Suprema Corte di Cassazione
sezione lavoro
sentenza 7 ottobre 2014, n. 21093
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. STILE Paolo – Presidente
Dott. DE RENZIS Alessandro – Consigliere
Dott. BALESTRIERI Federico – rel. Consigliere
Dott. DORONZO Adriana – Consigliere
Dott. PATTI Adriano Piergiovanni – Consigliere
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 17267/2011 proposto da:
(OMISSIS) C.F. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in (OMISSIS), presso lo studio dell’avvocato (OMISSIS), che lo rappresenta e difende giusta delega in atti;
– ricorrente –
contro
(OMISSIS) S.P.A. C.F. (OMISSIS), in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in (OMISSIS), presso lo studio dell’avvocato (OMISSIS), rappresentata e difesa dall’avvocato (OMISSIS), giusta delega in atti;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 7605/2010 della CORTE D’APPELLO di NAPOLI, depositata il 24/12/2010 r.g.n. 2703/2009;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 08/07/2014 dal Consigliere Dott. FEDERICO BALESTRIERI;
udito l’Avvocato (OMISSIS);
udito l’Avvocato (OMISSIS) per delega (OMISSIS);
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CELENTANO Carmelo, che ha concluso per il rigetto del ricorso.
Precisava, dunque, che le prove raccolte non erano sufficienti a suffragare gli assunti datoriali e che non riguardavano tutti gli elementi indispensabili per configurare una giusta causa di recesso.
Concludeva, pertanto, per la riforma della gravata sentenza con integrale accoglimento delle domande formulate nel ricorso introduttivo e con condanna della datrice di lavoro alla refusione delle spese.
Ricostituito il contraddittorio, la societa’ sottolineava come la istruttoria testimoniale e documentale espletata consentisse di ritenere pienamente provate le circostanze di fatto poste a base del recesso.
Precisava, altresi’, che la fattispecie in questione era stata reiteratamente esaminata dal Giudice di legittimita’ che aveva ritenuto la illegittimita’ della condotta a prescindere dalla compatibilita’ tra l’attivita’ svolta e la malattia denunziata.
Concludeva pertanto per il rigetto dell’appello con ogni conseguenza di legge.
Con sentenza depositata il 24 dicembre 2010, la Corte d’appello di Napoli rigettava il gravame compensando le spese. Per la cassazione propone ricorso il (OMISSIS), affidato a tre motivi, poi illustrati con memoria. Resiste la societa’ (OMISSIS) con controricorso.
Lamenta che la sentenza di primo grado ammise la testimonianza di soggetto (Spinelli) non indicato come testimone dalla societa’, in contrasto con i principi processuali di cui alla rubrica.
Il motivo e’ evidentemente inammissibile in quanto censura dinanzi al giudice di legittimita’ l’attivita’ processuale svolta dal giudice di primo grado, in contrasto col principio che la nullita’ degli atti si risolve in mezzo di impugnazione da devolvere al giudice d’appello, circostanza di cui l’attuale ricorrente non fornisce alcun elemento.
2.- Con il secondo motivo il ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione degli articoli 2110, 2118 e 2119 c.c. (articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 3).
Lamenta che non poteva considerarsi contraria ai doveri inerenti il rapporto di lavoro la prestazione gratuita in favore di familiari pur in costanza di malattia, nella specie una depressione psichica ben compatibile con tale attivita’ estranea al rapporto di lavoro ed anzi funzionale alla guarigione; che nella specie egli era stato visto dal personale incaricato svolgere piccoli lavori (quali la riparazione di un piccolo elettrodomestico, nella specie un ventilatore).
Evidenzia che lo svolgimento di altra attivita’ lavorativa da parte del lavoratore assente per malattia, documentata con certificato medico, costituisce motivo di licenziamento disciplinare solo ove il dipendente abbia agito simulando la malattia; si sia comportato in modo da compromettere o ritardare la propria guarigione; abbia svolto un’attivita’ oggettivamente incompatibile con lo stato di malattia, oppure l’abbia espletata in contrasto col divieto di concorrenza.
3.- Con il terzo motivo il ricorrente lamenta che la sentenza impugnata ritenne erroneamente che la prova testimoniale aveva consentito di ritenere provati gli assunti datoriali e smentita la ricostruzione del (OMISSIS) che, peraltro, neppure aveva chiesto che fossero disposti accertamenti tecnico sanitari per valutare i suo stato di salute e la compatibilita’ delle attivita’ svolte con la malattia denunciata, dimenticando che l’onere della prova, in tali casi, gravava sul datore di lavoro e non certo sul lavoratore.
4.- I motivi, che stante la loro connessione possono essere congiuntamente esaminati, sono in parte inammissibili e per il resto infondati.
Inammissibili nella misura in cui richiedono a questa Corte una nuova valutazione dei fatti e delle risultanze probatorie.
Infondati posto che la Corte partenopea ha accertato, sulla base delle relazioni del personale di vigilanza incaricato e delle testimonianze escusse in primo grado, che il lavoratore si era piu’ volte assentato per malattia, ed in particolare, a seguito del suo trasferimento a (OMISSIS), avvenuto il 12.1.07, si era assentato per malattia (certificata non solo come depressione maggiore, ma anche come cervicobrachialgia da ernia discale) sin dal 1.2.07 e sino al momento della contestazione disciplinare del 4.7.07, con sistematica presenza presso il negozio di casalinghi del fratello, tale da pregiudicare una pronta guarigione, anche per lo svolgimento di attivita’ non saltuarie ne’ prive di incidenza funzionale (quali la sistemazione della merce negli scaffali, la vigilanza sulla merce esposta, l’assistenza ai clienti dell’esercizio commerciale).
Ha inoltre correttamente osservato che l’attivita’ lavorativa in questione, oltre che ad essere in contrasto con la denunciata patologia osteoarticolare (anche con riferimento alla riparazione di elettrodomestici), risultava in contrasto anche con la dedotta depressione, in quanto l’attivita’ di sorveglianza “anti-taccheggio” comportava la necessita’ di una costante focalizzazione dell’attenzione e di contatti anche antagonistici con persone non conosciute e che gravava sul datore di lavoro la prova, nella specie ampiamente assolta, circa lo svolgimento di altra attivita’ lavorativa da parte del dipendente ammalato, gravava invece su quest’ultimo la prova che tale diversa attivita’ lavorativa fosse compatibile col suo stato di malattia e comunque coerente con gli obblighi pacificamente gravanti sul lavoratore ammalato, nella specie per nulla fornita.
Trattasi di accertamenti di fatto, congruamente e logicamente motivati dalla Corte d’appello, non specificamente contestati dall’attuale ricorrente.
5.- Il ricorso deve dunque respingersi.
Le spese di lite seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.
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