Anche l’attività peritale o di consulenza d’ufficio (sia disposta dal giudice civile che dal pubblico ministero nel processo penale) svolta nell’ambito di un procedimento giudiziario ave sia resa consapevolmente in senso difforme dalla realtà costituisce un atto contrario ai doveri d’ufficio commesso dal pubblico ufficiale

Corte di Cassazione, sezione sesta penale, sentenza 18 aprile 2018, n. 17523.

Anche l’attività peritale o di consulenza d’ufficio (sia disposta dal giudice civile che dal pubblico ministero nel processo penale) svolta nell’ambito di un procedimento giudiziario ave sia resa consapevolmente in senso difforme dalla realtà costituisce un atto contrario ai doveri d’ufficio commesso dal pubblico ufficiale, in quanto concorre funzionalmente all’esercizio della funzione giudiziaria (e, se oggetto di un accordo corruttivo, può costituire condotta del reato di corruzione in atti giudiziari previsto dall’art. 319-ter c.p.), ma affinchè ciò possa ritenersi configurabile, è necessario sussista l’elemento costitutivo del predetto reato, consistente nella promessa o della dazione di denaro o di altre utilità, oggetto dell’accordo.

Sentenza 18 aprile 2018, n. 17523
Data udienza 13 febbraio 2018

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MOGINI Stefano – Presidente

Dott. TRONCI Andrea – Consigliere

Dott. GIORDANO Emilia Anna – Consigliere

Dott. CALVANESE Ersilia – rel. Consigliere

Dott. CORBO Antonio – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

Procuratore generale presso la Corte di appello di Salerno;

nel procedimento contro:

1. (OMISSIS), nato a (OMISSIS);

2. (OMISSIS), nata a (OMISSIS);

3. (OMISSIS), nato a (OMISSIS);

avverso la sentenza del 07/12/2016 del Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Salerno;

visti gli atti, il provvedimento denunziato e il ricorso;

udita la relazione svolta dal consigliere Dott. Ersilia Calvanese;

udite le richieste del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Dott. CANEVELLI Paolo, che ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso;

uditi i difensori, avv. (OMISSIS) per (OMISSIS) e (OMISSIS), nonche’ in sostituzione dell’avv. (OMISSIS) per (OMISSIS) e dell’avv. (OMISSIS) per (OMISSIS), l’avv. (OMISSIS) per (OMISSIS) e l’avv. (OMISSIS) per (OMISSIS), che hanno concluso chiedendo il rigetto del ricorso.

RITENUTO IN FATTO

1. Il Procuratore generale presso la Corte di appello di Salerno ricorre per l’annullamento della sentenza, in epigrafe indicata, nella parte in cui ha dichiarato non luogo a procedere nei confronti di (OMISSIS), (OMISSIS) e (OMISSIS) per il reato di cui agli articoli 110 e 374 c.p. perche’ il fatto non sussiste.

Agli imputati era stato contestato di aver il (OMISSIS), quale consulente tecnico d’ufficio, nominato in un processo civile, contattato il difensore di una delle parti processuali, l’avv. (OMISSIS), affinche’ la stessa nominasse come consulente tecnico di parte (OMISSIS), con il quale poi si accordava in modo che le due relazioni venissero a coincidere (reato commesso nel (OMISSIS)).

Secondo il Giudice, la stessa contestazione (confermata dalle risultanze investigative) prevedeva un mero accordo preliminare intercorso tra le parti, al quale non erano seguiti il deposito della relazione peritale da parte del (OMISSIS) e la nomina del (OMISSIS) quale consulente tecnico di parte: la condotta pertanto non poteva configurare ne’ il reato di cui all’articolo 374 c.p. ne’ quello di cui all’articolo 374-bis c.p..

In ordine alla fattispecie di frode processuale invero difettava la “immutazione” richiesta dalla norma penale, mentre per la configurabilita’ del secondo reato era pur sempre necessaria la predisposizione di una falsa relazione destinata ad essere prodotta all’A.G.

2. Nel ricorso si deduce la violazione di legge, con riferimento agli articoli 425, 521 e 522 c.p.p., in ordine alla mancata riqualificazione giudica del fatto nel reato ex articolo 319-ter c.p..

