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SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Sentenza 4 febbraio 2013, n. 2510

 

Svolgimento del processo

Con ricorso al Tribunale, giudice del lavoro, di Roma, M.A. , premesso di essere stato dipendente della Cremonini S.p.A. dall’1/1/1999 e fino al licenziamento in tronco del 2/8/2005, addetto dal maggio 2001, come capo squadra, al box bar n. (omissis) , esponeva di essere stato destinatario di due differenti lettere di contestazione cui avevano fatto seguito, rispettivamente, la sanzione di un’ora di multa, inflittagli in data 24/2/2004, ed il provvedimento espulsivo, intimatogli in data 29/7/2005. Entrambe le determinazioni datoriali facevano riferimento ad episodi di vendite senza l’emanazione dello scontrino fiscale il cui corrispettivo non risultava incassato dalla società. Sul presupposto della insussistenza degli addebiti, il M. impugnava, dunque, sia la sanzione conservativa sia il provvedimento di licenziamento e chiedeva le conseguenti tutele nonché il risarcimento del danno. Il Tribunale, nel contraddittorio con la società datoriale, riteneva legittima l’adottata sanzione della multa ed invece illegittimo il licenziamento. Quanto a quest’ultimo, considerava, in particolare, la misura adottata sproporzionata rispetto alla contestazione (da intendersi limitata alla sola mancata emissione degli scontrini fiscali e non anche estesa alla dolosa appropriazione delle somme versate) ed alle condizioni di espletamento del lavoro assegnato al M. . Disponeva, quindi, la reintegra del dipendente nel posto di lavoro con condanna della Cremonini S.p.A. al risarcimento corrispondente alla perdita delle retribuzioni dal licenziamento alla effettiva reintegrazione. Avverso tale pronuncia la società proponeva appello contestando la valutazione della contestazione (i fatti oggetto della quale avevano, come conseguenza inevitabile, l’ammanco di cassa e l’appropriazione) e la ritenuta prova delle condizioni illustrate dal M. come scriminanti della sua condotta. Il lavoratore proponeva appello incidentale chiedendo che fosse dichiarata l’illegittimità anche della sanzione della multa. La Corte di appello di Roma riteneva infondato l’appello principale ed invece fondato quello incidentale. A base della decisione sull’appello incidentale poneva la regolamentazione dell’onere della prova nel senso che, a fronte dell’addebito di determinati comportamenti, riteneva che il lavoratore potesse limitarsi a negarne la verità, di talché, posta anche la logica inammissibilità di fatti negativi, doveva essere il datore di lavoro a dover fornire la prova delle condotte addebitate. In punto di fatto riteneva che la Cremonini S.p.A. non avesse fornito tale prova con riguardo ai fatti di cui all’applicazione della sanzione conservativa. Quanto al licenziamento, riteneva che. anche a voler considerare che la lettera di contestazione contenesse “suggestioni” ulteriori rispetto alla mera mancata emissione del documento fiscale, tuttavia l’addebito di appropriazione non era stato, nella specie, provato. Per il resto, confermava il giudizio di sproporzione già espresso dal Tribunale.

 Per la cassazione di tale sentenza la Cremonini S.p.A. propone ricorso affidato a due motivi.

 Resiste con controricorso l’intimato A..M. .

 Entrambe le parti hanno depositato memorie ai sensi dell’art. 378 cod. proc. civ..

