www.studiodisa.itSuprema Corte di Cassazione

sezione lavoro

sentenza n. 18410 del 01 agosto 2013

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. VIDIRI Guido – Presidente –
Dott. NAPOLETANO Giuseppe – Consigliere –
Dott. D’ANTONIO Enrica – Consigliere –
Dott. TRIA Lucia – rel. Consigliere –
Dott. BALESTRIERI Federico – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso 2807-2009 proposto da:
D.N. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in
ROMA, PIAZZA COLA DI RIENZO 69 (STUDIO AVV. GIORGIO NATOLI), presso
lo studio dell’avvocato ORLANDO GUIDO, rappresentato e difeso
dall’avvocato BENVENGA GIUSEPPE, giusta delega in atti;
– ricorrente –
contro
MINISTERO DEL LAVORO, DELLA SALUTE E DELLE POLITICHE SOCIALI, in
persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso
dall’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO presso i cui Uffici domicilia in
ROMA, ALLA VIA DEI PORTOGHESI, 12;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 25/2008 della CORTE D’APPELLO di MESSINA,
depositata il 06/11/2008 r.g.n. 1731/05;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del
27/03/2013 dal Consigliere Dott. LUCIA TRIA;
udito l’Avvocato GUIDO ORLANDO per delega GIUSEPPE BENVENGA;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.
ROMANO Giulio, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

1.- La sentenza attualmente impugnata (depositata il 6 novembre 2008) respinge l’appello di D.N. avverso la sentenza del Tribunale di Messina n. 2803/05 del 21 settembre 2005, di rigetto della domanda del D. volta ad ottenere il riconoscimento del diritto alla corresponsione, da parte del Ministero della Salute, dell’indennizzo di cui alla L. n. 210 del 1992, in conseguenza della poliomielite contratta in seguito alla vaccinazione antipolio, effettuata con somministrazione del vaccino Salk nel (OMISSIS).

La Corte d’appello di Messina, per quel che qui interessa, precisa che:

a) la sentenza di primo grado deve essere confermata, in quanto la motivazione in essa fornita in ordine alla mancata dimostrazione dell’esistenza del nesso di causalità tra la vaccinazione e la malattia non è contraddittoria ed è del tutto convincente, alla luce degli atti di causa, ben interpretati dal Tribunale;

b) infatti, nel 1956 la vaccinazione antipolio non era obbligatoria e il D. non ha potuto produrre a corredo della domanda di indennizzo la documentazione richiesta dalla legge perchè la AUSL n. (OMISSIS) ha fatto presente che le evidenze di archivio anteriori al 1962 sono state distrutte;

c) d’altra parte, la deposizione del padre del ricorrente, asseverante l’avvenuta vaccinazione, più che inattendibile è da considerare insufficiente al fine in esame, dato lo stretto rapporto parentale e in assenza di riscontri oggettivi, documentali o logici di sorta, non rinvenibili neppure nella disposta consulenza tecnica, che non ha potuto affermare nulla di certo al riguardo.

2 – Il ricorso di D.N. domanda la cassazione della sentenza per due motivi; resiste, con controricorso, il Ministero del Lavoro, della Salute e delle Politiche sociali.

MOTIVI DELLA DECISIONE

1 – Sintesi dei motivi di ricorso.

1.- Con il primo motivo si denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5, omessa o insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, consistente nella sottoposizione del ricorrente a vaccinazione antipolio con somministrazione del vaccino Salk nel (OMISSIS) e alla conseguente contrazione della poliomielite, con esiti di permanente e grave invalidità.

Si contesta la decisione della Corte d’appello di ritenere sforniti di prova i suindicati fatti, effettuata sulla base delle seguenti argomentazioni:

a) nel (OMISSIS) la vaccinazione antipolio non era obbligatoria.

Al riguardo il ricorrente rileva che la non obbligatorietà della vaccinazione, così come l’allusione al fatto che il D. nel (OMISSIS) aveva 7 anni non portano logicamente ad escludere che la vaccinazione sia stata realmente eseguita, tanto più ove si consideri che nella sentenza di primo grado il Tribunale ha riferito che all’epoca veniva utilizzato il vaccino Salk, che in alcuni casi ha determinato l’insorgenza della poliomielite;

b) il D. non ha potuto produrre la documentazione medica attestante la vaccinazione perchè – come precisato dalla AUSL n. (OMISSIS) di Messina – le “evidenze d’archivio anteriori al 1962 sono andate distrutte”.

