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SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Sentenza 4 febbraio 2013, n. 2512

 

Svolgimento del processo

Con sentenza del 6/4/06 il giudice del lavoro del Tribunale di Tempio Pausania, accogliendo la domanda di P.A.D. , infortunatosi sul lavoro, accertò la responsabilità della Virginio s.r.l., quale datrice di lavoro, e la condannò al risarcimento del danno biologico e morale, mentre rigettò la domanda di quest’ultima nei confronti della compagnia assicuratrice Reale Mutua, ritenendo che per i suddetti danni non vi era copertura assicurativa.

A seguito di impugnazione principale della Virginio s.r.l e di impugnazione incidentale del lavoratore, la Corte d’appello di Cagliari, con sentenza del 23/5 – 4/6/07, ha rigettato il gravame proposto dalla datrice di lavoro ed ha, invece, accolto quello del P. , dichiarando che la responsabilità dell’infortunio era da ascrivere anche al preposto B.P. , condannandolo in solido con la società al risarcimento del danno, come determinato dal primo giudice, incrementato degli interessi legali, con decorrenza dalla sentenza di primo grado al saldo.

Ha spiegato la Corte che l’accertata violazione delle doverose cautele antinfortunistiche era da addebitare anche alla condotta del preposto B. , il quale non aveva verificato i macchinari, aveva costretto i dipendenti a lavorare in condizioni estremamente precarie dal punto di vista della sicurezza e non si era preoccupato di verificare che venissero adottati i dispositivi di sicurezza; inoltre, la Corte ha ritenuto infondata l’eccezione di prescrizione dell’azione nei confronti del B. , sia perché sollevata da un terzo, vale a dire la società assicuratrice, sia perché il corso della stessa era stato interrotto con la richiesta risarcitoria nei cinque anni dall’infortunio; infine, i giudici d’appello hanno condiviso la decisione del primo giudice di rigettare la domanda proposta per il danno differenziale nei confronti della società assicuratrice, in quanto la copertura assicurativa concerneva solo i danni rilevanti ai fini degli artt. 10 e 11 del TU. n. 1124/65 e non anche il danno biologico, contemplato dal d.lgs n. 38/2000, entrato in vigore in epoca successiva alla sottoscrizione della polizza assicurativa che, sotto tale aspetto, era rimasta invariata nel tempo.

Per la cassazione della sentenza propone ricorso la società Virginio S.r.l., che affida l’impugnazione a quattro motivi di censura.

Resiste con controricorso P.A.D.

Entrambe le parti depositano memoria.

Motivi della decisione

1. Col primo motivo la ricorrente, nel sostenere che la polizza assicurativa oggetto di causa le garantiva anche la copertura del danno biologico e morale eventualmente causato ai propri dipendenti, denunzia la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2697 c.c. con riferimento al rigetto della domanda di manleva avanzata nei confronti della Reale Mutua Assicurazioni s.p.a. e formula, al riguardo, il seguente quesito: “Una polizza assicurativa stipulata dal datore di lavoro a copertura della propria eventuale e residuale responsabilità civile per gli infortuni sul lavoro (ex art. 10 d.p.r. n. 1124/1965) comprende anche i danni biologico e morale senza che sia necessaria una clausola espressa di estensione della garanzia per tali danni. Essi, infatti, rientrano nella nozione di danno in quanto tale e, cioè, di tutte le conseguenze lesive dell’infortunio sulla persona del lavoratore che costituiscono, appunto, oggetto dell’assicurazione”.
Il motivo è infondato.

Invero, si è già avuto modo di affermare (Cass. Sez. Lav. n. 16376 del 18/7/2006) che “l’interpretazione delle clausole di un contratto di assicurazione in ordine alla portata ed all’estensione del rischio assicurato rientra tra i compiti del giudice di merito ed è insindacabile in sede di legittimità se rispettosa dei canoni legali di ermeneutica contrattuale ed assistita da congrua motivazione. (Nella specie per il periodo sottratto “ratione temporis” al disposto dell’art. 13 del d.lgs. n. 38 del 2000 (che ha ricondotto il danno biologico nella copertura assicurativa obbligatoria), la corte di merito aveva ritenuto che l’ambito della copertura assicurativa in caso di infortunio sul lavoro riguardasse unicamente il danno patrimoniale collegato alla riduzione dell’attività lavorativa, e non anche il danno biologico e il danno morale)”.

Si è, altresì, statuito (Cass. Sez. Lav. n. 7593 del 15/5/2003) che “nella interpretazione della clausola di un contratto di assicurazione, con il quale l’assicuratore si obbliga a tenere indenne il datore di lavoro per quanto questi sia tenuto a pagare a norma degli art. 10 e 11 d.P.R. 30 giugno 1965 n. 1124, il giudice del merito deve individuare la volontà delle parti, secondo i criteri di cui agli art. 1362 e seguenti cod. civ., tenendo presente il contenuto normativo delle disposizioni legali, cui le parti hanno rinviato, al momento della stipula del contratto di assicurazione e, in particolare, ai fini della inclusione nella manleva anche del danno biologico e del danno morale, del fatto che l’art. 10 del citato d.P.R., nel regime anteriore al D.Lgs. 23 febbraio 2000 n. 38, afferma la responsabilità civile del datore di lavoro per tali componenti del danno sottraendola alla copertura dell’assicurazione antinfortunistica obbligatoria”.