Motivi della decisione

1. Con primo motivo di ricorso censura il ricorrente la sentenza impugnata per: “Violazione e falsa applicazione degli artt. 2697 cod. civ. e 115 cod. proc. civ., in riferimento all’art. 360, n. 3, cod. proc. civ., nonché omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione in ordine ad un punto decisivo della controversia, prospettato dalle parti o rilevabile d’ufficio, in riferimento all’art. 360, n. 5, cod. proc. civ.”. Deduce che la sentenza appare viziata nella parte in cui ha ritenuto pacifiche le circostanze di fatto dedotte dal ricorrente (particolari condizioni in cui il prestatore di lavoro doveva svolgere la propria attività lavorativa) malgrado su tali circostanze non fosse stato acquisito alcun elemento probatorio e malgrado le puntuali contestazioni di parte convenuta. Rileva, al riguardo, una carenza di motivazione, stante il mancato ingresso delle prove dedotte dalle parti e, quindi, in ordine a tutti i punti decisivi della controversia, soprattutto con riferimento ai fatti dedotti dal ricorrente sulle sue particolari condizioni di lavoro ed alle corrispondenti controprove della parte convenuta. Deduce, inoltre, che la sentenza appare viziata nella parte in cui ha ritenuto incontestata, nella fattispecie, l’asserita “cecità” delle casse alle quali il prestatore era addetto, argomentando, con motivazione carente, illogica e contraddittoria, che quest’ultimo non aveva conoscenza dell’ammontare complessivo dell’incasso e che, quindi, eventuali ammanchi non potevano essere ascritti al medesimo con carattere di sicurezza. Rileva che il principio di non contestazione è soggetto a numerosi temperamenti, di guisa che la mancata o generica contestazione, in ogni caso, non è di per sé idonea a sollevare la parte dall’onere a suo carico e che, nello specifico, non poteva sostenersi che la difesa della convenuta fosse incompatibile con la negazione dei fatti che il ricorrente aveva allegato e sui quali doveva ritenersi onerato dell’onere della prova ex art. 2697 cod. civ.. Rileva, inoltre, che non corrisponde al vero che l’asserita “cecità” delle casse fosse incontestata e la società non avesse fornito elementi in ordine alle modalità di consegna dell’incasso e di riscontro tra scontrini emessi e contanti consegnati evidenziando che, anche in questo caso, le affermazioni della convenuta erano incompatibili con l’asserita “cecità” ovvero con la circostanza che l’operatore alla cassa non conoscesse l’ammontare complessivo dell’incasso effettuato. Rileva, infine, un vizio di motivazione nella parte della sentenza in cui si afferma l’illegittimità del licenziamento per mancanza di prova sull’elemento fattuale dell’appropriazione, con argomentazioni apodittiche e basate su elementi di fatto non precisati nei loro esatti contorni, erroneamente ritenuti incontestati, anche per omessa lettura delle deduzioni della parte convenuta.

 2. Con secondo motivo di ricorso censura il ricorrente la sentenza impugnata per: “Violazione e falsa applicazione degli artt. 2104, 2106 e 2119 cod. civ., in riferimento all’art. 360, n. 3, cod. proc. civ., nonché omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione in ordine ad un punto decisivo della controversia, prospettato dalle parti o rilevabile d’ufficio, in riferimento all’art. 360, n. 5, cod. proc. civ.”‘. Deduce che non è stata fatta corretta applicazione del principio costantemente ribadito dalla Suprema Corte secondo il quale la gravità degli addebiti va scrutinata, al fine di verificare il rispetto della regola codicistica di proporzionalità della sanzione esplulsiva, sulla base di una serie di elementi che non possono certo esaurirsi nelle dirette conseguenze meramente economiche prodotte al datore di lavoro dalla condotta contestata, ma debbono riguardare sia il grado di responsabilità collegato alle mansioni affidate al lavoratore, sia le modalità della condotta, specie se rivelatrice di una particolare propensione alla trasgressione, sia l’incidenza dei fatti sulla permanenza del vincolo fiduciario che caratterizza lo specifico rapporto di lavoro. Evidenzia che la Corte territoriale non ha tenuto conto dei documenti da cui risultavano precedenti disciplinari specifici.

 3. Premessa l’applicabilità ratione temporis dell’art. 366 bis cod. proc. civ. (essendo stata impugnata una sentenza depositata il 25/7/2008), vanno preliminarmente rilevati plurimi profili di inammissibilità di ciascun motivo.

