Corte di Cassazione, sezione prima penale, sentenza 15 novembre 2017, n. 52259. Il giudice dell’esecuzione non può alterare il giudicato, ritenendo esistente un’attenuante non ravvisata in sede di cognizione, o procedendo alla comparazione tra circostanze opposte

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Il ricorso e’ inammissibile perche’ basato su motivi manifestamente infondati e comunque non correlati con le ragioni della decisione.
1. A fronte della chiara indicazione della disposta revoca in sede esecutiva del beneficio della sospensione condizionale della pena, accordato al (OMISSIS) con la sentenza di patteggiamento, emessa in data 11 novembre 2011, irrevocabile il 22 febbraio 2012, perche’ concesso per la terza volta con superamento dei limiti massimi stabiliti dall’articolo 164 c.p., comma 4, l’impugnazione non oppone alcun argomento per dedurre l’erroneita’ giuridica di tale statuizione, ne’ la fraintesa percezione dei dati di fatto rilevanti.
Si limita, invece, ad invocare la rideterminazione della pena irrogata con la stessa pronuncia per un fatto criminoso, rientrante nella previsione di cui al Decreto del Presidente della Repubblica n. 309 del 1990, articolo 73, comma 5, assumendo che la praticabilita’ di tale operazione sarebbe stata riconosciuta dalla Corte di cassazione nella sentenza sez. 3, n. 11110 del 25/02/2014, Kiogwu, rv. 258353.
1.1 Ebbene, un primo ostacolo all’accoglimento della richiesta si ravvisa nella deduzione di motivi che non si confrontano criticamente con la “ratio decidendi” del provvedimento impugnato poiche’ nessuna obiezione specifica viene mossa alla disposta revoca della sospensione condizionale della pena; ne’ dall’eventuale accoglimento dell’istanza di nuova commisurazione della pena patteggiata potrebbe mai discendere una statuizione contraria a quella adottata dal giudice dell’esecuzione, poiche’ la decisione e’ stata assunta per l’avvenuta fruizione per tre volte dello stesso beneficio, quindi in contrasto con la previsione legale che ne limita la concedibilita’ con due sole sentenze, e non a ragione dell’entita’ del trattamento sanzionatorio inflitto al (OMISSIS) con l’ultima pronuncia ad avergli sospeso l’esecuzione della pena.
1.2 Oltre a tali argomenti, gia’ in se’ decisivi per ritenere inammissibile il ricorso, deve rilevarsi che la difesa non deduce e non dimostra di avere gia’ inoltrato la stessa richiesta al giudice di merito e che questi l’abbia erroneamente ignorata, omettendo la doverosa pronuncia sui temi devolutigli. Infine, la genericita’ e la palese inconsistenza dell’assunto difensivo balza evidente per l’omessa indicazione della natura della sostanza stupefacente oggetto della condotta contestata e ritenuta con la sentenza dell’11 novembre 2011, nonche’ per avere richiamato un precedente di questa Corte, sez. 3, n. 11110 del 25/02/2014, Kiogwu, rv. 258353, che non si adatta alla fattispecie concreta in esame. Invero, con la sentenza in questione il giudice di legittimita’ si era interrogato sulla possibilita’ di applicare ai giudizi pendenti in sede di cognizione la nuova disciplina introdotta dal Decreto Legge n. 146 del 2013, convertito in L. n. 10 del 2014, che ha trasformato il fatto di lieve entita’ di cui al Decreto del Presidente della Repubblica n. 309 del 1990, articolo 73, comma 5, da circostanza attenuante in ipotesi autonoma di reato, con previsione di un regime sanzionatorio complessivamente piu’ favorevole per la riduzione dei limiti edittali massimi della pena detentiva. Ha dunque affermato un principio opposto a quello sostenuto nell’impugnazione, ossia che “l’accordo concluso tra le parti e ratificato dal giudice in epoca precedente alla modifica normativa non implica l’applicazione di una pena illegale qualora quest’ultima sia stata commisurata in misura prossima al minimo edittale, che e’ rimasto normativamente immutato”: ha inteso significare che alcuna incidenza puo’ avere la diversa entita’ della sanzione edittale quando quella applicata sia coincidente o prossima al minimo possibile, lasciato dal legislatore immutato anche con la novella del 2013-2014.
Applicando i medesimi principi al caso di specie la ammessa applicazione con la sentenza di patteggiamento di pena prossima al minimo edittale priva di argomenti la richiesta della sua determinazione, che in ogni caso non sarebbe consentita in sede esecutiva, ostandovi il disposto dell’articolo 2 c.p., comma 3, secondo il quale nel caso di successione nel tempo di leggi penali incriminatrici differenti il principio dell’applicazione della norma piu’ favorevole trova un limite nella formazione del giudicato.
La cosa giudicata si forma sull’intero oggetto del rapporto processuale concernente una singola imputazione, cosicche’ non e’ consentita – salvo l’ipotesi del reato continuato – la scissione della sentenza per punti, al fine di identificare l’irrevocabilita’ di un punto, distinguendo quello concernente la colpevolezza da quello relativo alla concessione di attenuanti. Al giudice dell’esecuzione non e’ quindi consentito alterare il giudicato, ritenendo esistente un’attenuante non ravvisata dal giudice della cognizione, ovvero procedendo alla comparazione tra circostanze di segno opposto; ne’ puo’, successivamente all’irrevocabilita’ della sentenza, qualificare il fatto di reato, gia’ ritenuto attenuato ai sensi del Decreto del Presidente della Repubblica n. 309 del 1990, articolo 73, comma 5, quale autonoma fattispecie e nemmeno rideterminare la pena (Cass. sez. 1, n. 11141 del 15/10/2015, Attanasio, rv. 266340).
All’inammissibilita’ del ricorso segue di diritto la condanna del proponente al pagamento delle spese processuali e, in ragione dei profili di colpa insiti nella presentazione di siffatta impugnazione, anche al versamento di una somma in favore della Cassa delle ammende, che si reputa equo liquidare in Euro 2.000,00.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali ed al versamento della somma di Euro 2.000,00 alla Cassa delle ammende.

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