Corte di Cassazione, sezione terza penale, sentenza 1 marzo 2018, n. 9375. In tema di impugnazioni, il mancato esame, da parte del giudice di secondo grado, di un motivo di appello non comporta l’annullamento della sentenza quando la censura, se esaminata, non sarebbe stata in astratto suscettibile di accoglimento

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2. Quando ai primi due motivi di ricorso – da trattarsi unitariamente in quanto obiettivamente connessi – giova osservare come l’impossibilita’ per il giudice di secondo grado di richiamare per relationem la motivazione della sentenza gravata d’appello, dovendo rispondere alle singole doglianze prospettate pena l’abdicazione alla funzione del doppio grado di giurisdizione ed il vizio di motivazione, trova un limite nel caso, che e’ quello di specie, in cui ci si trova di fronte ad una doppia decisione conforme (in questo caso di condanna), in cui le sentenze di primo e di secondo grado vanno apprezzate nel loro complesso, onde valutarne la conformita’ al diritto ed alla logica. Questo principio, in particolare, e’ valido nella misura in cui le rispettive motivazioni si integrino a vicenda e, a fortiori, quando la motivazione del primo giudice sia autosufficiente rispetto alle censure che le sono mosse con i motivi di gravame, risolvendosi questi ultimi nella mera riproposizione di questioni gia’ esaurientemente valutate e decise, senza che venga richiesto un concreto vaglio critico sulla ratio decidendi della sentenza impugnata. Se il primo giudice ha preso precisa posizione sulle deduzioni difensive e le ha logicamente vagliate e superate, la parte che le abbia riproposte, puramente e semplicemente, al giudice di appello senza dolersi delle ragioni con le quali le questioni siano state risolte attraverso l’articolazione del ragionamento probatorio contenuto nella sentenza impugnata o senza prospettare nuovi profili di valutazione, ben puo’ la Corte d’appello limitarsi a richiamare la sentenza di primo grado che integralmente condivida (Sez. 3, n. 27416 del 01/04/2014, Rv. 259666). Laddove, cioe’, i giudici del gravame, esaminando le censure proposte dall’appellante con criteri omogenei a quelli del primo giudice e richiamando i passaggi logico-giuridici della prima sentenza, concordino nell’analisi e nella valutazione degli elementi di prova posti a fondamento della decisione, la struttura giustificativa della sentenza di appello si salda con quella di primo grado, per formare un unico complessivo corpo argomentativo (Sez. 3, n. 44418 del 16/07/2013, Argentieri, Rv. 257595).

Nel caso di specie, l’unica critica alla sentenza di primo grado alla quale la motivazione per relationem della Corte territoriale non risponde e’ quella secondo cui (OMISSIS) non avrebbe intenzionalmente chiuso a chiave la porta della centrale elettrica dove avvenne il fatto, porta che, comunque, si sarebbe dovuta chiudere in omaggio alle direttive aziendali e che si sarebbe bloccata, impedendone l’apertura dall’interno, per un semplice guasto. Quand’anche tali doglianze cogliessero nel segno, esse non varrebbero pero’ ad escludere la sussistenza del reato contestato poiche’ – diversamente da quel che allega il ricorrente – sia il tribunale sia la corte danno atto della sussistenza del profilo di violenza contestato in imputazione, vale a dire dell’aver l’imputato tentato di baciare sulla bocca la collega (OMISSIS), cingendola con le braccia e impedendole di muoversi. Se anche la porta del locale non fosse stata intenzionalmente chiusa dal (OMISSIS) al fine di commettere il reato, dunque, non verrebbe meno la violenza contestata e ritenuta ed essendo quello un profilo di condotta neppure oggetto d’imputazione, la motivazione sul punto resa dalla sentenza di primo grado (e acriticamente confermata in appello) appare irrilevante. Deve quindi richiamarsi il principio secondo cui, in tema di impugnazioni, il mancato esame, da parte del giudice di secondo grado, di un motivo di appello non comporta l’annullamento della sentenza quando la censura, se esaminata, non sarebbe stata in astratto suscettibile di accoglimento, in quanto l’omessa motivazione sul punto non arreca alcun pregiudizio alla parte e, se trattasi di questione di diritto, all’omissione puo’ porre rimedio, ai sensi dell’articolo 619 cod. proc. pen., la Corte di cassazione quale giudice di legittimita’ (Sez. 3, n. 21029 del 03/02/2015, Dell’Utri, Rv. 263980).