 Pur essendo, infatti, consentita, secondo la prevalente giurisprudenza di questa S.C., la formulazione di quesiti plurimi o comunque articolati in più punti, è tuttavia indispensabile che essi consistano in proposizioni intimamente connesse che, per la loro funzione unitaria, sotto il profilo logico e giuridico, risultino complessivamente idonee, pur sovrapponendosi parzialmente, a far comprendere senza equivoci la violazione denunciata ed a richiedere alla Corte di affermare un principio di diritto contrario a quello posto a base della decisione impugnata (cfr. ex plurimis Cass. 6 novembre 2008 n. 26737), così come è necessario che la proposizione di più profili di violazioni di legge si concluda con la formulazione di tanti quesiti per quanti sono i profili fra loro autonomi e differenziati (cfr, Cass. S.U. 9 marzo 2009 n. 5624).

 Orbene, nella specie, ogni denuncia di vizio di motivazione si sarebbe dovuta concludere, per costante giurisprudenza di questa S.C., con un momento di sintesi del singolo fatto controverso e decisivo, per circoscriverne puntualmente i limiti in maniera da non ingenerare incertezze in sede di redazione del ricorso e di valutazione della sua ammissibilità (cfr., ex aliis, Cass. S.U. 1 ottobre 2007 n. 20603; Cass. 25 febbraio 2008 n. 4719; id. 30 dicembre 2009 n. 27680), momento di sintesi che – invece – manca del tutto in ognuno dei mezzi formulati dal ricorrente.

 Altro profilo di inammissibilità si rileva nella formulazione dei quesiti afferenti le denunciate violazioni di legge.

 Deve, infatti, considerarsi che il quesito di diritto imposto dall’art. 366 bis cod. proc. civ., rispondendo all’esigenza di soddisfare l’interesse del ricorrente ad una decisione della lite diversa da quella cui è pervenuta la sentenza impugnata, ed al tempo stesso, con una più ampia valenza, di enucleare, collaborando alla funzione nomofilattica della Suprema Corte di Cassazione, il principio di diritto applicabile alla fattispecie, costituisce il punto di congiunzione tra la risoluzione del caso specifico e l’enunciazione del principio generale: in conseguenza, tale Quesito non può consistere in una mera richiesta di accoglimento del motivo o nell’interpello della Corte di legittimità in ordine alla fondatezza della censura così come illustrata nello svolgimento dello stesso motivo, ma deve costituire la chiave di lettura delle ragioni esposte e porre la Corte in condizione di rispondere ad esso con l’enunciazione di una regola iuris che sia, in quanto tale, suscettibile di ricevere applicazione in casi ulteriori rispetto a quello sottoposto all’esame del giudice che ha pronunciato la sentenza impugnata (cfr., ex plurimis, Cass. 9 maggio 2008, n. 11535; id. 25 settembre 2007, n. 19892).

 Conseguentemente è inammissibile non solo il ricorso nel quale il suddetto quesito manchi, ma anche quello nel quale sia formulato in modo inconferente rispetto alla illustrazione dei motivi di impugnazione; ovvero sia formulato in modo implicito, si da dovere essere ricavato per via di interpretazione dal giudice; od ancora sia formulato in modo tale da richiedere alla Corte un inammissibile accertamento di fatto; od, infine, sia formulato in modo del tutto generico (cfr, ex plurimis, Cass., SU, 28 settembre 2007 n. 20360 già cit.).

 Nel caso che ci occupa i quesiti formulati in relazione ai motivi denuncianti violazioni di legge non rispettano quanto prescritto dal ridetto art. 366 bis cod. proc. civ..

 Innanzi tutto gli stessi sono formulati in termini assolutamente generici, senza alcuno specifico riferimento alla questione controversa, tanto che, quale che fosse la risposta che gli si volesse dare, non potrebbe di per sé condurre alla decisione (in un senso o nell’altro) della causa.