Nel caso in esame rimane, pertanto, insuperata la deduzione della Corte di merito, la quale, con interpretazione ermeneutica corretta e con argomentazione logica, ha ben spiegato che, trattandosi di polizza stipulata precedentemente all’epoca del riconoscimento normativo (d.lgs n. 38/2000) del danno biologico, il riferimento in essa a quanto l’impresa assicuratrice era tenuta a pagare ai sensi degli artt. 10 ed 11 del T.U. n. 1124/65 non poteva avere altro significato che quello limitato al tipo di prestazioni allora erogabili, vale a dire quelle riferibili al danno patrimoniale.

2. Col secondo motivo, nel sostenere che l’obbligo datoriale di far osservare le norme per la prevenzione degli infortuni non comporta una continua vigilanza nell’esecuzione di ogni attività, né il dovere di affiancamento di un preposto, la ricorrente denunzia la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2697 c.c. con riferimento al’art. 2087 c.c.. A conclusione del motivo la medesima formula il seguente quesito di diritto: “In tema di responsabilità del datore di lavoro per l’infortunio sul lavoro subito da un suo dipendente, l’obbligo del datore stesso di vigilare affinché siano impediti atti o manovre rischiose del dipendente nello svolgimento del suo lavoro e di controllare l’osservanza da parte dello stesso delle norme di sicurezza e dei mezzi di protezione non comporta una continua vigilanza nell’esecuzione di ogni attività, né il dovere di affiancare un preposto ad ogni lavoratore impegnato in mansioni richiedenti la prestazione di una sola persona o di organizzare il lavoro in modo da moltiplicare verticalmente i controlli fra i dipendenti, richiedendosi solo una diligenza rapportata in concreto al lavoro da svolgere e cioè all’ubicazione del medesimo, all’esperienza e specializzazione del lavoratore, alla sua autonomia, alla prevedibilità della sua condotta, alla normalità della tecnica della produzione”.

3. Col terzo motivo, nel sostenere la necessità anche di una valutazione del concorso colposo del lavoratore nella verificazione degli infortuni sul lavoro alla luce delle novità legislative introdotte dal d.lgs. n. 626/94, là ricorrènte deduce la violazione e falsa applicazione dell’art. 1227 c.c., proponendo il seguente quesito di diritto: “In caso di infortunio sul lavoro la valutazione della condotta posta in essere da parte del lavoratore, ai fini del riconoscimento del concorso di colpa, deve essere fatta anche alla luce delle novità legislative introdotte con il D.lgs. 19.9.1994 n. 626, che pongono, anche a carico del lavoratore, particolari obblighi attivi in materia di sicurezza sugli ambienti di lavoro e che fanno mutare il ruolo del lavoratore stesso che da soggetto passivo della sicurezza transita al ruolo attivo. Di tale fatto occorre tener conto, con il possibile riconoscimento di un concorso di colpa prevalente da parte del lavoratore nella determinazione dell’infortunio”.

Atteso che le questioni poste col secondo e col terzo motivo di censura comportano la disamina di problematiche giuridiche connesse è opportuna una loro trattazione unitaria.

Entrambi i motivi sono infondati.

Si è, infatti, affermato (Cass. Sez. Lav. n. 1994 del 13/2/2012) che “il datore di lavoro, in caso di violazione delle norme poste a tutela dell’integrità fisica del lavoratore, è interamente responsabile dell’infortunio che ne sia conseguito e non può invocare il concorso di colpa del danneggiato, avendo egli il dovere di proteggere l’incolumità di quest’ultimo nonostante la sua imprudenza o negligenza; pertanto, la condotta imprudente del lavoratore attuativa di uno specifico ordine di servizio, integrando una modalità dell’iter produttivo del danno imposta dal regime di subordinazione, va addebitata al datore di lavoro, il quale, con l’ordine di eseguire un’incombenza lavorativa pericolosa, determina l’unico efficiente fattore causale dell’evento dannoso”.

