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1. Con la sentenza impugnata il Tribunale di Enna, in riforma della sentenza di condanna pronunciata in primo grado, assolveva l’imputato dal reato di minaccia a lui ascritto, perche’ il fatto non sussiste.
2. Avverso la sentenza ricorre la parte civile, per il tramite del difensore, articolando un solo motivo, con il quale deduce violazione di legge e vizio di motivazione. Secondo il ricorrente la motivazione sarebbe apodittica e avulsa dalle risultanze dibattimentali, non si sarebbe tenuto conto del fatto che sia il teste (OMISSIS) sia il teste (OMISSIS) avrebbero, concordemente, confermato le minacce rivolte dall’imputato all’indirizzo della persona offesa, in loro presenza, all’esito di un’udienza civile. Il giudice inoltre avrebbe omesso di motivare sulla inattendibilita’ della persona offesa e dei testi (OMISSIS) e (OMISSIS), avrebbe inoltre errato nell’escludere la valenza minatoria delle frasi profferite dall’imputato, senza tenere conto che, ai fini della configurabilita’ del reato di cui all’articolo 612 cod. pen., e’ sufficiente l’ingiustizia del danno, senza necessita’ che si realizzi l’effettiva intimidazione della vittima.
3. Il ricorso e’ infondato.
4. Il vizio di motivazione non sussiste.
Diversamente da quanto affermato dal ricorrente, il Tribunale valuta le deposizioni dei testi (OMISSIS) e (OMISSIS). Nega efficacia probante alla dichiarazione della prima testimone, che ricordava soltanto un “tono genericamente minaccioso” (pagina 4 della sentenza). Assegna, invece, rilevanza alla seconda.
In sentenza viene riprodotta testualmente la frase che l’imputato avrebbe pronunciato all’indirizzo della persona offesa, nei termini riferiti dal teste (OMISSIS): “la (OMISSIS) chiudera’ e tu finirai a guardare pecore… ti finira’ male, vedrai”.
Al contrario di quanto sostenuto in ricorso, il giudice di merito conferisce particolare attendibilita’ a questo testimone, dato che l’avvocato (OMISSIS) rappresentava la persona offesa nella causa civile, all’esito della quale era scoppiato il diverbio in rassegna.
Ebbene, secondo la valutazione del giudice di merito, tale frase non integra, sotto il profilo oggettivo, il reato di minaccia di cui all’articolo 612 cod. pen., poiche’ la formula impersonale, utilizzata dall’imputato, evoca un male futuro, la cui realizzazione non dipende dalla volonta’ dell’agente.
La sentenza impugnata tiene conto delle prove richiamate in ricorso, ma giunge a esito opposto rispetto a quello propugnato dal ricorrente.
Le conclusioni, cui perviene il giudice di merito, sono sorrette da una motivazione coerente e lineare. Le critiche svolte dal ricorrente non fanno emergere profili di illogicita’, finendo per risolversi in prospettazioni di interpretazioni alternative del materiale probatorio non proponibili in questa sede.
5. Le ulteriori doglianze sono inconferenti rispetto alla ratio decidendi.
La sussistenza del reato e’ stata esclusa non perche’ non sia stato accertato uno stato di intimidazione ne’ perche’ sia stata esclusa la ingiustizia del male, ma perche’ si e’ ritenuto che: “le frasi pronunciate fossero niente piu’ che un auspicio o una previsione dell’imputato che l’attivita’ della persona offesa non sarebbe andata a buon fine” (pagina 5 della sentenza impugnata).
Tale valutazione, non criticata dal ricorrente, e’ corretta alla luce della giurisprudenza della Corte di legittimita’, secondo cui non puo’ parlarsi di minaccia quando il male non sia prospettato come dipendente dalla volonta’ dell’agente (Sez. 5, n. 35763 del 20/09/2006, Rozzini, in motivazione).
6. Il ricorso, pertanto, deve essere rigettato e il ricorrente deve essere condannato al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Motivazione semplificata.
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