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Suprema Corte di Cassazione 

sezione lavoro

sentenza n. 16095 del 26 giugno 2013

 

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con sentenza del 17 Febbraio 2010 la Corte d’appello di Napoli, in riforma della sentenza del Tribunale di Napoli del 6 ottobre 2008, ha annullato il licenziamento intimato dall’Istituto di vigilanza privata “N. L.” s.r.l. a D. S. in data 27 aprile 2006 ed ha condannato detta società a reintegrare il lavoratore nel posto di lavoro, ed al risarcimento del danno commisurato alle retribuzioni di fatto in misura pari alle mensilità di retribuzione di fatto maturate e non riscosse dal recesso alla reintegra. La Corte territoriale ha motivato tale pronuncia giudicando sproporzionata la sanzione disciplinare espulsiva motivata con l’abbandono del posto di lavoro, essendo risultato provato che il D. ha lasciato il servizio mezz’ora prima del termine del suo turno di servizio solo dopo essersi accertato dell’arrivo del suo collega del turno successivo. L’Istituto di Vigilanza Privata “N. L.” s.r.l. propone ricorso per cassazione avverso tale sentenza affidato ad un unico motivo.

Resiste con controricorso il D.

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con l’unico motivo si lamenta violazione delle regole di ermeneutica contrattuale e conseguente violazione ovvero falsa applicazione dell’art. 140 CCNL vigilanza privata, istituti, consorzi e cooperative del 2 maggio 2006, in relazione all’art. 360, n. 3 cod. proc. civ.; vizio di motivazione su un punto decisivo della controversia in relazione all’art. 360, n. 5 cod. proc. civ. In particolare si deduce che l’art. 140 CCNL prevede espressamente l’abbandono del posto di lavoro quale giusta causa di licenziamento per cui la corte territoriale avrebbe interpretato tale norma in modo errato non d considerando la legittimità del licenziamento in presenza di un acclarato abbandono del posto di lavoro, a nulla rilevando la mancanza di un danno procurato.

Il ricorso è infondato.

In base a consolidati e condivisi orientamenti di questa Corte, in caso di licenziamento per giusta causa, ai fini della proporzionalità fra fatto addebitato e recesso, viene in considerazione ogni comportamento che, per la sua gravità, sia suscettibile di scuotere la fiducia del datore di lavoro e di far ritenere che la continuazione del rapporto si risolva in un pregiudizio per gli scopi aziendali; spetta al giudice di merito valutare la congruità della sanzione espulsiva non sulla base di una valutazione astratta del fatto addebitato, ma tenendo conto di ogni aspetto concreto della vicenda processuale che, alla luce di un apprezzamento unitario e sistematico, risulti sintomatico della sua gravità rispetto ad un’utile prosecuzione del rapporto di lavoro (per tutte Cass. 26 luglio 2010, n. 17514).

In materia di licenziamento per ragioni disciplinari, anche se la disciplina collettiva preveda un determinato comportamento come giusta causa o giustificato motivo soggettivo di recesso, il giudice investito dell’impugnativa della legittimità del licenziamento deve comunque verificare l’effettiva gravità della condotta addebitata al lavoratore (Cass. 18 gennaio 2007, n. 1095).

Infatti la valutazione in ordine alla legittimità del licenziamento, motivato dalla ricorrenza di una delle ipotesi previste dalla contrattazione collettiva, non può conseguire automaticamente dal mero riscontro della corrispondenza del comportamento del lavoratore alla fattispecie tipizzata contrattualmente, ma occorre sempre che quest’ultima sia riconducibile alla nozione legale di giusta causa, tenendo conto della gravità del comportamento in concreto del lavoratore, anche sotto il profilo soggettivo della colpa o del dolo (Cass. 4 marzo 2004 n. 4435). Inoltre, in tema di licenziamento per giusta causa o per giustificato motivo soggettivo, il giudizio di proporzionalità o adeguatezza della sanzione all’illecito commesso, rimesso al giudice di merito, si sostanzia nella valutazione della gravità dell’inadempimento imputato al lavoratore in relazione al concreto rapporto, e l’inadempimento deve essere valutato in senso accentuativo rispetto alla regola generale della “non scarsa importanza” di cui all’art. 1455 cod. civ., sicché l’irrogazione della massima sanzione disciplinare risulta giustificata solamente in presenza di un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali ovvero addirittura tale da non consentire la prosecuzione neppure provvisoria del rapporto (per tutte Cass. 22 marzo 2010, n. 6848). Nella specie la Corte territoriale ha esattamente definito come illecito il comportamento di abbandono del posto di vigilanza, addebitato al lavoratore.

Altrettanto esattamente essa non lo ha però ritenuto degno della sanzione espulsiva, considerando che all’allontanamento mezz’ora prima della fine del turno era corrisposto l’arrivo di un collega mezz’ora prima dell’inizio del turno successivo, sì che il luogo non era rimasto privo di personale di vigilanza. Pertanto è corretta e logica la valutazione operata dal giudice dell’appello secondo cui la brevità dell’assenza e la conseguente limitatezza del danno procurato non è proporzionato alla massima sanzione espulsiva, anche considerando l’elemento soggettivo del comportamento del dipendente convinto e sicuro della presenza imminente del proprio collega. Tale valutazione, si ripete, è condivisibile e in armonia con i sopra ricordati principi affermati da questa Corte.

La sussistenza dell’illecito disciplinare previsto dalla contrattazione collettiva rende comunque complessa la decisione della controversia di modo che appare equa la compensazione fra le parti delle spese del presente giudizio di legittimità.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso; Compenso fra le parti le spese di giudizio.

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