Si è, altresì, statuito (Cass. sez. lav. n. 4656 del 25/2/2011) che “le norme dettate in tema di prevenzione degli infortuni sul lavoro sono dirette a tutelare il lavoratore non solo dagli incidenti derivanti dalla sua disattenzione, ma anche da quelli ascrivibili ad imperizia, negligenza ed imprudenza dello stesso, con la conseguenza che il datore di lavoro è sempre responsabile dell’infortunio occorso al lavoratore, sia quando ometta di adottare le idonee misure protettive, sia quando non accerti e vigili che di queste misure venga fatto effettivamente uso da parte del dipendente, non potendo attribuirsi alcun effetto esimente, per l’imprenditore, all’eventuale concorso di colpa del lavoratore, la cui condotta può comportare l’esonero totale del medesimo imprenditore da ogni responsabilità solo quando presenti i caratteri dell’abnormità, inopinabilità ed esorbitanza rispetto al procedimento lavorativo ed alle direttive ricevute, così da porsi come causa esclusiva dell’evento, essendo necessaria, a tal fine, una rigorosa dimostrazione dell’indipendenza del comportamento del lavoratore dalla sfera di organizzazione e dalle finalità del lavoro, e, con essa, dell’estraneità del rischio affrontato a quello connesso alle modalità ed esigenze del lavoro da svolgere”.
Orbene, nella fattispecie l’indagine compiuta dalla Corte di merito in maniera esente da vizi di natura logico-giuridica ha consentito di accertare, al contrario di quanto sostenuto dalla ricorrente, non solo la responsabilità di quest’ultima in ordine al grave infortunio occorso al lavoratore, per effetto del quale il medesimo subì la perdita di un occhio, ma anche un concorso di colpa del preposto B. , per cui se ne deduce che correttamente i giudici d’appello sono giunti alla conclusione che nessun elemento di colpa era ravvisabile nel comportamento del lavoratore in merito alla produzione dell’evento lesivo verificatosi in suo danno, dal momento che questi non aveva fatto altro che ubbidire a precise direttive datoriali tramite gli ordini del preposto B.

4. Con l’ultimo motivo è denunziata la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2059 c.c. con riferimento alla sussistenza e risarcibilità del danno morale. In particolare, la ricorrente si duole sia della conferma della condanna risarcitoria, nonostante la eccepita mancanza di prova in merito alla ritenuta sussistenza del danno morale, sia del disposto cumulo degli accessori di legge, asserendo che il credito da danno biologico e morale non costituisce un credito da lavoro per il quale possa applicarsi l’art. 429 c.p.c.

A conclusione del motivo sono posti i seguenti quesiti di diritto: “Pur essendo il danno morale suscettibile di risarcimento anche a prescindere dall’accertamento di un reato deve essere, comunque, fornita una prova precisa e puntuale in ordine alla sussistenza e all’entità del danno lamentato”. “Il credito del lavoratore nei confronti del proprio datore di lavoro, volto al risarcimento del danno biologico e morale derivatogli in occasione di un infortunio sul lavoro, non ha natura giuridica di credito di lavoro, trovando nel rapporto di lavoro soltanto l’occasione di contatto sociale che ha determinato la sua insorgenza, ma ha natura di credito risarcitorio; ne consegue che, avendo la sentenza di liquidazione del credito operato la trasformazione di esso, ex art. 2043 c.c., da credito di valore in credito di valuta, dalla data della sentenza e fino al pagamento il danno da ritardo è disciplinato non dall’art. 429, 3 comma c.p.c., ma dall’art. 1224 c.c., che esclude il cumulo tra interessi e rivalutazione”.

Il motivo è infondato.

Anzitutto, il danno morale, rappresentato dalle inevitabili conseguenze pregiudizievoli scaturite della perdita di un occhio, è stato correttamente ricondotto dalla Corte territoriale alla verificata sussistenza della colpa della datrice di lavoro nella determinazione del sinistro che comportò una tale grave menomazione fisica al proprio dipendente, per cui la medesima non poteva essere esentata dal ristoro effettivo di tutti i danni provocatigli a causa delle sue accertate colpevoli omissioni nel rispetto delle norme antinfortunistiche.

Quanto al secondo rilievo, concernente la dedotta questione del divieto di cumulo degli accessori, si osserva che questa Corte ha già chiarito (Cass. Sez. Lav. n. 14507 dell’1/7/2011) che “la domanda proposta dal lavoratore contro il datore di lavoro volta a conseguire il risarcimento del danno sofferto per la mancata adozione, da parte dello stesso datore, delle misure previste dall’art. 2087 cod. civ., non ha natura previdenziale perché non si fonda sul rapporto assicurativo configurato dalla normativa in materia, ma si ricollega direttamente al rapporto di lavoro, dando luogo ad una controversia di lavoro disciplinata quanto agli accessori del credito dal secondo comma dell’art. 429 cod. proc. civ.. Ne consegue che non opera il divieto di cumulo di interessi e rivalutazione stabilito per i crediti previdenziali dall’ari 16, sesto comma, della legge n. 412 del 1991”. (conforme a Cass. Sez. Lav. n. 3213 del 18/2/2004).

Pertanto, il ricorso va rigettato.

Le spese del presente giudizio seguono la soccombenza della ricorrente e vanno poste a suo carico nella misura liquidata come da dispositivo.

Non va, invece, adottata alcuna statuizione nei confronti della società Reale Mutua Assicurazioni rimasta solo intimata.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese nei confronti di P.A.D. nella misura di Euro 4000,00 per compensi professionali e di Euro 40,00 per esborsi, oltre IVA e CPA ai sensi di legge. Nulla per le spese nei confronti della Reale Mutua Assicurazioni.

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