 I quesiti, inoltre, non enunciano una regula iuris, limitandosi in sostanza all’interpello della Corte sulla fondatezza delle doglianze svolte e danno per presupposto un accertamento fattuale sulla sussistenza delle circostanze dedotte inammissibile in sede di legittimità.

 Con specifico riferimento al secondo motivo, la ricorrente, con le censure come sopra riassunte, non procede alla estrazione dalla applicazione che la sentenza impugnata fa della nozione di giusta causa e di quella di proporzionalità della sanzione disciplinare di cui all’art. 2106 cod. civ. una specificazione puntuale ed astratta per poi censurarla ai sensi dell’art. 360, n. 3, cod. proc. civ., in quanto errata in diritto e contrastante con l’integrazione della norma operata dalla giurisprudenza di questa Corte, ma si limita, invocando tale giurisprudenza nelle sue molteplici esplicazioni, a rivalutare i fatti di causa – con argomentazioni, peraltro, già sviluppate in grado di appello e a cui la sentenza ha fornito adeguate risposte, dimostrando di avere tenuto conto del complesso di quelle argomentazioni – ed a concludere nel senso della riconducibilità del fatto alla fattispecie legale considerata.

 Con tale operazione, la ricorrente, limitando sostanzialmente le proprie censure alla motivazione della sentenza impugnata (nonostante la formale deduzione di vizi di violazione di legge), tenta in realtà in maniera inammissibile di proporre a questa Corte una diversa valutazione di merito in ordine ai fatti e alle prove operata nei due gradi di giudizio.

 Quanto al primo motivo vi è anche da rilevare un difetto di autosufficienza laddove viene censurato il passaggio motivazionale in cui viene detto che le condizioni di lavoro non avevano formato oggetto di puntuale contestazione da parte della convenuta ma non anche indicato in quale parte della comparsa di costituzione nel giudizio di primo grado ed in che termini tale contestazione sia stata formulata.

 Eguale difetto di autosufficienza è da rilevare con riguardo al secondo motivo nel quale si controverte in ordine all’esistenza di documenti da cui risultava un ulteriore provvedimento disciplinare a carico del M. .

 Sul punto va, infatti, ricordato che il ricorrente per cassazione che intenda dolersi dell’omessa od erronea valutazione di un documento da parte del giudice di merito, ha il duplice onere – imposto dall’art. 366, primo comma, n. 6, cod. proc. civ. e dall’art. 369, secondo comma, n. 4 cod. proc. civ., a pena di improcedibilità del ricorso – di indicare esattamente nel ricorso in quale fase processuale ed in quale fascicolo di parte si trovi il documento in questione, e di indicarne il contenuto, trascrivendolo o riassumendolo nel ricorso.

 La giurisprudenza di questa Corte afferma che, ai fini del rituale adempimento dell’onere di cui art. 366, primo comma, n. 6, cod. proc. civ., è necessario che, in ossequio al principio di autosufficienza del ricorso, si provveda anche alla individuazione degli atti su cui il ricorso di fonda con riferimento alla sequenza di documentazione dello svolgimento del processo nel suo complesso, come pervenuta presso la Corte di Cassazione, al fine di renderne possibile l’esame (Cass. 23 marzo 2010 n. 6937; analogamente, Cass. 23 gennaio 2009 n. 1707 secondo cui: “In tema di ricorso per cassazione, gli elementi dedotti con il ricorso, che non siano rilevabili d’ufficio, assumono rilievo in quanto siano stati ritualmente acquisiti nel dibattito processuale nella loro materiale consistenza, nella loro pregressa deduzione e nella loro processuale rilevanza, quale potenzialità probatoria che consenta di giungere ad una diversa soluzione, ed in sede di legittimità siano rievocati in modo autosufficiente”). La giurisprudenza delle Sezioni Unite di questa Corte ha, poi, precisato, che l’ulteriore onere di cui all’art. 369 cod. proc. civ., comma 2, n. 4, deve ritenersi soddisfatto, quanto agli atti e ai documenti contenuti nel fascicolo di parte, anche mediante la produzione del fascicolo nel quale siano contenuti gli atti e i documenti su cui il ricorso si fonda, ferma in ogni caso l’esigenza di specifica indicazione, a pena di inammissibilità ai sensi dell’art. 366 cod. proc. civ., n. 6, degli atti, dei documenti e dei dati necessari al reperimento degli stessi (cfr. Cass. S.U. 3 novembre 20 Un. 22726).

