Corte di Cassazione, sezione terza penale, sentenza 6 marzo 2018, n. 10171. Violenza sessuale per la visita inutilmente invasiva del ginecologo.

Violenza sessuale per la visita inutilmente invasiva del ginecologo.

Sentenza 6 marzo 2018, n. 10171
Data udienza 19 gennaio 2018

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ROSI Elisabetta – Presidente

Dott. GALTERIO Donatella – Consigliere

Dott. SOCCI Angelo Matteo – Consigliere

Dott. MENGONI Enrico – rel. Consigliere

Dott. ZUNICA Fabio – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA
sul ricorso proposto da:
(OMISSIS), nato a (OMISSIS);
avverso la sentenza del 24/4/2017 della Corte di appello di Palermo;
visti gli atti, il provvedimento impugnato ed il ricorso;
sentita la relazione svolta dal Consigliere Dr. Enrico Mengoni;
udite le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Dr. De Masellis Mariella, che ha concluso chiedendo dichiarare inammissibile il ricorso;
udite le conclusioni del difensore della parte civile, Avv. (OMISSIS), che ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso;
udite le conclusioni del difensore del ricorrente, Avv. (OMISSIS) in sostituzione dell’Avv. (OMISSIS), che ha concluso chiedendo l’accoglimento del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza del 24/4/2017, la Corte di appello di Palermo confermava la pronuncia emessa il 19/3/2015 dal locale Tribunale, con la quale (OMISSIS) era stato giudicato colpevole del delitto di cui all’articolo 609-bis c.p., commi 1 e 2, e condannato alla pena di cinque anni di reclusione; allo stesso era contestato di aver costretto una donna a subire atti sessuali, nei termini di cui alla rubrica, abusando dell’autorita’ derivante dall’esercizio delle funzioni di medico specialista, e profittando delle condizioni di inferiorita’ fisica e psichica della paziente.
2. Propone ricorso per cassazione il (OMISSIS), a mezzo del proprio difensore, deducendo – con unica doglianza – la carenza di motivazione. La Corte di appello non avrebbe risposto a numerose censure mosse con il gravame, limitandosi a confermare un lacunoso ed illogico racconto della parte civile, invero ben possibile frutto di un’integrale travisamento della vicenda; la donna, infatti, avrebbe impropriamente attribuito valenza sessuale a condotte che ne erano del tutto prive, cosi’ interpretando la visita medica in oggetto – in modo erroneo nell’ottica di cui alla rubrica. Quanto ai residui testi, poi, tutti de relato, questi si sarebbero limitati a confermare un racconto viziato gia’ a monte, perche’ frutto di una percezione distorta da parte della persona offesa; elemento, questo, ancora estraneo ad ogni motivazione della pronuncia impugnata. Della quale, quindi, si chiede l’annullamento.
CONSIDERATO IN DIRITTO
3. Il ricorso risulta manifestamente infondato.
Al riguardo, occorre innanzitutto ribadire che il controllo del Giudice di legittimita’ sui vizi della motivazione attiene alla coerenza strutturale della decisione di cui si saggia l’oggettiva tenuta sotto il profilo logico-argomentativo, restando preclusa la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione e l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti (tra le varie, Sez. 6, n. 47204 del 7/10/2015, Musso, Rv. 265482; Sez. 3, n. 12110 del 19/3/2009, Campanella, n. 12110, Rv. 243247). Si richiama, sul punto, il costante indirizzo di questa Corte in forza del quale l’illogicita’ della motivazione, censurabile a norma dell’articolo 606 c.p.p., comma 1, lettera e), e’ soltanto quella evidente, cioe’ di spessore tale da risultare percepibile ictu oculi; cio’ in quanto l’indagine di legittimita’ sul discorso giustificativo della decisione ha un orizzonte circoscritto, dovendo il sindacato demandato alla Corte di cassazione limitarsi, per espressa volonta’ del legislatore, a riscontrare l’esistenza di un logico apparato argomentativo (Sez. U., n. 47289 del 24/9/2003, Petrella, Rv. 226074).
