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Suprema Corte di Cassazione

sezione lavoro

sentenza n. 11717 del 15 maggio 2013

Svolgimento del processo

Con sentenza del 16.12.2008, la Corte di Appello di Lecce accoglieva il gravame proposto dalla società Poste Italiane avverso la sentenza di primo grado che aveva riconosciuto il diritto di M.T. all’inquadramento nell’Area Quadri di 2 livello a decorrere dall’1.1.1999, condannando la società al pagamento delle conseguenti differenze economiche, ed, in riforma della pronunzia, rigettava la domanda della predetta. Osservava che l’appello verteva sullo svolgimento effettivo delle mansioni superiori per un periodo superiore a sei mesi e che lo stesso avesse rilevanza ai fini considerati solo se protrattosi per un periodo quale quello indicato su posto vacante, non essendo necessario il requisito della continuità dell’assegnazione per il periodo successivo alla procedura concorsuale; rilevava che, nell’obiettiva incertezza dei dati forniti dalle parti, era stata espletata c.t.u. attraverso la quale era rimasto accertato che la M. aveva espletato mansioni superiori, nel periodo compreso tra il 4.11.1997 ed il 30.1.1999, a seguito di specifica assegnazione del datore di lavoro per almeno 177 giorni complessivi, di cui 142 su posto vacante e 35 per sostituzione di lavoratore assente con diritto alla conservazione del posto. Era anche emerso che, per ulteriori 63 giorni, pur essendo attendibile l’affermazione della lavoratrice di avere svolto mansioni superiori non retribuite o senza specifico comando, non vi era certezza che si trattasse di prestazioni rese per copertura di posti vacanti, ovvero per sostituzione di lavoratori assenti, sicchè, alla luce delle sole risultanze certe, doveva pervenirsi, in riforma della sentenza di primo grado, al rigetto della domanda.

Per la cassazione di tale decisione ricorre la M., con quattro motivi, illustrati con memoria depositata ai sensi dell’art. 378 c.p.c..
Resiste la Società, con controricorso.

Motivi della decisione

Va, preliminarmente, dichiarata l’inammmissibilità del controricorso, attesa la sua tardività, essendo la relativa notifica avvenuta oltre il termine di venti giorni dalla scadenza del termine per il deposito del ricorso.
Con il primo motivo, la ricorrente denunzia violazione e falsa applicazione dell’art. 2103 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, osservando che la Corte territoriale aveva rilevato che, per il periodo 29.9.98 – 30.11.98, non vi fosse certezza che le mansioni superiori fossero state svolte su assegnazione del datore di lavoro, ma che la circostanza era irrilevante, atteso il rilevo solo fattuale dell’effettività delle funzioni, indipendentemente dalla manifestazione di volontà datoriale.
Con il secondo motivo, lamenta violazione e falsa applicazione degli artt. 2103 e 2697 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, richiamando pronunzia di questa Corte n. 15406 del 1.7.2009, in ordine all’onere del datore di provare il fatto impeditivo degli effetti di cui all’art. 2103 c.c. (ossia svolgimento di mansioni superiori in sostituzione di lavoratore assente con diritto di conservazione del posto), per il principio di disponibilità e prossimità della prova.
Con il terzo motivo, la M. ascrive alla sentenza violazione e falsa applicazione degli art. 416 c.p.c., n. 3 e art. 2697 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, osservando che non era stata dal giudice del gravame valorizzata la mancata contestazione, da parte delle Poste, della circostanza dello svolgimento di mansioni superiori per periodo di tempo superiore a sei mesi.
Infine, con il quarto motivo, si duole della violazione e falsa applicazione dell’art. 24 Cost., artt. 2697 e 1375 c.c., evidenziando che la società aveva proceduto alla distruzione dei fogli di presenza e che ciò doveva riverberarsi in termini negativi sulla posizione della società, che ne aveva la disponibilità. Invoca nuovamente il principio di riferibilità e vicinanza della prova e deduce la violazione di principio di buona fede di cui all’art. 1375 c.c. nell’esecuzione del contratto.
Il ricorso è infondato.
Quanto al primo motivo deve osservarsi che la Corte del merito aveva attribuito rilevanza anche e soprattutto alla mancanza di prova in ordine allo svolgimento di mansioni superiori su posto vacante per il periodo controverso (periodo dal 29.9.1998 al 30.11.1998), onde, essendo la decisione al riguardo fondata su una doppia ratio decidendi ed avendo la ricorrente impugnato anche la seconda di esse col secondo motivo, la relativa trattazione può compiersi congiuntamente. Premesso che lo svolgimento di compiti propri di una qualifica superiore a quella rivestita, avvenuto contro la volontà del datore di lavoro, non attribuisce il diritto alla cosiddetta promozione automatica ai sensi dell’art. 2103 (nuovo testo) cod. civ., non essendo a tal fine invocabile la norma dell’art. 2126 dello stesso codice, la quale, senza equiparare il contratto di lavoro invalido a quello valido, disciplina gli effetti del rapporto di lavoro invalido per il solo tempo in cui esso ha avuto corso (Cass. 619/89), occorre considerare, quanto all’ulteriore questione, che involge il profilo probatorio, quanto segue. Questa Corte ha affermato, con orientamento costante, che “il lavoratore che deduce il diritto alla promozione automatica ai sensi dell’art. 2103 cod. civ. ha l’onere di provare che il lavoratore sostituito era assente senza diritto alla conservazione del posto, configurandosi tale circostanza come fatto costitutivo del diritto alla promozione predetta”, (v. Cass. 10 novembre 1989 n. 4740, Cass. 10 aprile 1999 n. 3529, Cass. 6 aprile 2000 n. 4312).