 Orbene, nel caso di specie, con riferimento ai documenti asseritamente pretermessi nella valutazione della Corte territoriale, risulta solo riportata una indicazione numerica (doc. 7, 8, 9, 10, 11 e 12) verosimilmente riferita all’indice del fascicolo ove gli stessi risulterebbero prodotti ma ciò non consente di ritenere soddisfatta l’esigenza di specificità e completezza nei termini sopra riportati. Manca, infatti, nel ricorso ogni descrizione degli argomenti ovvero delle deduzioni che, in relazione alla posizione assunta dalla società in giudizio, siano stati formulati, nella sede di merito, sulla base dei documenti citati. In sostanza, pur a fronte di un preciso onere di allegare, per evitare una statuizione di inammissibilità per novità della questione, l’avvenuta deduzione dinanzi al giudice di merito, non vengono precisati nel ricorso per cassazione gli assunti svolti nel giudizio a quo in relazione ai documenti dai quale la parte vorrebbe trarre ora argomenti a favore della propria tesi (non è sufficiente che un documento sia stato prodotto nel giudizio di merito, essendo necessario che lo stesso sia stato posto a fondamento delle ragioni esposte).

 4. Entrambi i motivi sono, in ogni caso, infondati.

 Quanto al primo va, innanzi tutto, rilevato che la tesi del lavoratore non è mai stata quella di negare la mancata emissione degli scontrini, bensì quella di imputare l’accaduto alla presenza di circostanze impeditive della corretta prestazione lavorativa e ciò perché gli era stata contestata la sola mancata emissione degli scontrini e non anche l’appropriazione del denaro. In buona sostanza, il lavoratore aveva, sin dalla prospettazione di cui al ricorso introduttivo del giudizio (per quanto si rileva dal contenuto dello stesso come riprodotto dalla stessa società odierna ricorrente), fatto riferimento ad una giornaliera considerevole affluenza di clienti, ad un elevato numero di scontrini emessi ogni giorno (circa 5.000), ad un sistema di vendita che consentiva ai clienti di prelevare la mercé dal frigo bar e presentarsi alla cassa per il pagamento.

 Orbene correttamente la Corte territoriale ha ritenuto che tali circostanze, delineanti il contorno in cui l’episodio contestato era avvenuto, non fossero state contestate dalla Cremonini S.p.A. e ciò risulta tanto più evidente da quanto specificato dalla società a pag. 12 del ricorso per cassazione, laddove la stessa riporta un passaggio della propria memoria di costituzione nel giudizio di primo grado in cui aveva evidenziato che “la giustificazione offerta da controparte, che sostiene che la mancata emissione degli scontrini fiscali è determinata da situazioni particolarmente convulse all’interno del bar in cui si rileva una considerevole affluenza di clienti” non poteva considerarsi rilevante. Come appare chiaro, dunque, la società non aveva contestato, in punto di fatto, le prospettate condizioni di lavoro come descritte dal ricorrente (con la conseguenza che ]e stesse potevano essere considerate incontroverse e non richiedenti una specifica dimostrazione) limitandosi ad eccepirne la valenza quali elementi di giustificazione.

 In conseguenza, tali circostanze fattuali ben potevano essere considerate incontroverse e non richiedenti una specifica dimostrazione risultandone, pertanto, legittima la definitiva acquisizione sul piano probatorio, ai sensi dell’art. 416, terzo comma, cod. proc. civ..