Sul punto il ricorrente sottolinea che l’impossibilità incolpevole di produrre il documento comprovante la vaccinazione non poteva valere a svantaggio del ricorrente, in base al diritto di difesa riconosciuto dall’art. 24 Cost. e art. 111 Cost., comma 1, e in base agli artt. 6 e 13 della CEDU. Inoltre, tale impossibilità incolpevole avrebbe dovuto imporre ai giudici di indagare sulla responsabilità della PA conseguente alla distruzione delle evidenze di archivio, da considerare affine a quella di non avere impedito l’evento dannoso, ben nota nel diritto penale e in quello civile;

c) la deposizione testimoniale resa dal padre del ricorrente (da cui risulta l’avvenuta vaccinazione) è insufficiente, dato il rapporto di parentela con l’interessato e la mancanza di riscontri oggettivi.

Il D. precisa che, nella specie, il rapporto di parentela del teste con il ricorrente è privo di intrinseco significato rispetto all’esercizio del potere del giudice di valutarne la testimonianza, in base alla giurisprudenza di legittimità, considerato anche il complessivo contesto processuale da cui emerge l’impossibilità incolpevole dell’interessato di provare l’avvenuta vaccinazione in altro modo;

d) la CTU espletata in primo grado non conterrebbe alcun riscontro oggettivo di quanto affermato dal testimone e del nesso causale tra vaccinazione e contrazione della malattia.

Sostiene, al riguardo, il D. che, diversamente da quanto affermato dai Giudici del merito, il CTU ha considerato verosimile che la poliomielite sia stata contratta in seguito alla somministrazione del vaccino Salk. Pertanto, a fronte di tale giudizio di verosimiglianza la Corte d’appello avrebbe dovuto motivare anche sommariamente il proprio dissenso, sulla base della stessa documentazione (la cartella clinica) cui ha fatto riferimento il CTU. In sintesi il ricorrente sostiene che la motivazione sia viziata perchè carente della indicazione di fatti positivi incompatibili con quanto affermato dal teste, tanto più che il mancato esercizio dei poteri officiosi previsti dall’art. 421 cod. proc. civ. non può danneggiare la parte.

2- Con il secondo motivo si denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, violazione e falsa applicazione degli artt. 2 e 24 Cost., art. 111 Cost., comma 1, nonchè degli artt. 6, comma 1, 13 e 17 della CEDU, in relazione sia all’art. 2724 c.c., nn. 2 e 3, sia agli artt. 115, 116, 247 (come riscritto da Corte cost. sent. n. 248 del 1974), 61 e 424 cod. proc. civ..

Si sostiene, in sintesi, che il canone dell’effettività e inviolabilità del diritto di difesa, nella specie, impone al giudice: a) di considerare provata dalla sola testimonianza del padre la vaccinazione antipolio (fatto relativo alla vita di un minore), in quanto l’interessato è impossibilitato senza colpa a produrre la documentazione medica pertinente; b) di accogliere la domanda proposta, visto che la disposta CTU ha considerato verosimile la sussistenza del nesso di causalità tra la vaccinazione e la contrazione della poliomielite.

2 – Esame delle censure.

3.- I due motivi di ricorso – da trattare congiuntamente data la loro intima connessione – sono fondati, nei limiti e per le ragioni di seguito esposti.

3.1.- La Corte messinese è pervenuta al rigetto della domanda sul principale assunto della sostanziale mancanza di prove sul nesso eziologico tra effettuazione della vaccinazione e l’insorgenza della grave malattia da cui è affetto il ricorrente.