Il Giudice dell’udienza preliminare, pur dando per accertato l’accordo intervenuto tra gli imputati al fine di alterare le risultanze processuali, attraverso la redazione del (OMISSIS) di una relazione concordata, non avrebbe provveduto all’esatta qualificazione giuridica del fatto (che e’ consentita anche nella fase dell’udienza preliminare), di cui ricorrevano ictu oculi tutti gli elementi, gia’ contestati nell’imputazione: la qualifica soggettiva del (OMISSIS), quale consulente tecnico di ufficio, l’accordo corruttivo, il dolo specifico, la violazione da parte del (OMISSIS) dei doveri di ufficio (nella specie quelli di cui all’articolo 193 c.p.c.), l’utilita’ che il (OMISSIS) avrebbe tratto dall’operazione (essere in credito il (OMISSIS) con l’avvocato per futuri vantaggi o comunque avvantaggiare la parte difesa dalla (OMISSIS)).

Il difensore di (OMISSIS) ha fatto pervenire il 5 febbraio 2018 una memoria difensiva, in cui sostiene da un lato come non sia possibile la modificazione “a sorpresa” dell’imputazione, alterandone gli elementi strutturali, ovvero introducendo un quid pluris, il vantaggio tanto in capo al corrotto che al corruttore, dall’altro l’inesistenza giuridica del reato che si intende configurare, tenuto conto della mancata redazione dell’elaborato.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il ricorso e’ inammissibile per le ragioni di seguito illustrate.

2. Va ribadito che lo jus variandi in punto di diritto e’ potere tipico del giudice che, in ogni fase e grado del procedimento, ha il potere-dovere di attribuire al fatto per cui si procede l’esatta qualificazione giuridica, senza che cio’ incida sull’autonomo potere – riservato in via esclusiva al pubblico ministero – di modificare il fatto contestato e di procedere alla nuova contestazione, quando esso risulti diverso da come e’ descritto nell’imputazione.

Anche il giudice dell’udienza preliminare, pur nel silenzio del codice sul punto, ha il potere di qualificare diversamente il fatto con la conseguenza che il decreto di rinvio a giudizio adottato non puo’ qualificarsi atto abnorme in relazione alla diversa qualificazione, la quale costituisce espressione di legittimo esercizio di un potere riconosciuto dalla legge (Sez. 6, n. 28262 del 10/05/2017, Tosi, Rv. 270521; Sez. 6, n. 3658 del 16/11/1998, Carlutti, Rv. 212688).

La “riqualificazione giuridica” dello stesso si realizza peraltro attribuendo l’esatto nomen juris ad un episodio che deve rimanere invariato nei suoi tratti caratterizzanti.

Lo jus variandi in punto di fatto e’ infatti potere esclusivo del pubblico ministero, trattandosi di prerogativa inerente all’esercizio dell’azione penale e nel corso dell’udienza preliminare si attua con la modifica del fatto contestato, disciplinata dall’articolo 423 c.p.p. – disciplina estesa, dalla stessa legge, al reato connesso per continuazione o concorso formale ed all’elevazione di una circostanza aggravante – ovvero con la contestazione del fatto “nuovo”, regolata dall’articolo 423 c.p.p., comma 2. Univoca nella giurisprudenza di legittimita’ e’ definizione di “fatto nuovo”, scandagliata precipuamente con riguardo alla ipotesi di cui all’articolo 518 c.p.p., nozione che sta ad indicare un fatto ulteriore ed autonomo rispetto a quello contestato, ossia un episodio storico che non si sostituisce ad esso, ma che eventualmente vi si aggiunge, affiancandolo quale autonomo thema decidendum (Sez. 6, n. 6987 del 19/10/2010, dep. 2011, N., Rv. 249461).

Tale definizione, che rimanda al fatto come episodio storico, viene piu’ volte richiamata in contrapposizione a quella piu’ elastica, di “fatto diverso”. Per fatto diverso, deve intendersi non solo un fatto che integri una imputazione diversa, restando esso invariato, ma anche un fatto che presenti connotati materiali difformi da quelli descritti nella contestazione originaria, necessaria una puntualizzazione nella ricostruzione degli elementi essenziali del reato (Sez. 2, n. 18868 del 10/02/2012, Osmenaj, Rv. 252822). Cio’ che rileva, si e’ precisato, ai fini della violazione del diritto di difesa in rapporto al principio di correlazione ex articolo 521 c.p.p. (Sez. 6, 21/10/2005 n. 12175, Tarricone, Rv. 231483) – ma non vi e’ ragione per non estendere la portata di tale principio anche alla fase dell’udienza preliminare – e’ l’apprezzamento nella concretezza della situazione processuale e non gia’ in astratto, poiche’, la modifica del fatto di rilievo e’ solo quella che modifica radicalmente la struttura della contestazione, in quanto sostituisce il fatto tipico, il nesso di causalita’ e l’elemento psicologico del reato, e, per conseguenza di essa, l’azione realizzata risulta completamente diversa da quella contestata, al punto da essere incompatibile con le difese apprestate dall’imputato per discolparsene. Mentre, non si ha mutamento del fatto allorche’ il fatto tipico sia rimasto identico a quello contestato nei suoi elementi essenziali e sia stato connotato dallo stesso contesto referenziale e storico ed in un ambito in cui l’imputato ha potuto per intero spendere, senza alcuna menomazione del suo diritto di difesa, tutti gli interventi utili a sostenere la propria estraneita’ ai fatti criminosi stimati nel loro insieme.

