La massima

Nella nozione di giustificato motivo oggettivo di licenziamento deve ricondursi anche l’ipotesi del riassetto organizzativo dell’azienda attuato al fine di una più economica gestione di essa, deciso dall’imprenditore non semplicemente per un incremento del profitto, ma per far fronte a sfavorevoli situazioni, non meramente contingenti, influenti in modo decisivo sulla normale attività produttiva, tanto da imporre un’effettiva necessità di riduzione dei costi. Motivo questo rimesso alla valutazione del datore di lavoro, senza che il giudice possa sindacare la scelta dei criteri di gestione dell’impresa, atteso che tale scelta è espressione della libertà di iniziativa economica tutelata dall’art. 41 Cost.

Suprema Corte di Cassazione 

sezione lavoro

sentenza n. 11465 del 9 luglio 2012

 

Svolgimento del processo

Con ricorso depositato in data 19 dicembre 2008, D.F.M. C., premesso di essere stata assunta alle dipendenze della s.r.l. Aglialoro il 1 gennaio 2005 con la qualifica di quadro di cui al contratto collettivo per gli studi professionali, deduceva di avere ricevuto in data 15 giugno 2008 una lettera di licenziamento per giustificato motivo oggettivo riconducibile alla contrazione delle attività economiche della società che rendeva necessaria una riduzione dei costi di gestione. Chiedeva, quindi, la declaratoria dell’intimato licenziamento con riferimento alla tutela ed obbligatoria nonchè la condanna della società al pagamento delle differenze retributive per indennità di funzioni, straordinario, mensilità aggiuntive per l’anno 2008 e tfr.
Dopo l’instaurazione del contraddicono e dopo che la ricorrente aveva dichiarato di rinunciare a tutte le differenze retributive, il giudice del lavoro del Tribunale di Palermo, ritenuto sussistente il dedotto giustificato motivo, rigettava la domanda di impugnativa del licenziamento.
A seguito del gravame della D.F., ricostituitosi il contraddittorio la Corte d’appello di Palermo con sentenza del 25 maggio 2010 confermava l’impugnata sentenza. Nel pervenire a tale conclusione il giudice d’appello osservava che dalla documentazione in atti era emerso che la società di piccole dimensioni aveva attraversato un periodo di difficoltà economica per cui si era deciso, in una ottica di razionalizzazione delle spese, di sopprimere l’unico posto di lavoro, quello di biologa, con una professionista esterna, realizzando in tal modo una economia di gestione.

Dichiarava, inoltre, la Corte territoriale infondato il motivo di gravame con il quale era stata denunziata la carenza di motivazione in ordine alla richiesta di soccombenza virtuale e conseguente condanna alle spese, in quanto avendo la ricorrente rinunziato nel corso del giudizio alle richiesta di differenze retributive, la eventuale configurabilità dei presupposti per una declaratoria di cessazione della materia del contendere comportava l’applicabilità del principio della soccombenza virtuale su un capo della domanda, che non escludeva il potere del giudice di compensare integralmente le spese del giudizio in ragione di una reciproca soccombenza.
Avverso tale sentenza d.F.M.C. propone ricorso per cassazione, affidato a numerosi motivi.
Resiste con controricorso la s.r.l. Agliadoro.
Ai sensi dell’art. 276 c.p.c., u.c., procede alla stesura della motivazione il Presidente dott. Guido Vidiri in luogo del dott. Giuseppe Bronzini.

Motivi della decisione

La D.F. sub n. 1) del suo ricorso (pagg. 7-11) lamenta in sintesi che il giudice d’appello, nell’ interpretare i limiti del giustificato motivo oggettivo del licenziamento, ha male valutato le risultanze istruttorie e non ha tenuto conto che nel caso di specie non era avvenuta alcuna soppressione del settore lavorativo, del reparto o del posto cui essa ricorrente era adibita.
Denunzia invece sub n. 2) (pagg. 11-13) la violazione della L. 15 luglio 1966, n. 604, art. 3 sul presupposto che la s.r.l. Agliadoro non ha fornito prova alcuna della sussistenza delle ragioni integranti gli estremi del motivo oggettivo del licenziamento e della impossibilità del repechage, tramite l’impiego del dipendente licenziato nell’ ambito della organizzazione aziendale.
Ricalca sub n. 3) del ricorso (pagg. 13-24) in qualche misura il contenuto delle precedenti censure e deduce, ancora, un difetto di motivazione, addebitando alla sentenza impugnata di non avere considerato che l’attività produttiva dell’azienda era rimasta invariata sia dal punto di vista tecnico sia dal punto di vista organizzativo, fondandosi così erroneamente sulla “presunta perdita del profitto e quindi di redditività dell’impresa”, senza però nulla dire “circa le ragioni che hanno portato la società al passivo del bilancio di esercizio per l’anno 2007”.
Rimarca infine la D.F. sub n. 5) del ricorso (pagg. 24-29) un vizio di motivazione in ordine al mancato assolvimento dell’onere della prova circa l’impossibilità della impresa di salvare il posti di lavoro di essa ricorrente ed, a tale riguardo, critica l’assunto della impugnata sentenza secondo cui non sussisteva alcun diritto ad essere preferita nella instaurazione del diverso rapporto di natura autonoma, che si era iniziato invece con una professionista esterna, la dottoressa C.F..