Al fine di un corretto esame di tale questione – di carattere centrale per la presente controversia – va, anzitutto, ricordato che nella giurisprudenza successiva alla costituzionalizzazione del principio del giusto processo (avvenuta con legge costituzionale 23 novembre 1999, n. 2), questa Corte ha collegato a tale principio anche la disciplina dell’esercizio dei poteri d’ufficio del giudice di cui agli artt. 421 e 437 cod. proc. civ., cui nella specie la Corte territoriale ha ritenuto di non fare ricorso, senza neppure esplicitare le ragioni di tale scelta e quindi discostandosi dai seguenti orientamenti espressi dalla suddetta giurisprudenza di legittimità, che il Collegio condivide:

a) nel rito del lavoro, ai sensi di quanto disposto dagli artt. 421 e 437 cod. proc. civ., l’esercizio del potere d’ufficio del giudice, pur in presenza di già verificatesi decadenze o preclusioni e pur in assenza di una esplicita richiesta delle parti in causa, non è meramente discrezionale, ma si presenta come un potere-dovere, sicchè il giudice del lavoro non può limitarsi a fare meccanica applicazione della regola formale del giudizio fondata sull’onere della prova, avendo l’obbligo – in ossequio a quanto prescritto dall’art. 134 cod. proc. civ., ed al disposto di cui all’art. 111 Cost., comma 1, sul “giusto processo regolato dalla legge” – di esplicitare le ragioni per le quali reputi di far ricorso all’uso dei poteri istruttori o, nonostante, la specifica richiesta di una delle parti, ritenga, invece, di non farvi ricorso (vedi, per tutte: Cass. SU 17 giugno 2004, n. 11353);

b) nel rito del lavoro, il giudice, ove si verta in situazione di semiplena probatio, ha il potere-dovere di provvedere d’ufficio agli atti istruttori idonei a superare l’incertezza dei fatti costitutivi dei diritti in contestazione, indipendentemente dal verificarsi di preclusioni o di decadenze in danno delle parti, dovendo, quindi, motivare sulla mancata attivazione dei poteri istruttori officiosi là dove sollecitato dalla parte ad integrare la lacuna istruttoria (Cass. 10 dicembre 2008, n. 29006);

c) nel rito del lavoro, il verificarsi di preclusioni o decadenze in danno delle parti non osta all’ammissione d’ufficio delle prove, trattandosi di potere diretto a vincere i dubbi residuati dalle risultanze istruttorie, ritualmente acquisite agli atti del giudizio di primo grado. Ne consegue che, essendo la “prova nuova” disposta d’ufficio funzionale al solo indispensabile approfondimento degli elementi già obiettivamente presenti nel processo, non si pone una questione di preclusione o decadenza processale a carico della parte (Cass. 5 dicembre 2012, n. 18924).

Ora, benchè sia pacifico che l’individuazione dell’esistenza di quella zona grigia tra prova mancata e prova fornita in modo completo, integrante una situazione di cosiddetta semiplena probatio, sia rimessa al prudente e discrezionale apprezzamento del giudice di merito e sia sindacabile in sede di legittimità, solo sotto il profilo dell’adeguatezza e logicità della motivazione che lo sorregge (vedi, per tutte: Cass. 11 giugno 1999, n. 5752), è da rilevare che, nella specie, si verifica proprio tale ultima evenienza.

Infatti, la estremamente ridotta e poco chiara motivazione della sentenza impugnata non rappresenta una adeguata e logica giustificazione in merito alla suddetta conclusione di totale mancanza di prove.

3.2.- Deve essere altresì precisato che una simile conclusione non è neppure conforme alla consolidata giurisprudenza di questa Corte – cui il Collegio intende dare continuità – dalla quale si desume che la necessità di assicurare un’effettiva tutela del diritto di difesa di cui all’art. 24 Cost., nell’ambito del rispetto dei principi del giusto processo di cui all’art. 111 Cost., comma 2, letti in coerenza con l’art. 6 della CEDU – secondo il costante insegnamento della Corte costituzionale (vedi, per tutte: Corte cost. sent. n. 281 del 2010) – determina l’attribuzione di una maggiore rilevanza allo scopo stesso del processo – rappresentato dalla tendenziale finalizzazione ad una decisione di merito (Cass. SU 11 luglio 2011, n. 17144; Cass. 17 maggio 2012, n. 7755) -che non solo impone di discostarsi da interpretazioni suscettibili di ledere il diritto di difesa della parte ovvero comunque risultino ispirate ad un eccessivo formalismo, tale da ostacolare il raggiungimento del suddetto scopo (Cass. 11 febbraio 2009, n. 3362; Cass. 9 aprile 2004, n. 10963), ma porta anche a considerare del tutto residuale l’ipotesi di “assoluta mancanza di prove”, specialmente nel rito del lavoro.