Per andare in contrario avviso non può invece affermarsi il principio che nella materia in esame, riguardante la promozione automatica ex art. 2103 c.c., gravi sul datore di lavoro la prova che il lavoratore sostituito abbia diritto alla conservazione del suo posto di lavoro, nè può giustificarsi tale assunto con il riferimento al criterio – da ricondurre al disposto dell’art. 24 Cost. – della “disponibilità” e della “prossimità” della circostanza da provare in capo al datore di lavoro, e ciò al fine di non rendere impossibile o troppo difficile l’esercizio dell’azione in giudizio con conseguente indebolimento della tutela del diritto (cfr. al riguardo, in tali sensi, Cass. 1 luglio 2009 n. 15406).
Ed infatti con una simile tesi si finisce per pervenire non ad una interpretazione “adeguatrice” – come pure è stato talvolta sostenuto in dottrina – della norma di rito sulla ripartizione dell’onere della prova ma ad una opzione disapplicativa dell’art. 2697 c.c., che è derogabile soltanto con disposizioni da considerarsi speciali (cfr. al riguardo L. 15 luglio 1966, n. 604, art. 5), e ciò al fine di evitare che il sorgere di un soggettivismo interpretativo possa avere ricadute negative su una norma di rito, volta a costituire un referente certo ed affidabile per ciascuna delle parti processuali nell’esercizio del diritto di difesa.
Corollario di quanto sinora detto è che la norma dell’art. 2103 c.c. – che disciplina nella sua astratta fattispecie anche il riconoscimento del diritto alla definitiva assegnazione a mansioni superiori – induce ad affermare, nella ripartizione dell’onere della prova, che chi invoca tale diritto debba allegare e provare, nel caso concreto, che lo svolgimento delle mansioni sia avvenuto su posizioni lavorative prive di titolare, salva sempre a carico del datore di lavoro la prova contraria che l’assegnazione era funzionale, invece, alla sostituzione di un lavoratore assente con diritto alla conservazione del posto di lavoro.
Per concludere sul punto, correttamente, quindi, la Corte territoriale ha ritenuto infondata la domanda della M. stante la incertezza in ordine alla circostanza che l’assegnazione della stessa – per gli ulteriori giorni utili a realizzare il periodo di assegnazione richiesto – fosse avvenuta per la copertura di posti vacanti e non piuttosto per la sostituzione di lavoratori assenti con diritto alla conservazione del posto. Ed ulteriore incertezza è rimasta anche con riferimento alla riferibilità della destinazione della lavoratrice a diverse mansioni a disposizione datoriale.
Peraltro, nella specie, con finalità di integrazione di una base probatoria incompleta, era stato conferito a CTU l’incarico di acquisire dati documentali presso la sede della società, ma l’indagine si era rivelata in parte infruttuosa. A ciò deve aggiungersi la considerazione che, in ogni caso, la consulenza tecnica d’ufficio non è mezzo istruttorio in senso proprio, avendo la finalità di coadiuvare il giudice nella valutazione di elementi acquisiti o nella soluzione di questioni che necessitino di specifiche conoscenze e che, proprio in ragione di ciò, il suddetto mezzo di indagine non può essere utilizzato al fine di esonerare la parte dal fornire la prova di quanto assume (cfr. Cass. 19 gennaio 2006 n. 1020; Cass. 14 febbraio 2006 n. 3191, Cass. 19 gennaio 2011 n. 1149 e Cass., ord. sez 6, 8 febbraio 2011 n. 3130). Da ciò discende che non può la parte con essa mirare a supplire alla deficienza delle proprie allegazioni o offerte di prova, ovvero pretendere che sia demandata all’ausiliare una indagine esplorativa, alla ricerca di elementi, fatti o circostanze, non provati nell’ipotesi all’esame neanche a mezzo di prova orale.
Quanto alla censura avanzata nel terzo motivo di ricorso, deve osservarsi che la M. non riporta la circostanza dedotta al fine di valutare se la stessa rendesse possibile, per la sua formulazione, idonea contestazione da parte di Poste e peraltro lo specifico punto non risulta essere stato oggetto di specifica doglianza dinanzi al giudice del gravame, non essendo emerso che sia stata devoluta a quest’ultimo anche la questione della violazione del principio di non contestazione. Peraltro, la ricorrente avrebbe dovuto riportare i termini precisi della deduzione, atteso che, rispetto ad una deduzione carente di specificità, la società bene avrebbe potuto eccepire l’impossibilità di contestazione, con conseguente applicazione delle regole generali in materia di riparto dell’onere probatorio.
Nella specie la carenza di indicazioni al riguardo si traduce nell’impossibilità di valutazione della censura, non potendo, a fronte dell’asserita mancata applicazione del principio da parte del giudice del gravame, ritenersi che quanto eventualmente e ritualmente dedotto dalla M. in ordine ai requisiti fattuali posti alla base della richiesta fosse riferito a dati circostanziali precisi, idonei come tali a consentire alla società di procedere a valida contestazione (cfr. Cass. 3.7.2008, n. 18202).
Il quarto motivo attiene nuovamente alla questione della rilevanza del principio della riferibilità e vicinanza della prova, riguardando le conseguenze della distruzione dei fogli di presenza in possesso della società, e quindi le considerazioni in merito a tale censura rifluiscono in quelle, già esposte, relative alla ripartizione dell’onere probatorio.
Le esposte considerazioni conducono al rigetto del ricorso.
Nulla va statuito sulle spese di lite del presente giudizio, essendo la Società tardivamente costituita.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Nulla per spese.
Così deciso in Roma, il 20 febbraio 2013.

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