3. Alla luce di queste premesse, deve escludersi che, nel caso di specie, la trasformazione dell’imputazione indicata dal ricorrente resti confinata nella diversa qualificazione giuridica del fatto contestato.

L’ipotesi corruttiva di cui all’articolo 319-ter c.p. ha struttura ed elementi costitutivi radicalmente diversi dai reati di cui agli articoli 374 e 374-bis c.p., tanto che la giurisprudenza di legittimita’ ritiene che tra le suddette fattispecie non ricorra ne’ un’ipotesi di concorso formale, ne’ tantomeno di concorso apparente di norme coesistenti, attesa la diversita’ ontologica e strutturale dei reati e la diversita’ del bene giuridico tutelato (Sez. 5, n. 10443 del 26/10/2011, dep. 2012, Mottola, Rv. 252001).

Va a tal riguardo rammentato che costituisce principio pacifico che anche l’attivita’ peritale o di consulenza d’ufficio (sia disposta dal giudice civile che dal pubblico ministero nel processo penale) svolta nell’ambito di un procedimento giudiziario ove sia resa consapevolmente in senso difforme dalla realta’ costituisce un atto contrario ai doveri d’ufficio commesso dal pubblico ufficiale (Sez. 6, n. 2675 del 05/12/1995, dep. 1996, Tauzilli, Rv. 204516; Sez. 6, n. 4062 del 07/01/1999, Pizzicaroli, Rv. 214142; Sez. U, n. 51824 del 25/09/2014, Guidi, in motivazione, § 3), in quanto concorre funzionalmente all’esercizio della funzione giudiziaria (e, se oggetto di un accordo corruttivo, puo’ costituire condotta del reato di corruzione in atti giudiziari previsto dall’articolo 319-ter c.p., cfr. Sez. 6, n. 19803 del 22/01/2009, Noviello, Rv. 244262; Sez. 6, n. 19143 del 29/01/2009, Di Maio, Rv. 243666; cfr. Sez. U, n. 15208 del 25/02/2010, Mills, Rv. 246582).

E’ parimenti principio ampiamente consolidato che il delitto di corruzione in atti giudiziari si consuma anche con la sola accettazione della promessa di denaro o di altra utilita’ da parte del pubblico ufficiale indipendentemente dalla realizzazione del vantaggio perseguito dal corruttore e dalla legittimita’ dell’atto richiesto al pubblico ufficiale purche’ lo stesso risulti, comunque, confluente in un atto giudiziario destinato ad incidere negativamente sulla sfera giuridica di un terzo (tra le tante, Sez. 6, n. 5264 del 26/01/2016, Bindi, Rv. 265842; cfr. Sez. U, n. 15208 del 25/02/2010, Mills, Rv. 246583).

Orbene, venendo al caso in esame, come si evince agevolmente dal capo di imputazione, nella descrizione della condotta antigiuridica difetta l’elemento costitutivo del reato di cui all’articolo 319-ter c.p. della promessa o della dazione di denaro o di altre utilita’, oggetto dell’accordo. Invero, non e’ stato contestato agli imputati che l’accordo prevedesse che l’atto di ufficio fosse oggetto di mercimonio.

Per la medesima ragione non e’ viepiu’ neppure configurabile il reato di intralcio alla giustizia, che presuppone pur sempre l’offerta o la promessa di denaro o di altra utilita’, volta al condizionamento dell’attivita’ del perito.

4. Sulla base delle considerazioni ora espresse, il ricorso va quindi dichiarato inammissibile, per la manifesta infondatezza dei motivi.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso del Pubblico Ministero.

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