Ciò in considerazione non solo dell’accresciuta rilevanza del principio di acquisizione probatoria, ma specialmente – con riferimento al rito del lavoro – alla rilevanza da attribuire all’esercizio dei poteri d’ufficio del giudice di cui agli artt. 421 e 437 cod. proc. civ., che rappresenta una tipica manifestazione del contemperamento del principio dispositivo con le esigenze della ricerca della verità materiale, che caratterizza il suddetto rito (vedi, in aggiunta ai precedenti già citati: Cass. 24 ottobre 2007, n. 22305).

Ne consegue che, dovendo i principi generali sul riparto dell’onere probatorio (di cui all’art. 2697 cod. civ.) essere, in ogni caso, coordinati anche con tale aumentata rilevanza dell’esercizio dei poteri officiosi in argomento, ciò si traduce in una maggiore pregnanza del dovere del giudice di pronunciare nel merito della causa sulla base del materiale probatorio ritualmente acquisito con una valutazione non limitata all’esame isolato dei singoli elementi, ma globale nel quadro di una indagine unitaria ed organica che può essere oggetto di vaglio, in sede di legittimità, di regola per vizi di motivazione e, ricorrendone gli estremi, anche per scorretta applicazione delle norme riguardanti l’acquisizione della prova (Cass. 26 aprile 2010, n. 9917; Cass. 25 febbraio 2011, n. 4652).

3.3.- In quest’ottica può dirsi, nella specie, che la Corte messinese non si è uniformata a tali principi in quanto – con motivazione insufficiente – non ha attribuito alcuna rilevanza: 1) alla verosimiglianza, riconosciuta nella CTU disposta in primo grado, della derivazione della infermità del ricorrente dalla vaccinazione antipolio; 2) alla circostanza – soltanto menzionata nella motivazione – che il D. si è trovato, senza colpa, nell’impossibilità di produrre a corredo della propria domanda la documentazione prescritta, a causa della distruzione, da parte del Comune di competenza, delle evidenze di archivio antecedenti il 1962 (come riferito dalla AUSL (OMISSIS)); 3) alla precisa e documentata deposizione testimoniale del padre del ricorrente, che “più che inattendibile” ha considerato “insufficiente al fine in esame, dato lo stretto rapporto di parentela”.

3.4.- Con riguardo a tale ultima osservazione va precisato che dalla motivazione riguardante la valutazione della testimonianza del padre del ricorrente si desume come la Corte d’appello si sia discostata, sul punto, non solo dai principi affermati dalla Corte costituzionale – in particolare nella sentenza n. 248 del 1974, ove si è sottolineato che il diritto alla prova costituisce il nucleo essenziale del diritto di azione e di difesa e non può, quindi, subire limitazioni ingiustificate – ma anche dai conseguenti indirizzi espressi dalla giurisprudenza questa Corte, che il Collegio condivide, secondo cui:

a) in materia di prova testimoniale, non sussiste con riguardo alle deposizioni rese dai parenti o dal coniuge di una delle parti alcun principio di necessaria inattendibilità connessa al vincolo di parentela o coniugale, siccome privo di riscontri nell’attuale ordinamento, considerato che, venuto meno il divieto di testimoniare previsto dall’art. 247 cod. proc. civ. per effetto della sentenza della Corte cost. n. 248 del 1974, l’attendibilità del teste legato dai uno dei predetti vincoli non può essere esclusa aprioristicamente, in difetto di ulteriori elementi in base ai quali il giudice del merito reputi inficiarne la credibilità, per la sola circostanza dell’esistenza dei detti vincoli con le parti (Cass. 20 gennaio 2006, n. 1109; Cass. 21 febbraio 2011, n. 4202).

b) in tema di prova testimoniale, l’insussistenza (per effetto della sentenza della Corte costituzionale n. 248 del 1974) del divieto di testimoniare sancito per i parenti dall’art. 247 cod. proc. civ. non consente al giudice di merito una aprioristica valutazione di non credibilità delle deposizioni rese dalle persone indicate da detta norma, ma neppure esclude che l’esistenza di uno dei vincoli in essa indicati possa, in concorso con ogni altro utile elemento, essere considerato dal giudice di merito – la cui valutazione non è censurabile in sede di legittimità ove correttamente ed adeguatamente motivata- ai fini della verifica della maggiore o minore attendibilità delle deposizioni stesse (Cass. 28 luglio 2010, n. 17630).