 Quanto alla ritenuta incontestata “cecità” delle casse, le doglianze della società ricorrente non colgono nel senso sol che si consideri che la Corte territoriale ha sostanzialmente escluso ogni autonoma rilevanza di tale circostanza evidenziando che incombeva sulla società fornire la prova delle modalità di consegna dell’incasso giornaliero e delle modalità di riscontro tra scontrini emessi, merci esitate e contanti consegnati (e, dunque, la prova dell’affidamento in via esclusiva al M. del controllo giornaliero delle operazioni e degli incassi) e che la ipotizzata (ma non formalmente contestata) appropriazione poteva essere stata commessa da chiunque altro fosse entrato in contatto con le somme incassate, in qualsiasi momento del processo esecutivo.

 Con riguardo al secondo motivo, va osservato che il giudizio di proporzionalità tra licenziamento disciplinare e addebito contestato è devoluto al giudice di merito, la cui valutazione non è censurabile in sede di legittimità, ove sorretta da motivazione sufficiente e non contraddittoria (cfr. ex multis Cass. 15 novembre 2006, n. 24349; id. 7 aprile 2011, n. 7948; 25 maggio 2012, n. 8293).

 Inoltre, per costante giurisprudenza di questa Corte Suprema – da cui non si ravvisa motivo alcuno di discostarsi – il vizio di omessa o insufficiente motivazione, deducibile in sede di legittimità ex art. 360, n. 5, cod. proc. civ. (come novellato ex legge n. 40 del 2006), sussiste solo se nel ragionamento del giudice di merito, quale risulta dalla sentenza, sia riscontrabile il mancato o deficiente esame di un fatto decisivo della controversia, potendosi in sede di legittimità controllare unicamente sotto il profilo logico – formale la valutazione operata dal giudice del merito, soltanto al quale spetta individuare le fonti del proprio convincimento e, all’uopo, valutare le prove, controllarne l’attendibilità e la concludenza e scegliere, tra esse, quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione (cfr., ex aliis, Cass. S.U. 11 giugno 1998 n. 5802 e innumerevoli successive pronunce conformi).

 Ciò precisato va rilevato che il ricorrente costruisce le proprie doglianze su un preciso presupposto e cioè che la Corte territoriale abbia ritenuto contestato un comportamento ulteriore rispetto alla mancata emissione dello scontrino fiscale (e cioè il mancato versamento nelle casse della società dell’incasso relativo alla vendita dei prodotti senza emissione di scontrino id est l’appropriazione da parte del M. di tale incasso).

 Tuttavia la Corte territoriale non ha affatto dato per scontato il suddetto presupposto ed anzi ha così espressamente statuito: “è la stessa appellante principale a fornire una lettura autentica della contestazione mossa al M. laddove (pag. 4 delle note autorizzate depositate il 27 giugno 2004) lapidariamente afferma che la Cremonini S.p.A. ha contestato il fatto in sé (mancata emissione dello scontrino) non già l’appropriazione del denaro da parte del dipendente” ed ancora: “tuttavia deve osservarsi che l’addebito di appropriazione (in ipotesi, necessariamente dolosa ed integrante il reato perseguibile d’ufficio di cui agli artt. 646 e 61 n. 11 cod. pen.) non solo non è formalmente mosso al M. ma soprattutto, ove si volesse ritenere implicita l’accusa, non è provato” nonché “nessuna prova certa v’è in atti circa l’appropriazione da parte del M. (che, si ribadisce, non è formalmente contestata, ma solo ipotizzata quale implicita conseguenza della contestazione formale)”.

È del tutto evidente che, se tale è stato il convincimento del giudice di merito (sulla base anche di una interpretazione della lettera di contestazione che non ha formato, in questa sede, oggetto di specifico rilievo), la valutazione della gravità del comportamento è stata parametrata rispetto al solo fatto attribuito al M. e cioè rispetto alla mancata emissione degli scontrini fiscali in un contesto lavorativo quale quello di cui sopra si è detto, tenuto altresì conto del riconoscimento da parte del M. della veridicità dei rilievi che gli erano stati mossi.

