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Suprema Corte di Cassazione

sezione lavoro

sentenza del 4 dicembre 2012, n. 21712

Svolgimento del processo

B.L. e M.L. adivano il Tribunale di Napoli in funzione di giudice del lavoro, esponendo di avere lavorato alle dipendenze della D. P. s.p.a. e della T. S. s.p.a. quali addetti al magazzino) e di essere stati illegittimamente licenziati con missiva del 12.3.2004 nella quale si faceva riferimento ad una eccedenza di personale determinata dal “calo di fatturato della società nell’anno 2003, calo protrattosi nei primi del 2004?, alla conseguente necessità di procedere alla soppressione delle posizioni lavorative di addetti al magazzino nonché alla impossibilità di ricollocazione dei lavoratori nel contesto aziendale. Chiedevano, quindi, la declaratoria dell’illegittimità dei licenziamenti con condanna delle società, accertato il collegamento tra le stesse, alla reintegra nel posto di lavoro ed al pagamento di tutte le spettanze, anche risarcitorie, dovute.
L’adito giudice, con sentenza del 5.12.2007, accogliendo parzialmente i ricorsi, dichiarata la carenza di legittimazione passiva della T. S. s.p.a., affermava l’inefficacia dei licenziamenti intimati dalla D. P. s.p.a. ordinando la reintegrazione del B. e del M. nel posto di lavoro con condanna della società al risarcimento del danno, liquidato come in sentenza, oltre accessori e regolarizzazione contributiva.
Sull’appello proposto dalla D. P. s.p.a. e dalla T. S.s.p.a. la Corte di Appello di Napoli, con sentenza depositata in data 21 novembre 2009, confermava l’impugnata decisione.
In particolare, la Corte territoriale ritenne: che per entrambi i licenziamenti non ricorreva il giustificato motivo oggettivo, non essendo stata fornita la prova che il richiamato calo di fatturato tra il 2003 ed i primi mesi del 2004 fosse effettivo e non contingente né che a tale operazione contabile fosse corrisposto un calo dell’attività demandate ai magazzinieri; che la D. P. s.p.a. neppure aveva provato la impossibilità di adibire utilmente i lavoratori ad altre mansioni; che, infine, il rifiuto da parte dei lavoratori di accettare l’offerta di un lavoro a Fondi o a Roma non aveva rilievo ai fini dell’”aliunde perceptum”, non potendo comportare una riduzione del danno da liquidare in applicazione dell’art. 1227 c.c.
Per la cassazione di detta sentenza hanno proposto ricorso la D. P. s.p.a. e la T. S. s.p.a. affidato a due motivi.
Il B. ed il M. resistono con controricorso. Le ricorrenti hanno depositato memoria ex art. 378 c.p.c..