3.5.- Inoltre, con riferimento all’esame della relazione del CTU effettuato dalla Corte messinese va ricordato che per il “diritto vivente”, pur non essendo la consulenza tecnica d’ufficio un mezzo di prova, essa tuttavia è finalizzata all’acquisizione, da parte del giudice, di un parere tecnico necessario, o quanto meno utile, per la valutazione di elementi probatori già acquisiti o per la soluzione di questioni che comportino specifiche conoscenze (vedi, tra le altre: Cass. 21 aprile 2010, n. 9461; Cass. 2 marzo 2006, n. 4660;

Cass. 15 aprile 2002, n. 5422).

Conseguentemente, il principio secondo cui il provvedimento che dispone la consulenza tecnica rientra nel potere discrezionale del giudice del merito – incensurabile in sede di legittimità – va contemperato con l’altro principio secondo cui il giudice deve sempre motivare adeguatamente la decisione adottata in merito ad una questione tecnica rilevante per la definizione della causa, con la conseguenza che quando il giudice disponga di elementi istruttori e di cognizioni proprie, integrati da presunzioni e da nozioni di comune esperienza, sufficienti a dar conto della decisione adottata, non può essere censurato il mancato esercizio di quel potere, mentre se la soluzione scelta non risulti adeguatamente motivata, è sindacabile in sede di legittimità sotto l’anzidetto profilo (Cass. 27 ottobre 2004, n. 28014).

Pertanto, ove per la decisione di una controversia sia rilevante risolvere questioni di tipo tecnico il giudice del merito – nell’esercizio della discrezionalità che gli compete – può nominare o meno un consulente tecnico di ufficio, ma se decide di non nominarlo deve disporre di elementi istruttori e di cognizioni proprie, integrati da presunzioni e da nozioni di comune esperienza, sufficienti a dar conto della decisione adottata affinchè il mancato esercizio del suddetto potere di nomina sia incensurabile in cassazione, mentre se la soluzione scelta non risulta adeguatamente motivata, essa non si sottrae al vaglio in sede di legittimità, sotto l’anzidetto profilo.

Da tale principio deriva l’ulteriore corollario che, nell’ipotesi in cui il giudice del merito ritenga di dover nominare un CTU, non può, senza motivare adeguatamente la propria scelta, ignorare o sminuire i dati risultanti dalla relazione del CTU in atti senza disporre di elementi istruttori e di cognizioni proprie, eventualmente integrati da presunzioni e da nozioni di comune esperienza, sufficienti a dar conto della decisione adottata. Ciò risponde a ragioni di economia processuale (Cass. 21 aprile 2004, n. 7629) – non disgiunte dal perseguimento della tendenziale riduzione del costo dei giudizi (Cass. 19 gennaio 2007, n. 1237) – oltre che al rispetto del canone della ragionevole durata del processo, per la cui valutazione si tiene conto anche dei tempi necessari per l’espletamento della consulenza tecnica d’ufficio, che non possono quindi risultare sprecati (Cass. 30 ottobre 2003, n. 16315; Cass. 9 gennaio 2004, n. 119; Cass. 5 dicembre 2011, n. 25955).

