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Le censure si rivelano infatti aspecifiche, nella misura in cui non si correlano al tessuto argomentativo della sentenza impugnata, non consentite, là dove prospettano questioni di mero fatto, e comunque manifestamente infondate, per la evidente erroneità degli argomenti proposti.
3.1. Quanto alla prima e alla seconda censura è sufficiente osservare quanto segue.
La Corte di appello ha puntualmente e correttamente proceduto alla verifica della attendibilità intrinseca ed estrinseca delle dichiarazioni rese dalla persona offesa e la pretesa del ricorrente che il riscontro delle stesse debba essere dotato di autonoma forza probatoria per tutti i singoli episodi non ha fondamento alcuno (altrimenti le dichiarazioni della persona offesa non avrebbero alcun rilievo, in quanto la prova si fonderebbe comunque su tali elementi esterni).
È principio oramai consolidato che le regole dettate dall’art. 192, comma 3, cod. proc. pen. non si applicano alle dichiarazioni della persona offesa, le quali possono essere legittimamente poste da sole a fondamento dell’affermazione di penale responsabilità dell’imputato, previa verifica, corredata da idonea motivazione, della credibilità soggettiva del dichiarante e dell’attendibilità intrinseca del suo racconto, che peraltro deve in tal caso essere più penetrante e rigoroso rispetto a quello cui vengono sottoposte le dichiarazioni di qualsiasi testimone (Sez. U, n. 41461 del 19/07/2012, Bell’Arte, Rv. 253214). Le stesse Sezioni Unite hanno altresì precisato come, nel caso in cui la persona offesa si sia costituita parte civile, possa essere opportuno procedere al riscontro di tali dichiarazioni con altri elementi.
La Corte di appello ha ben evidenziato per ogni episodio i riscontri esterni, ripercorrendo analiticamente tutte le dichiarazioni della persona offesa ed evidenziando le condotte abituali addebitate al ricorrente (ovvero aggressioni che fino al 2010 riguardavano gli oggetti e non la sua persona, per poi degenerare nell’epoca successiva in minacce anche di morte, in percosse, in reazioni d’ira del ricorrente, in ritorsioni, nella violenza sugli oggetti, in pugni, in tirate di capelli, in occasione di continue discussioni che vedano il ricorrente adirarsi in particolare per gli impegni lavorativi della moglie, che lo stesso viveva problematicamente quanto alle modalità con cui la donna svolgeva il suo lavoro, con impegni non conciliabili, a suo avviso, con i rapporti familiari, tanto da stilare su una lavagna i giorni in cui avrebbero potuto pranzare assieme, con conseguente sue reazioni in caso in cui venissero disattesi gli accordi). La sentenza impugnata ha poi sottolineato come la donna fosse stata costretta a rifugiarsi da parenti e vicini per sottrarsi al ricorrente, tanto poi da prendere in affitto un appartamento temendo di essere aggredita nel sonno.
La Corte di appello, nel ricostruire lo snodarsi degli eventi, ha evidenziato la risalenza nel tempo degli episodi di maltrattamenti (a partire dal 2011 con più atti di violenza e costanti minacce di morte alla persona offesa), e ha proceduto poi a rispondere dettagliatamente a tutti i rilievi difensivi, compresa la questione della attendibilità dei testi indicati dalla difesa, là dove gli stessi avevano tratteggiato una coppia serena o smentito le dichiarazioni della persona offesa. La Corte di appello ha in particolare dato logica e motivata spiegazione del perché le loro deposizioni non avevano rilievo. Ha poi fornito risposta sulle testimonianze de relato, rilevando come le eccezioni difensive fossero generiche e assertive.
La stessa Corte ha ragionevolmente evidenziato sul punto come le condotte maltrattanti fossero avvenute tra le mura domestiche, quindi in assenza di diretti testimoni, e come chi le subisca tenti di conservare il rapporto familiare cercando di gestire la situazione, anche per paura di comprometterlo con denunce o temendo ritorsioni, confidandosi piuttosto con vicini o parenti dai quale ricevere aiuto in situazioni di emergenza.
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