Per il resto, le due decisioni di primo e secondo grado danno atto, in modo logico e coerente, dell’attendibilita’ delle dichiarazioni rese dalla persona offesa e ne individuano gli elementi fattuali e logici di riscontro, sicche’ le doglianze al proposito avanzate nell’atto d’appello – e pedissequamente riproposte nel ricorso per cassazione – volte ad ottenere un’alternativa ricostruzione dei fatti accreditando la differente versione resa dall’imputato, sollecitano una valutazione di merito non consentita in sede di legittimita’.

Ed invero, quando sia dedotto il vizio di motivazione di cui all’articolo 606 c.p.p., comma 1, lettera e), il controllo di legittimita’ non concerne ne’ la ricostruzione dei fatti, ne’ l’apprezzamento del giudice di merito, ma e’ circoscritto alla verifica che il testo dell’atto impugnato contenga l’esposizione delle ragioni giuridicamente significative che lo sorreggono, che il discorso giustificativo sia effettivo e non meramente apparente (cioe’ idoneo a rappresentare le ragioni che il giudicante ha posto a base della decisione adottata), che nella motivazione non siano riscontrabili contraddizioni, ne’ illogicita’ evidenti (cfr. Sez. 1, n. 41738 del 19/10/2011, Longo, Rv. 251516).

Quanto alla illogicita’ della motivazione come vizio denunciabile, la menzionata disposizione vuole che essa sia manifesta, cioe’ di spessore tale da risultare percepibile ictu oculi, restando ininfluenti le minime incongruenze e dovendosi considerare disattese le deduzioni difensive che, anche se non espressamente confutate, appaiano logicamente incompatibili con la decisione adottata (cfr. Sez. 2, n. 1405/2014 del 10/12/2013, Cento e a., Rv. 259643). L’indagine di legittimita’ sul discorso giustificativo della decisione, inoltre, ha un orizzonte circoscritto, dovendo il sindacato demandato alla Corte di cassazione limitarsi, per espressa volonta’ del legislatore, a riscontrare l’esistenza di un logico apparato argomentativo, senza possibilita’ di “verifica della rispondenza della motivazione alle acquisizioni processuali e senza che sia possibile dedurre nel giudizio di legittimita’ il travisamento del fatto (Sez. 6, n. 25255 del 14/02/2012, Minervini, Rv. 253099). Alla Corte di cassazione, invero, sono precluse la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione impugnata e l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, indicati dal ricorrente come maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacita’ esplicativa rispetto a quelli adottati dal giudice del merito (Sez. 6, n. 47204 del 07/10/2015, Musso, Rv. 265482).

3. Quanto al terzo ed al quarto motivo di ricorso – pure questi da trattarsi unitariamente – deve osservarsi come, benche’ sia stato evocato anche il vizio di motivazione, si tratti in realta’ di questioni in puro diritto, con la conseguenza che quel vizio non puo’ essere dedotto. Ed invero, deve qui richiamarsi il principio secondo cui, nel giudizio di cassazione, il vizio di motivazione non e’ denunciabile con riferimento a questioni di diritto, posto che il giudice di merito non ha l’onere di motivare l’interpretazione prescelta, essendo sufficiente che il risultato finale sia corretto. Le disposizioni di cui all’articolo 606 cod. proc. pen., lettera b) e c) si riferiscono all’inosservanza ed all’erronea applicazione della legge e non fanno alcun riferimento al percorso logico-argomentativo del giudice, a differenza della successiva lettera e), che si riferisce, invece, ai profili in fatto della motivazione” (Sez. 3, n. 6174/2015 del 23/10/2014, Monaj, Rv. 264273.

Venendo, dunque, alle dedotte violazioni di legge, avendo entrambi i giudici ritenuto in fatto che (OMISSIS), molto piu’ alto della collega, con azione rapida e cogliendo di sorpresa la ragazza, la cinse con le braccia da dietro tentando di baciarla sulla bocca e non riuscendovi soltanto perche’ lei – immobilizzata scosto’ la testa sicche’ il bacio fu dato sulla guancia, e’ certamente corretta la qualificazione giuridica del fatto in termini di tentata violenza sessuale.