3.6.- Sulla base dell’anzidetto corretto inquadramento della fattispecie processuale – la Corte d’appello avrebbe potuto acquisire ulteriori elementi al fine di uscire dalla situazione di incertezza, rilevata nella sentenza, proprio utilizzando adeguatamente i suindicati poteri officiosi, pure tenendo conto della situazione di incolpevole impossibilità del ricorrente di fornire la documentazione prescritta dalla L. 25 febbraio 1992, n. 210, che, peraltro – diversamente da quanto si sostiene nel presente ricorso – non necessariamente consente di configurare una responsabilità della PA per violazione dell’obbligo di conservazione dei registri delle vaccinazioni (da far valere, eventualmente, nelle sedi appropriate), visto che nella normativa nazionale applicabile ratione temporis, con riguardo alla dichiarata epoca della vaccinazione (spec. R.D. 2 ottobre 1911, n. 1163 e D.P.R. 30 settembre 1963, n. 1409), non si rinviene, nella normativa statale, una disposizione analoga a quella attualmente contenuta nel “Prontuario di selezione per gli archivi delle Aziende sanitarie locali e delle Aziende ospedaliere”, secondo cui il registri delle vaccinazioni sono da conservare a tempo illimitato.

Mediante tale strumento, infatti, la Corte messinese avrebbe potuto in primo luogo accertare – ad esempio attraverso un supplemento di prova testimoniale ovvero una nuova CTU – se, nella specie, siano praticabili le indagini virologiche e siero epidemiologiche, che, com’è noto, sono praticate dalla scienza medica a partire dal 1998 su iniziativa dell’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) in tutti i Paesi industrializzati, al fine di distinguere nell’ambito dei casi di poliomielite verificatisi, come nella specie, in età compresa fra gli 0 e i 14 anni, quelli da vaccino poliomielitico associati (ceppi vaccinali retromutati e neurovirulenti) da quelli da virus selvaggio.

Inoltre, avrebbe potuto – con gli stessi mezzi – prendere in considerazione il momento dell’insorgenza della malattia nel caso di specie, considerando che la poliomielite, specialmente quando il virus sia stato contratto in modo virulento, si caratterizza per un breve periodo di latenza tra il fattore causale e la comparsa della paralisi.

Solo così si sarebbe potuto pervenire non necessariamente all’accoglimento della domanda del ricorrente – come da questi sostenuto – quanto piuttosto ad effettuare un contemperamento del principio dispositivo con le esigenze della ricerca della verità materiale in modo adeguato alla fattispecie sub judice.

3.7.- Non va, infatti, dimenticato che la ragione per cui il rito del lavoro si caratterizza per il suddetto contemperamento è rappresentata dalla sua finalizzazione a garantire una tutela differenziata ai diritti che in esso vengono azionati, in ragione della loro natura (Cass. SU 20 aprile 2005, n. 8202; Cass. 2 febbraio 2009, n. 2577; Cass. 25 giugno 2007, n. 14696; Cass. 21 dicembre 2006, n. 27286; Cass. 9 novembre 2006, n. 23882).

Da questo punto di vista può dirsi che la Corte territoriale non ha neppure attribuito adeguata considerazione al tipo di diritto posto a base della domanda del ricorrente, quale risulta dall’importante filone della giurisprudenza costituzionale – inaugurato dalla sentenza n. 307 del 1990 e poi proseguito con le sentenze n. 118 del 1996, n. 27 del 1998, n. 226 e n. 423 del 2000, 38 e 476 del 2002, n. 342 del 2006, n. 28 del 2009, n. 293 del 2011, n. 107 del 2012 – relativo alla tutela dei soggetti danneggiati da complicanze di tipo irreversibile a causa di vaccinazioni obbligatorie, trasfusioni e somministrazione di emoderivati.

La prima delle suddette sentenze riguardava proprio i danni da poliomielite derivati da vaccinazione obbligatoria antipolio e per dare seguito a tale pronuncia è stata emanata la L. 25 febbraio 1992, n. 210 – sulla cui base è stata proposta l’attuale domanda – che introdotto nel nostro ordinamento, per la prima volta, una misura indennitaria in favore dei soggetti danneggiati dai suddetti trattamenti. Tale legge è stata, poi, modificata e integrata da leggi successive, tutte dirette ad estendere la platea dei beneficiari, anche in considerazione delle sentenze costituzionali, man mano, emanate (L. n. 238 del 1997; L. 29 ottobre 2005, n. 229, l’art. 2, comma 363; L. 24 dicembre 2007, n. 244; D.L. n. 78 del 2010, art. 11, commi 13 e 14, convertito, con modificazioni, dalla L. n. 122 del 2010).