 Correttamente, poi, la Corte, ha utilizzato la normativa contrattuale al fine di esprimere il proprio giudizio di valore necessario per integrare una norma elastica quale è configurata la giusta causa del licenziamento di cui all’art. 2119 cod. civ. (cfr. Cass. 15 aprile 2005 n. 7838 secondo cui: “La giusta causa di licenziamento, quale fatto che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto, è una nozione che la legge – allo scopo di un adeguamento delle norme alla realtà da disciplinare, articolata e mutevole nel tempo – configura con una disposizione (ascrivibile alla tipologia delle cosiddette clausole generali) di limitato contenuto, delineante un modulo generico che richiede di essere specificato in sede interpretativa, mediante la valorizzazione sia di fattori esterni relativi alla coscienza generale, sia di principi che la stessa disposizione tacitamente richiama. Tali specificazioni del parametro normativo hanno natura giuridica e la loro disapplicazione è quindi deducibile in sede di legittimità come violazione di legge, mentre l’accertamento della concreta ricorrenza, nel fatto dedotto in giudizio, degli elementi che integrano il parametro normativo e le sue specificazioni, e della loro concreta attitudine a costituire giusta causa di licenziamento, si pone sul diverso piano del giudizio di fatto, demandato al giudice di merito e incensurabile in cassazione se privo di errori logici o giuridici. Pertanto, l’operazione valutativa compiuta dal giudice di merito nell’applicare le clausole generali come quella dell’art. 2119 cod. civ., che, in tema di licenziamento per giusta causa, detta una tipica norma elastica, non sfugge ad una verifica in sede di giudizio di legittimità, sotto il profilo della correttezza del metodo seguito nell’applicazione della clausola generale, poiché l’operatività in concreto di norme di tale tipo deve rispettare criteri e principi desumibili dall’ordinamento generale, a cominciare dai principi costituzionali e dalla disciplina particolare (anche collettiva) in cui la fattispecie si colloca” ed in senso sostanzialmente conforme Cass. 12 agosto 2009 n. 18247; id. 13 dicembre 2010 n. 25144).

 Orbene nella specie il giudice di merito ha attribuito concretezza a quella parte “mobile” della disposizione utilizzando, appunto, la normativa contrattuale quale parametro indicativo di comportamenti implicanti, per scelta delle parti stipulanti, una concreta lesione del vincolo fiduciario.

 Così ha ritenuto che la previsione pattizia del licenziamento in tronco in relazione a condotte “dolose” o comunque causative di “danni oggettivamente gravi” costituisse un chiaro parametro di riferimento per ritenere che, nella specie, in ragione della concreta modalità della contestazione (“esclusa…. la configurabilità dell’appropriazione indebita aggravata”) e della circostanza che vi fosse stata solo una esposizione a pericolo di danno per i riflessi fiscali delle irregolarità riscontrate, alcuna irrimediabilmente lesione del vincolo fiduciario risultasse integrata.

 Non può, invero, dubitarsi della correttezza del metodo seguito nell’applicazione della clausola generale, poiché l’operatività in concreto di norme di tale tipo deve rispettare criteri e principi desumibili dall’ordinamento generale, a cominciare dai principi costituzionali e dalla disciplina particolare (anche collettiva) in cui la fattispecie si colloca.

 L’esclusione, poi, di una condotta “dolosa” ha reso irrilevante, ai fini della ridetta irrimediabile lesione del vincolo fiduciario, la specifica natura delle mansioni esercitate.