In primo luogo, sussiste ictu oculi il profilo della condotta violenta, non potendosi dubitare che tale sia l’immobilizzazione avvenuta da tergo sfruttando la maggiore prestanza fisica con un’azione comunque repentina che sorprenda la vittima impedendole di opporsi (Sez. 3, n. 27273 del 15/06/2010, Rv. 247932) e cio’ tanto piu’ che – indipendentemente da chi lo avesse fatto e perche’ – i due si trovavano pacificamente soli e chiusi dentro ad una centrale elettrica (v. Sez. 3, n. 40443 del 28/11/2006, Zanelli, Rv. 235579, secondo cui “integra il delitto di violenza sessuale non solo la violenza che pone il soggetto passivo nell’impossibilita’ di opporre tutta la resistenza possibile, realizzando un vero e proprio costringimento fisico, ma anche quella che si manifesta con il compimento di atti idonei a superare la volonta’ contraria della persona offesa, soprattutto se la condotta criminosa si esplica in un contesto ambientale tale da vanificare ogni possibile reazione della vittima”).

In secondo luogo, tenuto conto delle circostanze accertate e descritte nelle sentenze di merito – che danno altresi’ atto del fatto che tra i due colleghi non vi fosse alcuna frequentazione al di fuori del lavoro, che (OMISSIS), fidanzata, provava anzi una certa antipatia per (OMISSIS), che proprio quella mattina ella aveva rifiutato il suo invito a pranzare con lui – non puo’ dubitarsi dell’idoneita’ della condotta descritta (vale a dire, si ripete, un repentino abbraccio da tergo con tentativo di bacio sulla bocca) a ledere il bene penalmente protetto. Questa Corte, invero, ha gia’ affermato il principio secondo cui, ai fini della configurabilita’ del delitto di violenza sessuale, la rilevanza di tutti quegli atti che, in quanto non direttamente indirizzati a zone chiaramente definibili come erogene, possono essere rivolti al soggetto passivo, anche con finalita’ del tutto diverse, come i baci o gli abbracci, costituisce oggetto di accertamento da parte del giudice del merito, secondo una valutazione che tenga conto della condotta nel suo complesso, del contesto sociale e culturale in cui l’azione e’ stata realizzata, della sua incidenza sulla liberta’ sessuale della persona offesa, del contesto relazionale intercorrente tra i soggetti coinvolti e di ogni altro dato fattuale qualificante (Sez. 3, n. 964/2015 del 26/11/2014, Rv. 261634, che ha ritenuto penalmente rilevante la condotta di un medico di guardia presso una casa di riposo, il quale si avvicinava velocemente ad una operatrice sanitaria a cui non era legato da alcun particolare rapporto confidenziale o affettivo e la baciava alla bocca con una forte pressione). Nel caso di specie, non essendo stato lo scopo realizzato perche’ la donna ruoto’ la testa, si’ che il bacio indirizzato alla bocca fu dato sulla guancia, e’ stata ritenuta la sussistenza del reato tentato piuttosto che consumato.

Quanto al dolo, i giudici di merito hanno ritenuto che l’azione dell’imputato avesse un chiaro fine sessuale – escludendo, dunque, una diversa connotazione dell’azione in termini consolatori o genericamente amicali od affettuosi – ed e’ destituito di fondamento il rilievo contenuto in ricorso secondo cui non sussisterebbe l’elemento soggettivo del reato ritenuto perche’ il bacio non sarebbe stato rivolto alla ricerca del soddisfacimento sessuale. Secondo un consolidato orientamento di legittimita’, di fatti, l’elemento soggettivo del reato di violenza sessuale e’ integrato dal dolo generico, consistente nella coscienza e volonta’ di compiere un atto invasivo e lesivo della liberta’ sessuale della persona offesa non consenziente, sicche’ non e’ necessario che detto atto sia diretto al soddisfacimento dei desideri dell’agente ne’ rilevano possibili fini ulteriori dal medesimo perseguiti (sez. 3, n. 4913/2015 del 22/10/2014 Rv. 262470).

4. Alla declaratoria di inammissibilita’ del ricorso, tenuto conto della sentenza Corte cost. 13 giugno 2000, n. 186 e rilevato che nella presente fattispecie non sussistono elementi per ritenere che la parte abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilita’, consegue, a norma dell’articolo 616 cod. proc. pen., oltre all’onere del pagamento delle spese del procedimento anche quello del versamento in favore della Cassa delle Ammende della somma equitativamente fissata in Euro 2.000,00.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 2.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.

Dispone, a norma del Decreto Legislativo 30 giugno 2003, n. 196, articolo 52 che – a tutela dei diritti o della dignita’ degli interessati – sia apposta a cura della cancelleria, sull’originale della sentenza, un’annotazione volta a precludere, in caso di riproduzione della presente sentenza in qualsiasi forma, per finalita’ di informazione giuridica su riviste giuridiche, supporti elettronici o mediante reti di comunicazione elettronica, l’indicazione delle generalita’ e degli altri dati identificativi degli interessati riportati sulla sentenza.

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