Peraltro, nell’evoluzione della giurisprudenza costituzionale, il requisito dell’obbligatorietà della vaccinazione è andato, via via, sfumando e ciò si è verificato a partire dalla sentenza n. 27 del 1998, riguardante i soggetti che abbiano riportato lesioni o infermità irreversibili, essendosi sottoposti a vaccinazione antipoliomielitica non obbligatoria dopo l’entrata in vigore della L. 30 luglio 1959, n. 695.

In tale sentenza la Corte costituzionale ha sottolineato che, pur essendo la vaccinazione antipoliomielitica divenuta obbligatoria solo con la L. 4 febbraio 1966, n. 51, tuttavia, poichè anteriormente a tale legge, la L. 30 luglio 1959, n. 695 (Provvedimenti per rendere integrale la vaccinazione antipoliomielitica) dettava norme per incentivare la pratica della vaccinazione, l’estensione del riconoscimento del medesimo diritto costituzionale all’indennizzo in caso di danno alla salute patito in conseguenza della sottoposizione alla vaccinazione antipolio, già riconosciuto per le vaccinazione obbligatoria (sentenze n. 307 del 1990 e n. 118 del 1996) al caso di vaccinazione antipolio, pur non giuridicamente obbligatoria, ma tuttavia programmata e incentivata (con la suddetta legge n. 695 del 1959) “si presenta come un’applicazione naturale e necessaria del principio cui si ispirano le sopra indicate decisioni di questa Corte: il principio che non è lecito, alla stregua degli artt. 2 e 32 Cost., richiedere che il singolo esponga a rischio la propria salute per un interesse collettivo, senza che la collettività stessa sia disposta a condividere, come è possibile, il peso delle eventuali conseguenze negative”.

Tale indirizzo secondo cui la tutela di cui si tratta deve tendenzialmente essere garantita anche in caso di danni irreversibili alla salute derivanti da vaccinazioni non obbligatorie ha trovato ulteriori conferme, nella suindicata giurisprudenza costituzionale, ed è stato ribadito pure in ipotesi in cui l’incentivazione ad effettuare la vaccinazione non obbligatoria non era rinvenibile in atti normativi, ma semplicemente in “diffuse e reiterate campagne di comunicazione a favore della pratica di vaccinazioni”.

E’ stato, infatti, reiteratamente affermato – e da ultimo, ribadito nella sentenza n. 107 del 2012 – che anche la presenza di simili campagne “rende naturale che si sviluppi un generale clima di affidamento nei confronti proprio di quanto raccomandato: ciò che rende la scelta adesiva dei singoli, al di là delle loro particolari e specifiche motivazioni, di per sè obiettivamente votata alla salvaguardia anche dell’interesse collettivo”.

3.8.- Da quanto si è detto si trae conferma del fatto che nella specie ricorrevano senz’altro gli estremi per l’applicazione delle disposizioni sull’esercizio del poteri d’ufficio del giudice (artt. 421 e 437 cod. proc. civ.) che avrebbero potuto consentire alla Corte territoriale di corroborare il materiale probatorio già a propria disposizione e procederne all’utilizzazione anche, eventualmente, facendo ricorso alla prova per presunzioni – ai sensi degli artt. 2727 e 2729 cod. civ. – per la quale, in base al “diritto vivente”, non occorre che tra il fatto noto e quello ignoto sussista un legame di assoluta ed esclusiva necessità causale, ma è sufficiente che il fatto da provare sia desumibile dal fatto noto come conseguenza ragionevolmente possibile, secondo un criterio di normalità.

Infatti, è sufficiente che il rapporto di dipendenza logica tra il fatto noto e quello ignoto sia accertato alla stregua di canoni di probabilità, con riferimento ad una connessione possibile e verosimile di accadimenti, la cui sequenza e ricorrenza possono verificarsi secondo regole di esperienza (vedi, tra le tante: Cass. SU 13 novembre 1996, n. 9961; Cass. 13 ottobre 2011, n. 22656).

3 – Conclusioni.

4.- In sintesi, il ricorso deve essere accolto, per le ragioni dianzi esposte e con assorbimento di ogni altro profilo di censura.

