al controllo), ma non è indicato nel ricorso se, quando e come la contribuente abbia comunicato la variazione di domicilio fiscale e soprattutto se tale variazione era stata indicata nella dichiarazione presentata all’Ufficio di Venezia, tenuto anche conto del fatto che lo «ius variandi deve essere esercitato in buona fede, nel rispetto del principio dell’affidamento che deve informare la condotta di entrambi i soggetti del rapporto tributario» (Cass. n. 11170 del 2013).
Con il quarto motivo, la ricorrente denuncia l’incompetenza territoriale della Procura della Repubblica di Venezia in relazione all’autorizzazione all’accesso.
Il motivo è infondato. Correttamente il giudice d’appello afferma che la competenza territoriale del Procuratore della Repubblica di Venezia «deriva dalla dislocazione della sede legale» della contribuente «in Mestre, via X» (circostanza non smentita). Questa Corte ha, peraltro, chiarito che l’autorizzazione del Procuratore della Repubblica «ha natura amministrativa e può essere rilasciata, a prescindere dalle regole di competenza fissate dal codice di procedura penale, dal dirigente dell’Ufficio di Procura nel cui ambito territoriale si trova la sede dell’azienda da sottoporre a verifica» (Cass. n. 17002 del 2012). L’eccezione relativa alla supposta mancanza dell’autorizzazione del capo dell’Ufficio è inammissibile in quanto non autosufficiente e sollevata per la prima volta in sede di legittimità.
Con il quinto motivo, la ricorrente denuncia la ritenuta infondatezza della doglianza che essa aveva avanzato circa l’abuso ed eccesso di potere da parte degli accertatori, per gli accessi che essi avrebbero effettuato anche in locali ’’privati” per i quali sarebbe stata necessaria una specifica autorizzazione da parte del Procuratore della Repubblica.
La censura è inammissibile, sia in quanto diretta all’atto impositivo e non alla sentenza qui impugnata, sia perché irrispettosa del principio di cui all’art. 366 cod. proc. civ. non trascrivendo nel ricorso quale fosse il contenuto (e gli eventuali limiti) dell’autorizzazione rilasciata dal Procuratore della Repubblica: e ciò sarebbe stato tanto più necessario, tenuto conto del fatto che la sentenza impugnata enuncia un accertamento di fatto, non valutabile in questa sede di legittimità se non adeguatamente censurato, circa la legittimità dell’accesso «anche nei luoghi adibiti ad abitazione privata» in ragione della «autorizzazione (che) risulta dalla nota del Procuratore della Repubblica di Venezia n. 19/98 Fin. prot. 29.04.1998». Con il sesto motivo, la ricorrente denuncia la violazione dei requisiti richiesti dalla legge nel procedere all’indagine bancaria compiuta in relazione a conti correnti di soggetti da ritenersi terzi rispetto alla contribuente.
La censura è inammissibile in quanto diretta all’atto impositivo con l’evidente scopo di ottenere una revisione del giudizio di merito in sede di legittimità, mentre rispetto alla sentenza impugnata non è articolata sul punto alcuna circostanziata critica, peraltro si può in proposito ricordare l’orientamento già espresso da questa Corte circa il fatto che «l’autorizzazione necessaria agli Uffici per l’espletamento di indagini bancarie non deve essere corredata dall’indicazione dei motivi, non solo perché in relazione ad essa la legge non dispone alcun obbligo di motivazione, a differenza di quanto invece stabilito per gli accessi e le perquisizioni domiciliari, ma anche perché la medesima, nonostante il nomen iuris adottato, esplicando una funzione organizzativa, incidente esclusivamente nei rapporti tra uffici, e avendo natura di atto meramente preparatorio, inserito nella fase di iniziativa del procedimento amministrativo di accertamento, non è nemmeno qualificabile come provvedimento o atto impositivo».
(Cass. n. 14026 del 2012). Inoltre, questa Corte ha ritenuto che «in tema di poteri di accertamento degli uffici finanziari devono ritenersi legittime le indagini bancarie estese ai congiunti del contribuente persona fisica, ovvero a quelli degli amministratori della società contribuente — in quanto sia l’art. 32, n. 7, del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, riguardo alle imposte sui redditi, che l’art. 51 del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, riguardo all’IVA — autorizzano l’Ufficio finanziario a procedere all’accertamento fiscale anche attraverso indagini su conti correnti bancari formalmente intestati a terzi, ma che si ha motivo di ritenere connessi ed inerenti al reddito del contribuente, ipotesi, questa, ravvisabile nel rapporto familiare, sufficiente a giustificare, salva prova contraria, la riferibilità al contribuente accertato delle operazioni riscontrate su conti correnti bancari degli indicati soggetti» (Cass. n. 18083 del 2010).
Pertanto, deve essere dichiarata l’estinzione del processo con riferimento all’annualità 1996, stante la definizione per condono del relativo accertamento, mentre deve essere rigettato il ricorso con riferimento all’atto impositivo relativo all’annualità 1997. Le spese seguono la soccombenza.

P.Q.M.

Dichiara estinto il processo con riferimento all’accertamento relativo all’annualità 1996, compensando le spese. Rigetta il ricorso con riferimento all’accertamento relativo all’annualità 1997, condannando la parte ricorrente alle spese della presente fase del processo, che liquida in complessivi € 1.935,00 oltre spese prenotate a debito.

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