In materia di detenzione di materiale pornografico, la sola attività di download e salvataggio, ovvero di backup e trasferimento in supporti hardware diversi implica il dolo richiesto dalla norma di riferimento.
CORTE DI CASSAZIONE
sezione terza penale
SENTENZA 19 ottobre 2017, n. 48175
Pres. Fiale – est. Aceto
Ritenuto in fatto
1.Il sig. Sa. Bo. Ch. ricorre personalmente per l’annullamento della sentenza del 30/03/2016 della Corte di appello di Milano che, in parziale riforma di quella del 31/03/2015 del Tribunale di quello stesso capoluogo da lui impugnata, lo ha assolto dal reato di cui all’art. 600-ter, comma 3, cod. pen., perché il fatto non sussiste e ha rideterminato la pena principale applicata per il residuo reato di cui all’art. 600-quater, cod. pen. (detenzione di sedici filmati pornografici realizzati utilizzando minori degli anni 18) nella definitiva misura di otto mesi di reclusione e 1.600,00 Euro di multa, confermando nel resto.
1.1.Con unico motivo, allegando l’assenza dell’elemento psicologico del reato (nella forma del dolo diretto), ritenuto dalla Corte di appello in base al solo dato oggettivo del download dei file e del loro salvataggio, e lamentando che la propria condanna si fonda sostanzialmente sul solo elemento oggettivo del reato, essendo stata trascurata ogni indagine sulla effettiva consapevolezza dell’attività di download, di salvataggio, trasferimento e backup dei file (non è stata trovata alcuna stringa di ricerca nel programma e-Mule, né alcuna parola chiave di ricerca, visto che egli non ha mai ricercato file pedo-pornografici, né ha mai visualizzato quelli incriminati), indagine elisa dal decisivo travisamento dell’unica prova scientifica acquisita (la CT della difesa), eccepisce, ai sensi dell’art. 606, lett. b), c) ed e), cod. proc. pen., la mancanza e la contraddittorietà della motivazione, la violazione di legge e di norme processuali, il travisamento delle risultanze probatorie.
Considerato in diritto
2.Il ricorso è inammissibile perché generico e manifestamente infondato.
3.Non sono contestati la natura pedo-pornografica dei file, né la loro oggettiva detenzione; l’unica questione devoluta riguarda la consapevolezza del contenuto illecito dei file scaricati dal ricorrente.
3.1.La Corte di appello, investita della medesima questione, l’ha disattesa facendo notare, in punto di fatto, che ‘l’imputato aveva ‘conservato’ in HD diversi i file pedopornografici per cui è processo, e la sola attività di download e salvataggio, ovvero di backup e trasferimento in supporti hardware diversi implica il dolo richiesto dalla (…) ipotesi ex art. 600-quater c.p.. Infatti chiunque (e a maggior ragione un tecnico, un informatico, per di più – come si pretende -appassionato di cinema) controlla il materiale oggetto di download, essendo frequentissimo che il film o il brano musicale non corrisponde ai desiderata, ovvero sia una copia incompleta, di pessima qualità, difettosa, in lingua non intellegibile etc. Questa operazione viene effettuata se il file scaricato è conservato sul proprio computer, visto lo spazio occupato e – a maggior ragione – e dunque l’elemento psicologico è certo se addirittura i file scaricati vengono trasferiti come nel caso in esame su altri e più agili supporti. Inequivoca sul punto la deposizione del teste (…) che rinvenne nei dispositivi informatici sequestrati altri 16 file pedopornografici, memorizzati e fruibili. Di nessun interesse che fossero in parte nel cestino’.
3.2.Il ragionamento dei Giudici distrettuali è chiaro: la collocazione in diversi supporti informatici dei file lascia ragionevolmente ritenere la consapevolezza del loro contenuto poiché le modalità della detenzione presuppongono un’attività di trasferimento che esclude ogni forma di automatismo. Tale conclusione è avvalorata, nel ragionamento della Corte territoriale, dal fatto che alcuni file erano stati trasferiti nel cestino. Il fatto sul quale si fonda il ragionamento è il rinvenimento dei file in supporti diversi, secondo quanto testimoniato dall’assistente di PS che aveva effettuato gli accertamenti tecnici.
3.3.Il ricorrente eccepisce la natura apodittica di tale ragionamento che confonde – sostiene – l’elemento soggettivo del reato (la sicura consapevolezza del contenuto dei file pedopornografici) con quello oggettivo (la mera detenzione).
3.4.L’eccezione è generica e palesemente infondata.
3.5.Il ricorrente prescinde completamente dal passaggio logico (collocazione dei file in diversi supporti = prova della consapevolezza del loro contenuto) posto dalla Corte di appello a fondamento della decisione impugnata e concentra le proprie doglianze sul fatto che è stata trascurata la prova che egli non aveva mai ricercato file pedopornografici in rete, i quali non erano mai stati visualizzati perché salvati in automatico. Egli però non spiega mai le ragioni della diversa allocazione di alcuni di essi, né il trasferimento di altri nel cestino. Di qui la genericità dell’eccezione.
3.6.L’eccezione è altresì palesemente infondata perché non è manifestamente illogico trarre dalla diversa collocazione dei file in supporti informativi diversi, e persino nel cestino, la prova della consapevolezza del loro contenuto. L’attività di sistemazione dei file in diversi supporti, non spiegata, come detto, dal ricorrente, contrasta con la tesi del salvataggio inconsapevole poiché è evidente che tale attività comporta un intervento diretto dell’autore che dimostra di avere il pieno e consapevole dominio dell’azione. Né è manifestamente illogico ritenere che tale attività comporti una selezione del materiale diversamente allocato, parte del quale addirittura cestinato. A maggior ragione se, come nel caso di specie, si tratta di file il cui nome evoca il possibile contenuto pedopornografico.
3.7.Sicché, in circostanze simili, eccepire a propria difesa di non averli mai visionati non ha alcuna rilevanza poiché ai fini della prova del dolo del reato di cui all’art. 600-quater, cod. pen, non è affatto necessario che l’autore visioni il contenuto del materiale informatico quando esso possa essere desunto da altri indicatori esterni di segno univoco, quali il nome del file (definito inequivoco dal Tribunale) o l’indirizzo informatico di provenienza.
3.8.Alla declaratoria di inammissibilità del ricorso consegue, ex art. 616 cod. proc. pen., non potendosi escludere che essa sia ascrivibile a colpa del ricorrente (C. Cost. sent. 7-13 giugno 2000, n. 186), l’onere delle spese del procedimento nonché del versamento di una somma in favore della Cassa delle ammende, che si fissa equitativamente, in ragione dei motivi dedotti, nella misura di Euro 2.000,00.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 2.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.
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