La sentenza impugnata deve essere, quindi, cassata, con rinvio, anche per le spese del presente giudizio di cassazione, alla Corte d’appello di Palermo, che si atterrà, nell’ulteriore esame del merito della controversia, a tutti i principi su affermati e, quindi, anche ai seguenti:

1) “la necessità di assicurare un’effettiva tutela del diritto di difesa di cui all’art. 24 Cost., nell’ambito del rispetto dei principi del giusto processo di cui all’art. 111 Cost., comma 2, letti in coerenza con l’art. 6 della CEDU – secondo il costante insegnamento della Corte costituzionale (vedi, per tutte: Corte cost.

sent. n. 281 del 2010) – determina l’attribuzione di una maggiore rilevanza allo scopo stesso del processo – rappresentato dalla tendenziale finalizzazione ad una decisione di merito (Cass. SU 11 luglio 2011, n. 17144; Cass. 17 maggio 2012, n. 7755) -che non solo impone di discostarsi da interpretazioni suscettibili di ledere il diritto di difesa della parte ovvero comunque risultino ispirate ad un eccessivo formalismo, tale da ostacolare il raggiungimento del suddetto scopo (Cass. 11 febbraio 2009, n. 3362; Cass. 9 aprile 2004, n. 10963), ma porta anche a considerare del tutto residuale l’ipotesi di assoluta mancanza di prove, specialmente nel rito del lavoro”;

2) “nell’ipotesi in cui il giudice del merito ritenga di dover nominare un CTU, non può, senza motivare adeguatamente la propria scelta, ignorare o sminuire i dati risultanti dalla relazione del CTU in atti senza disporre di elementi istruttori e di cognizioni proprie, eventualmente integrati da presunzioni e da nozioni di comune esperienza, sufficienti a dar conto della decisione adottata.

Ciò risponde a ragioni di economia processuale (Cass. 21 aprile 2004, n. 7629) – non disgiunte dal perseguimento della tendenziale riduzione del costo dei giudizi (Cass. 19 gennaio 2007, n. 1237) – oltre che al rispetto del canone della ragionevole durata del processo, per la cui valutazione si tiene conto anche dei tempi necessari per l’espletamento della consulenza tecnica d’ufficio, che non possono quindi risultare sprecati (Cass. 30 ottobre 2003, n. 16315; Cass. 9 gennaio 2004, n. 119; Cass. 5 dicembre 2011, n. 25955)”.

3) “la ragione per cui il rito del lavoro si caratterizza – anche grazie alla previsione dell’esercizio dei poteri d’ufficio del giudice di cui agli artt. 421 e 437 cod. proc. civ., da collegare ai principi del giusto processo di cui all’art. 111 Cost., comma 2, letti in coerenza con l’art. 6 della CEDU – per il contemperamento del principio dispositivo con le esigenze della ricerca della verità materiale (vedi: Cass. SU 17 giugno 2004, n. 11353 e Cass. 24 ottobre 2007, n. 22305) è rappresentata dalla sua finalizzazione a garantire una tutela differenziata ai diritti che in esso vengono azionati, in ragione della loro natura (Cass. SU 20 aprile 2005, n. 8202; Cass. 2 febbraio 2009, n. 2577; Cass. 25 giugno 2007, n. 14696; Cass. 21 dicembre 2006, n. 27286; Cass. 9 novembre 2006, n. 23882). Ne consegue che ove si controverta della tutela dei soggetti danneggiati da complicanze di tipo irreversibile a causa di vaccinazioni obbligatorie, trasfusioni e somministrazione di emoderivati deve essere attribuita adeguata rilevanza – al fine dell’utilizzazione dei suddetti poteri officiosi – al tipo di diritto posto a base della domanda del ricorrente, quale risulta dall’importante filone della giurisprudenza costituzionale, inaugurato dalla sentenza n. 307 del 1990 e poi proseguito con le sentenze n. 118 del 1996, n. 27 del 1998, n. 226 e n. 423 del 2000, 38 e 476 del 2002, n. 342 del 2006, n. 28 del 2009, n. 293 del 2011, n. 107 del 2012”.

P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese del presente giudizio di cassazione, alla Corte d’appello di Palermo.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Lavoro, il 27 marzo 2013.

Depositato in Cancelleria il 1 agosto 2013

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