In altri termini, il controllo di legittimita’ sulla motivazione non attiene alla ricostruzione dei fatti ne’ all’apprezzamento del Giudice di merito, ma e’ limitato alla verifica della rispondenza dell’atto impugnato a due requisiti, che lo rendono insindacabile: a) l’esposizione delle ragioni giuridicamente significative che lo hanno determinato; b) l’assenza di difetto o contraddittorieta’ della motivazione o di illogicita’ evidenti, ossia la congruenza delle argomentazioni rispetto al fine giustificativo del provvedimento.
(Sez. 2, n. 21644 del 13/2/2013, Badagliacca e altri, Rv. 255542; Sez. 2, n. 56 del 7/12/2011, dep. 4/1/2012, Siciliano, Rv, 251760).
4. In tal modo individuato il perimetro di giudizio proprio della Suprema Corte, osserva allora il Collegio che le censure mosse dal ricorrente al provvedimento impugnato si evidenziano come inammissibili; ed invero, dietro la parvenza di una (peraltro generica) carenza motivazionale, lo stesso tende di fatto ad ottenere in questa sede una nuova e diversa valutazione delle medesime emergenze istruttorie (soprattutto testimoniali) gia’ ampiamente esaminate dai Giudici del merito, sollecitandone una lettura alternativa e piu’ favorevole.
Il che, come appena richiamato, non e’ consentito.
5. A cio’ si aggiunga che la Corte di appello – al pari del Tribunale, la cui pronuncia, integralmente confermata, e’ stata fatta propria dal Collegio di secondo grado – ha ribadito la colpevolezza del ricorrente con un piu’ che solido percorso argomentativo, fondato su oggettive emergenze dibattimentali e privo della denunciata carenza motivazionale (si ribadisce, peraltro, dedotta in termini generici, senza indicazione alcuna di specifiche doglianze che sarebbero state trascurate). In particolare, entrambi i Giudici hanno mosso dalla piena attendibilita’ attribuita alla persona offesa, il cui racconto era risultato sempre lineare, coerente e privo di aporie di sorta; ancora, si e’ sottolineato che la donna non aveva mai incontrato il ricorrente in precedenza, si’ da non potersi neppure immaginare un atteggiamento di astio, risentimento o vendetta nei suoi confronti. Escluso, poi, ulteriormente, dal fatto che la stessa, lasciato l’ospedale nel quale gli abusi si erano verificati, si era immediatamente recata non gia’ a sporgere querela (quel che, comunque, sarebbe avvenuto di li’ a poco, nello stesso giorno), ma presso il proprio medico di famiglia, per chiedergli conto della necessita’ e della correttezza delle pratiche (inserimento di dita nell’ano, due volte, ed in vagina) alle quali il medico – dal quale si era recata soltanto per un’ecografia addominale – l’aveva costretta. Visita, peraltro, poi seguita da ulteriori accertamenti medici, anche ginecologici, che avevano confermato lo stato di evidente agitazione, con crisi di pianto, che aveva subito colpito la stessa persona offesa, successivamente sottopostasi anche a terapia psicologica.
Non solo.
6. Le pronunce di merito hanno poi richiamato ulteriori elementi a sostegno della deposizione della donna, quali le dichiarazioni rese, oltre che dai medici ai quali la stessa si era di seguito rivolta, anche dalla zia e da due specialiste; emergenze istruttorie – tutte – che avevano confermato non solo l’immediatezza delle confidenze ricevute dalla ragazza, in uno con il suo palese stato di agitazione per l’accaduto, ma anche la coerenza del suo narrato, sempre ripetuto – cosi’ come, poi, in aula – in termini del tutto sovrapponibili.
7. Ancora nel senso della rubrica, poi, i Giudici del merito (e, soprattutto, il Tribunale) hanno ampiamente richiamato l’esame dell’imputato, evidenziandone le palesi incongruenze e le ripetute contraddizioni (questi, infatti, aveva affermato che, in considerazione dello stato di ansia della donna, “cerco’ di non farla preoccupare, tuttavia non esito’ a prospettarle un intervento chirurgico per asportare un’appendice che in quel momento al piu’ era soltanto infiammata, un’asportazione dell’ovaia come possibile conseguenza della sospetta appendicotopatia, una cirrosi epatica benche’ il volume del fegato fosse nella