 4. Da quanto tutto quanto precede consegue che il ricorso deve essere rigettato.

 5. Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo, dovendo farsi applicazione del nuovo sistema di liquidazione dei compensi agli avvocati di cui al D.M. 20 luglio 2012, n. 140. Al riguardo va precisato che l’art. 9 del Decreto legge 24 gennaio 2012 n. 1, convertito, con modificazioni, in legge 24 marzo 2012, n. 27, dispone: “1. Sono abrogate le tariffe delle professioni regolamentate nel sistema ordinistico. 2. Ferma restando l’abrogazione di cui al comma 1, nel caso di liquidazione da parte di un organo giurisdizionale, il compenso del professionista è determinato con riferimento a parametri stabiliti con decreto del Ministro vigilante, da adottare nel termine di centoventi giorni successivi alla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, (omissis) 3. Le tariffe vigenti alla data di entrata in vigore del presente decreto continuano ad applicarsi, limitatamente alla liquidazione delle spese giudiziali, fino alla data di entrata in vigore dei decreti ministeriali di cui al comma 2 e, comunque, non oltre il centoventesimo giorno dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto”. Con Decreto 20 luglio 2012, n. 140, è stato, quindi, emanato il Regolamento recante la determinazione dei parametri per la liquidazione da parte di un organo giurisdizionale dei compensi per le professioni vigilate dal Ministero della giustizia, ai sensi del citato articolo 9. Il Regolamento trova applicazione in difetto di accordo tra le parti in ordine al compenso (art. 1 d.m. 140/2012 in riferimento all’art. 9, comma 4, d.l. n. 1/2012, conv. 1. 24 marzo 2012 n. 27). L’art. 41 di tale Decreto n. 140/2012, aprendo il Capo VII relativo alla disciplina transitoria, stabilisce che le disposizioni regolamentari introdotte si applicano alle liquidazioni successive all’entrata in vigore del Decreto stesso, avvenuta il 23 agosto 2012.

 Il riferimento testuale al momento della liquidazione contenuto nell’art. 41 citato (“le disposizioni di cui al presente decreto si applicano alle liquidazioni successive alla sua entrata in vigore”) depone per la soluzione interpretativa che porta a ritenere applicabile la nuova disciplina anche ai casi in cui le attività difensive si siano svolte o siano comunque iniziate nella vigenza dell’abrogato sistema tariffario forense.

 Nel nuovo sistema, che non prevede più la distinzione tra diritti e onorari, ma esige che la valutazione dell’opera del professionista avvenga per fasi processuali (artt. 4 e 11) e secondo parametri specifici (art. 11 e tabella A-Avvocati), l’apprezzamento dell’attività difensiva, alla stregua dei criteri di cui al secondo e terzo comma dell’art. 4, non è più correlato al momento in cui l’opera è prestata, ma al momento in cui questa viene valutata dal giudice.

 Qualsiasi diversa soluzione interpretativa che consentisse l’applicazione del sistema tariffario alle liquidazioni successive all’entrata in vigore del d.m. in esame contrasterebbe non solo con la disposizione regolamentare di cui all’art, 41 citato, ma anche con il dettato normativo di cui al comma terzo dell’art. 9, d.l. n. 1/2012, conv. l. 24 marzo 2012 n. 27, che ha – con chiarezza – escluso l’ultrattività del sistema tariffario oltre la data di entrata in vigore del decreto ministeriale, avvenuta anteriormente alla scadenza del termine (di centoventi giorni dalla data di entrata in vigore della legge di conversione) fissato per la transitoria applicazione del sistema tariffario abrogato.

 Avuto riguardo allo scaglione di riferimento della causa; considerati i parametri generali indicati nel menzionato art. 4 del D.M. e non ravvisandosi elementi che giustifichino un discostamento dal valore medio di riferimento indicato per ciascuna delle tre fasi previste per il giudizio di cassazione (fase di studio, fase introduttiva e fase decisoria) nella allegata Tabella A i compensi sono liquidati nella misura omnicomprensiva di Euro 3.000,00, oltre Euro 40,00 per esborsi.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso; condanna la società ricorrente al pagamento, il favore di controparte, delle spese del presente giudizio di legittimità che liquida in Euro 40,00 per esborsi ed Euro 3.000,00 per compensi, oltre accessori di legge.

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