I numerosi motivi di ricorso, da esaminarsi congiuntamente per la loro stretta connessione logico-giuridica, vanno rigettati perchè privi di fondamento.
In una fattispecie aventi profili in qualche misura assimilabili a quella in esame per avere i giudici di legittimità riconosciuto il potere imprenditoriale di razionalizzare l’attività aziendale, e reputato legittimo il licenziamento intimato ad una biologa addetta al laboratorio di analisi, le cui attività si erano poi concentrate con l’aggiunta di altre mansioni in quelle di altro dipendente – questa Corte di cassazione ha statuito che il licenziamento per giustificato motivo oggettivo determinato da ragioni inerenti all’attività produttiva è scelta riservata all’imprenditore, quale responsabile della corretta gestione dell’azienda anche dal punto di vista economico ed organizzativo, sicchè essa, quando sia effettiva e non simulata o pretestuosa, non è sindacabile dal giudice quanto ai profili della sua congruità ed opportunità (cfr al riguardo: Cass. 22 agosto 2007 n. 17887). E nella stessa ottica si è più volte ribadito nella giurisprudenza di legittimità che nella nozione di giustificato motivo oggettivo di licenziamento deve ricondursi anche l’ipotesi del riassetto organizzativo dell’azienda attuato al fine di una più economica gestione di essa, deciso dall’imprenditore non semplicemente per un incremento del profitto, ma per far fronte a sfavorevoli situazioni, non meramente contingenti, influenti in modo decisivo sulla normale attività produttiva, tanto da imporre un’effettiva necessità di riduzione dei costi. Motivo questo rimesso alla valutazione del datore di lavoro, senza che il giudice possa sindacare la scelta dei criteri di gestione dell’impresa, atteso che tale scelta è espressione della libertà di iniziativa economica tutelata dall’art. 41 Cost., mentre al giudice spetta il controllo della reale sussistenza del motivo addotto dall’imprenditore, con la conseguenza che non è sindacabile nei suoi profili di congruità ed opportunità la scelta imprenditoriale che abbia comportato la soppressione del settore lavorativo o del reparto o del posto cui era addetto il lavoratore licenziato, sempre che risulti l’effettività e la non pretestuosità del riassetto organizzativo operato (cfr. in tali sensi: Cass. 2 ottobre 2006 n. 21282, che ha ribadito come non sia sindacabile la scelta imprenditoriale che abbia comportato la soppressione del settore lavorativo o del reparto o del posto cui era addetto il lavoratore licenziato; cui adde, in tempi più recenti, ex plurimis: Cass. 25 marzo 2011 n. 7006, ed infine, Cass. 26 agosto 2011 n. 19616, che precisa come la suddetta soppressione non possa essere meramente strumentale ad un incremento di profitto, ma debba essere diretta a fronteggiare situazioni sfavorevoli non contingenti; e debba essere collegata ad effettive ragioni di carattere produttivo- organizzativo).

Orbene, nel caso in esame è rimasto accertato che la società, di piccole dimensioni, aveva attraversato una contrazione economica essendosi il bilancio del 2007 chiuso con una perdita pari ad Euro 22.959,00. Situazione questa aggravatasi poi per la intervenuta riduzione del budget riconosciuto dall’Azienda Sanitaria di Palermo n. 6 per le prestazioni sanitarie in regime di convenzione.
Preso atto di tali risultati negativi, l’assemblea della società aveva deciso di adottare provvedimenti di riduzione delle spese, sopprimendo tra l’altro l’unico posto di lavoro occupato dalla D. F., ed assegnando, come si è ricordato, le mansioni professionali di direzione sanitaria e quelle di analisi di laboratorio ad una biologa, professionista esterna, le cui prestazioni venivano retribuite dietro presentazione di fatture, realizzandosi in tal modo una economia gestionale pari a 30 mila Euro annuali.
Alla stregua di quanto sinora detto – e considerato ancora che il giudice d’appello ha accertato che la D.F. per essere l’unica biologa della società non poteva essere adibita a diverse mansioni e ritenuto ancora che non era configurabile alcun suo diritto di preferenza nella instaurazione di un diverso rapporto di lavoro di natura autonoma – non può che concludersi che la decisione del giudice d’appello, per avere fatto corretta applicazione dei principi giurisprudenziali sopra enunciati e per essere supportata da una motivazione congrua e priva di salti logici, si sottrae ad ogni censura in questa sede di legittimità.
Con l’ultimo motivo di ricorso la D.F. deduce, infine, che nel compensare le spese in primo grado il giudice d’appello non ha tenuto conto del principio della soccombenza virtuale, che avrebbe dovuto condurre ad una condanna al pagamento da parte della società delle suddette spese o quanto meno ad una loro compensazione soltanto parziale.
Anche tale motivo non può trovare ingresso in questa sede di legittimità dal momento che la D.F. è rimasta soccombente (anche in sede di gravame) con riferimento alla impugnativa di licenziamento per cui ne consegue che ben poteva disporsi, stante il disposto dell’art. 92 c.p.c., comma 2, la totale compensazione delle spese di primo grado, ricorrendo una soccombenza reciproca.
Per concludere, il ricorso va integralmente rigettato e la impugnata sentenza confermata.
Le spese del presente giudizio di legittimità seguono la soccombenza e vengono liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità, che si liquidano in Euro 40,00 per esborsi, oltre Euro 2.500,00 (duemilacinquecento) per onorari difensivi, oltre IVA, CPA e spese generali.

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