norma, delle emorroidi recidive, un versamento del Douglas ed un tumore; dopo aver terrorizzato la paziente, informandola di tutti i suoi sospetti, peraltro non ancorati ad alcun elemento concreto riscontrato, ed averla sottoposta ad una visita oltremodo invasiva ed imbarazzante, proprio nel momento in cui avrebbe potuto rassicurarla, informandola che non aveva alcuna delle patologie sospettate in quanto l’esito dell’esplorazione retto-vaginale era negativo…decise invece di tacere e di non fare menzione nel referto dell’accurata visita effettuata, per non far agitare la donna”); contraddizioni, peraltro, rimaste estranee al presente gravame, che alle stesse – ed alle conclusioni al riguardo raggiunte dalle Corti – non dedica neppure un passaggio argomentativo, tamquam non essent.
8. Si’ da doversi confermare, quindi, l’assunto gia’ raggiunto in sede di merito, a mente del quale il ricorrente aveva costretto la persona offesa a subire pratiche invasive prive di ogni giustificazione diagnostica o necessita’ terapeutica, poste in essere – senza consenso o preavviso – in modo subdolo e repentino. Delle quali, peraltro, si ribadisce, nessun cenno era stato poi inserito nel referto consegnatole, si’ da evidenziarsi ulteriormente la loro esclusiva valenza sessuale, nell’ottica dell’articolo 609-bis c.p. contestato; come implicitamente confermato, da ultimo, dalla giustificazione al riguardo addotta proprio dal ricorrente, ossia che “era una cosa a parte” rispetto alla visita “ufficiale”. E si’ da relegare a mera illazione, dunque, la tesi – ribadita anche nel presente ricorso secondo cui l’odierno processo sarebbe sorto soltanto per una percezione distorta della donna, che avrebbe male interpretato la visita alla quale era stata sottoposta.
9. In forza di queste adeguate e motivate considerazioni, in se’ non censurabili, la Corte di appello ha quindi concluso che l’imputato – abusando della qualifica di medico in servizio presso un ambulatorio pubblico – non aveva esitato a rendere la vittima ancor piu’ vulnerabile di quanto il contesto gia’ comportasse, prospettandole numerose patologie inesistenti allo scopo di menomarne la capacita’ di autodeterminazione e, soprattutto, di resistenza, cosi’ inducendola a credere che gli atti invasivi della sua sfera piu’ intima – dallo stesso praticati – fossero necessari per escludere le stesse patologie.
10. Il ricorso deve essere dichiarato inammissibile. Alla luce della sentenza 13 giugno 2000, n. 186, della Corte costituzionale e rilevato che, nella fattispecie, non sussistono elementi per ritenere che “la parte abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilita’”, alla declaratoria dell’inammissibilita’ medesima consegue, a norma dell’articolo 616 c.p.p. ed a carico di ciascun ricorrente, l’onere delle spese del procedimento nonche’ quello del versamento della somma, in favore della Cassa delle ammende, equitativamente fissata in Euro 2.000,00.
Il ricorrente deve esser altresi’ condannato alla refusione delle spese di costituzione e difesa sostenute nel grado dalla parte civile, che si liquidano in complessivi 3.500,00 Euro, oltre spese generali ed accessori di legge.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 2.000,00 in favore della Cassa delle ammende, nonche’ alla rifusione delle spese sostenute nel grado dalla parte civile (OMISSIS) che liquida in Euro 3.500,00, oltre spese generali ed accessori di legge.
Dispone, a norma del Decreto Legislativo n. 196 del 2003, articolo 52, che – a tutela dei diritti o della dignita’ degli interessati – sia apposta a cura della cancelleria, sull’originale della sentenza, un’annotazione volta a precludere, in caso di riproduzione della presente sentenza in qualsiasi forma, per finalita’ di informazione giuridica su riviste giuridiche, supporti elettronici o mediante reti di comunicazione elettronica, l’indicazione delle generalita’ e di altri dati identificativi degli interessati risortati sulla sentenza.

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