Motivi della decisione

Con il primo motivo di ricorso si deduce la insufficiente e contraddittoria motivazione su un fatto decisivo ai fini della risoluzione della controversia (art. 360 co. 1 n. 5 c.p.c.).
Si assume che l’impugnata sentenza non tenne conto: che i licenziamenti intimati per la medesima causale erano stati quattro e non solo i due oggetto del presente giudizio, fatto questo che avrebbe dovuto indurre a ritenere l’effettività e non la pretestuosità delle ragioni del recesso; che la cessione di fatturato ad altra società non solo era incensurabile nel merito, ma confermava che riduzione di fatturato vi era stata; che, essendo stati i licenziamenti intimati nel marzo 2004, la riduzione di fatturato non poteva non risalire anche all’anno 2003; che la contrazione del lavoro di magazzino era una conseguenza della riduzione del fatturato, essendo la D.P. una azienda di servizi in quanto operante nella vendita di prodotti elettrici. Con la conseguenza che la Corte di merito aveva valutato in modo insufficiente e contraddittorio il fatto costituito dalla riduzione di fatturato nel 2003.
Viene evidenziato, inoltre, che la motivazione era errata anche laddove, con riferimento alla assunzione di altro dipendente pochi giorni prima del licenziamento del B. e del M. , aveva affermato che la D. P. s.p.a. non aveva provato che le mansioni del nuovo assunto fossero diverse da quelle dei due dipendenti licenziati, incombendo siffatta prova su coloro che avevano allegato la circostanza. E, comunque, l’assunzione di un solo lavoratore non poteva valere a contraddire il licenziamento di quattro dipendenti.
Con il secondo motivo si denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 1227 c.c. e dell’art. 18 della legge n. 300 del 1970 in relazione agli artt. 360 n. 3 e 5 c.p.c.
Premesso che al B. ed al M. era stata offerta l’opportunità di essere assunti presso le filiali di Roma o di Fondi della D. P. s.p.a. e che i predetti avevano rifiutato tale offerta, si deduce che la Corte di appello aveva trascurato di considerare che i posti offerti erano a distanza non rilevante dal luogo di residenza dei lavoratori (Napoli) finendo con il ritenere giustificato il rifiuto in quanto la diversa allocazione non avrebbe consentito ai predetti di mantenere il medesimo tenore di vita. Si deduce, quindi, che la inamovibilità del dipendente non è un valore assoluto e che le ragioni familiari ostative all’accettazione delle offerte di lavoro dovevano essere provate dai lavoratori e che, comunque, doveva farsi luogo ad una riduzione del danno.
Il primo motivo è inammissibile in quanto propone una diversa valutazione delle risultanze istruttorie e non evidenzia alcuna contraddizione o insufficienza di motivazione che, invece, appare completa ed esaustiva ed immune da contraddizioni.
Va, in primo luogo, precisato che la Corte di merito, nel considerare non giustificati i licenziamenti in esame, non ha travalicato affatto i limiti del proprio sindacato in quanto, non ha valutato la congruità della scelta imprenditoriale di sopprimere i posti di lavoro, ma ha accertato, nei limiti del sindacato che gli è proprio, la non effettività delle ragioni addotte a motivo della dedotta soppressione del posto di lavoro (in applicazione del principio costantemente affermato da questa Corte, cfr: Cass. n. 7474 del 14.5.2012; Cass. n. 15157 del 11/07/2011; Cass. n. 3040 del 08/02/2011, da ultimo). Infatti ha posto a base del proprio “decisum” il rilievo che il calo del fatturato della società nell’anno 2003 e nei primi mesi del 2004 – unito alla impossibilità di una diversa utilizzazione dei lavoratori nel contesto aziendale – non era effettivo.
Ciò detto, nella impugnata sentenza, contrariamente a quanto sostenuto nel motivo, risultano essere stati valutati tutti quegli elementi di fatto che si assumono essere stati pretermessi.
Quanto al calo di fatturato, vengono ampiamente esplicate le ragioni per le quali lo stesso non poteva ritenersi provato dalla D.P. s.p.a. In particolare, si evidenzia che detto calo si era attestato nella percentuale del 7.74% rispetto al precedente esercizio 2002 e che, anzi, se si considerava la cessione di fatturato operata nell’anno 2003 in favore di altra società collegata, era del tutto inesistente. Inoltre, si precisa che nella relazione al bilancio 2003 della D. P. s.p.a. non era stata evidenziata alcuna eccedenza di personale e che era del tutto mancata la prova della persistenza di un “trend” negativo della gestione nei primi mesi dell’anno 2004 sottolineando, anzi, che dall’esame dei dati contabili era individuabile una tendenza espansiva del bilancio per l’esercizio 2004 tanto che quest’ultimo si era chiuso con un incremento del 22% di cui solo il 2% proveniente da società incorporata. Viene, altresì, evidenziato che la società, nel periodo in questione, aveva fatto ricorso anche al lavoro straordinario. In merito alla assunzione del dipendente C. pochi giorni prima dei licenziamenti “de quibus”, la Corte di appello ha rilevato che l’adibizione del C. alle medesime mansioni del B. e del M. era emersa dalla prova testimoniale espletata e dalla annotazione sui libro-paga in cui le mansioni del predetto erano indicate in quelle di “magazziniere”.
Destituito di fondamento è anche il secondo motivo.
Vale precisare che la Corte di appello ha ritenuto infondata la censura con la quale si lamentava che il primo giudice non avesse tenuto conto, sotto il profilo dell’”aliunde perceptum”, dell’offerta di lavoro rifiutata dai dipendenti successivamente al licenziamento. Ed infatti, con riferimento all’obbligo di cooperazione del creditore, ex art. 1227 co. 2 c.c., per evitare l’aggravarsi del danno in motivazione, viene rilevato che nell’ambito dell’ordinaria diligenza di cui al secondo comma dell’art. 1227 c.c. possono esser comprese solo quelle attività che non siano gravose o eccezionali o tali da comportare notevoli rischi e sacrifici per il creditore (in linea con quanto affermato da questa Corte, cfr. Cass. 15231 del 5.7.2007 e Cass. n. 2855 dell’11.2.2005, richiamate in sentenza cui adde, più di recente Cass. n. 20684 del 25.9.2009). In applicazione di tale principio viene, poi, osservato che il primo giudice aveva rilevato che, nel caso in esame, i due dipendenti licenziati avevano fatto presente alla società di non poter accettare l’offerta e per motivi economici – stante l’onerosità delle spese conseguenti al trasferimento della sede di lavoro – e per motivi familiari e che tali argomentazioni non solo non erano state oggetto di alcuna censura nell’appello ma erano anche condivisibili.
Orbene, tale motivazione oltre che rispettosa del disposto dell’art. 1227 c.c. è anche congrua e logica. Sul punto, inoltre, va ricordato che, secondo la giurisprudenza costante di questa Corte, l’accertamento dei presupposti per l’applicabilità’ della disciplina di cui all’art. 1227 c.c., comma 2, integra un’indagine di fatto, come tale riservata al giudice di merito e sottratta al sindacato di legittimità, se sorretta da congrua motivazione (Cass. n. 20684 del 25.9.2009. N. Cass. 05/07/2007, n. 15231; Cass. 09/02/2004, n. 2422).
Per quanto sin qui esposto il ricorso va, dunque, rigettato. Le ricorrenti, per il principio della soccombenza vanno condannate alle spese del presente giudizio di legittimità liquidate come da dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso; condanna le società ricorrenti alle spese del presente giudizio liquidate in Euro 40,00 per esporsi ed Euro 3.500,00 per compenso oltre accessori, come per legge.

Depositata in Cancelleria il 04.12.2012

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